Le figlie della Morte
Prova scritta per il Winter Writing Contest del WritinwithyouProject
Traccia: Dovete creare una mito sulla nascita e la morte dell'uomo, in particolare spiegando perchè noi nasciamo e moriamo.
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Sono io la morte e porto corona,
io son di tutti voi signora e padrona
e davanti alla mia falce il capo tu dovrai chinare
e dell'oscura morte al passo andare.
C'era, in un'epoca lontanissima, oramai dimenticata, un tempo in cui al mondo vi erano solamente due coniugi: Vita e Morte. Questi erano diversi come il giorno e la notte, il diavolo e l'acqua santa, ma nondimeno si amavano di un amore puro, forte, sconquassante e non v'era cosa che l'uno non avrebbe fatto per l'altra.
Vita era un uomo alto e possente, dai lucenti capelli biondi che gli ricadevano sulla fronte alta e spaziosa in un ciuffo ribelle e dagli occhi talmente azzurri da apparire quasi bianchi, incorniciati da lunghe e folte ciglia del medesimo colore dei capelli; gli occhi chiarissimi spiccavano ancor di più sul suo volto a causa della tonalità della pelle: ambrata, baciata dal sole, ritratto della salute. Morte, invece, era una donnina bassa e talmente magra che la sua pelle, sottile e diafana, nulla poteva contro la sporgenza delle coste; aveva lunghi capelli corvini che portava spesso acconciati in una treccia, che le ricadeva mollemente sul petto smunto, occhi neri come la notte, ma luminosi come diamanti, e guance scavate, che mettevano ancora più in evidenza un paio di labbra rosse e carnose.
Marito e moglie erano tanto dissimili nell'aspetto fisico quanto nel carattere: buono e pacato, Vita era un uomo tendenzialmente ingenuo e malleabile, cui bastava godere delle bellezze che la vegetazione e la fauna circostante gli regalavano ogni giorno per essere felice; Morte, al contrario, era una donna furba, irascibile, scontrosa e impertinente e terribilmente annoiata e insoddisfatta per natura.
Nell'ultimo periodo, però, suddetta insoddisfazione era cresciuta a dismisura, mutando in una smania intollerabile, tale da farle venire l'orticaria; era pervasa da una reale voglia di strapparsi la pelle di dosso a forza di graffiarsi con le lunghe unghie, tanto era frustrata dal pigro e monotono incedere della sua esistenza.
A nulla servivano gli infusi di camomilla ed erbe aromatiche che Vita le preparava ogni mattina allo scopo di distendere i suoi nervi tesi e nemmeno i massaggi che le dedicava, nelle pause tra una faccenda e l'altra: ella era pericolosamente scontenta e il suo umore talmente tetro che, ovunque posasse i suoi piedi, l'erba avvizziva, le foglie rinsecchivano, i fiori si afflosciavano sul suolo riarso e nubi nere e gonfie ricoprivano il cielo, gettando un'ombra scura sui suoi passi.
Ogni giorno, suo marito, preoccupato dalla piega che gli eventi avevano preso, cercava un modo per farla sorridere: quando un fiore appena sbocciato, quando un tramonto, quando una parola dolce, ma Morte era irremovibile e, anzi, diventava un po' più irritabile ogni amorevole gesto dopo l'altro.
Un mattino, Vita, mentre, seduto sul limitare della rupe su cui sorgeva il luogo in cui viveva con la consorte, osservava le prime luci dell'alba illuminare l'ambiente circostante, ebbe un'idea: sapeva cosa fare per distrarre sua moglie dallo stato di insoddisfazione perenne in cui versava.
Prese del sale e della farina [1], vi aggiunse un suo capello color del grano e dell'acqua tiepida e mescolò fino ad avere tra le mani un composto omogeneo e malleabile. Quindi, divise la pasta di sale così ottenuta in tre gruppetti e in uno aggiunse della corteccia d'albero, così che diventò marrone; in un altro dei petali di girasole, così da renderlo giallo; nell'ultimo, invece, non aggiunse nulla, mantenendolo del suo colore originale.
Da ogni gruppo creò dei semi, che lasciò essicare al sole per alcuni minuti; una volta pronti, discese nella radura sottostante e li seminò nella terra morbida e fertile.
Giorno dopo giorno, osservò pazientemente i germogli che aveva piantato crescere e proliferare, finché le creature che aveva in mente, gli Umani, non presero forma. Questi avevano fattezze antropomorfe tanto quanto lui e la sua consorte: alcuni erano uomini, altri donne e, nonostante fossero di colore diverso, sembravano non dare peso a tale tratto che li contraddistingueva, mostrando un ottimo spirito di aggregazione e un'impeccabile capacità di interazione reciproca.
Giudicandoli ancora in numero insufficiente, Vita mise nell'acqua degli uomini la stessa farina e lo stesso sale di cui si era servito per il composto originario, così da renderli, a loro volta, capaci di creare dei semi, e nel cibo delle donne la stessa terra in cui lui aveva piantato i germogli, così da renderle feconde: donò loro, dunque, la capacità di proliferare, unendosi.
Finalmente un giorno, quando il sole splendeva alto nel cielo, rendendo possibile ammirare alla perfezione le creature brulicanti che popolavano la valle, chiamò sua moglie a gran voce e le mostrò la sua opera.
"Cos'è?" chiese Morte, con gli occhi che brillavano per la curiosità e per la gioia della novità.
"Gli Umani" rispose Vita. "Li ho creati per te, così che tu possa distrarti e trarre sollievo dalla tua noia osservando loro e le loro abitudini."
"Cosa sanno fare?"
"Tutto, mia adorata moglie. Sanno vedere, udire, parlare, interagire tra loro, cacciare, pescare e ogni cosa che ti possa venire in mente; possiedono anche una spiccata capacità di apprendere tutto ciò che decidiamo di insegnare loro. Inoltre, sanno amare: possono scegliere una compagna o un compagno e con lei o lui decidere di perpetrare la loro stirpe."
Senza attendere oltre, dopo essersi lasciata andare a una profusione di effusioni riversate sul suo premuroso coniuge, Morte si lanciò nei meandri della valle, mescolandosi agli Umani e studiando i loro comportamenti. Finalmente, le sue giornate erano piene, ricche di cose da fare e osservare e ogni mattina si svegliava più felice della precedente, vogliosa di scoprire le creature che Vita aveva creato per lei.
Ben presto, però, si stancò anche di questo. Gli Umani le sembravano troppo piatti e assolutamente banali nelle loro azioni quotidiane: progressivamente, un giorno dopo l'altro, aveva iniziato ad essere nauseata da quel loro incedere spensierato, armonico, in sintonia gli uni con gli altri: uomini e donne, grandi e bambini, bianchi, gialli e neri; era nauseata, ancora, da quell'amore che dispensavano a profusione, da quella cieca fedeltà che dimostravano ai loro compagni, dal rispetto per l'altro di cui perfondevano ogni loro decisione, dalla più piccola alla più importante. Non v'era sofferenza, dolore, peccato.
In poco tempo aveva imparato non solo a conoscerli come le sue tasche, ma anche a immaginare tutte le loro azioni prima ancora che loro stessi le compissero: erano, ai suoi occhi, diventati troppo prevedibili e, di conseguenza, irrimediabilmente noiosi.
Così, pensò a cosa potesse fare per concedersi un po' di divertimento e, folgorata da una meravigliosa idea, decise di rivolgersi a Vita per metterla in atto. Seppure lo amasse profondamente e mai lo avrebbe voluto prendere in giro, era consapevole del fatto che fosse necessario ingannarlo per poterlo portare a concederle quello che desiderava: non avrebbe, altrimenti, ottenuto il via per creare tutto quello che aveva figurato.
"Caro marito" disse, col tono più suadente che riuscì a scovare nei recessi del suo animo "Temo di non riuscire a reprimere l'invidia che nutro nei confronti della tua capacità di dare forma a ogni idea che la tua mente partorisce: vorrei, solo per una volta, possedere il dono della creazione anch'io, così da poter rendere reali taluni dei miei desideri. Persino i tuoi Umani sono capaci, a loro modo, di creare!"
"E sia" le concesse Vita, guardandola con gli occhi ricolmi d'amore. Non avrebbe potuto negarle niente neanche se l'avesse voluto: il suo cuore glielo impediva. "Ma a una sola condizione: potrai creare solo sette creature e potrai farlo una sola volta."
"Benissimo, coniuge caro, benissimo." Morte si strofinò le mani, felice, mentre il suo piano iniziava a delinearsi perfettamente, proprio come l'aveva immaginato. "Sai, vorrei saper creare cose belle come le tue: guarda i tuoi figli, guarda come tutte le loro azioni appaiono giuste, ordinatamente incasellate in uno schema più grande di loro, quasi come le ruote ben oliate di un ingranaggio che funziona alla perfezione, senza mai intoppi."
Vita osservò, fiero, le sue creature: erano laboriose, serene, felici.
Ne era davvero orgoglioso.
"Eppure" proseguì sua moglie "giusto stamane pensavo: vi potrebbe essere, per caso, qualcosa capace di distoglierli da tale linea di comportamento, qualcosa capace di dimostrare loro come un'azione peccaminosa possa essere ancor più appetibile del loro costante incedere, seppure a discapito della loro moralità e rettitudine?"
"Impossibile" rispose Vita. "Loro sono estremamente felici e appagati così, i loro cuori sono chiusi a ogni tipo di tentazione."
"Ne sei certo?"
"Nemmeno l'ombra di un dubbio sfiora la mia mente, d'altronde sono i miei figli: so chi sono."
"E dunque, mio adorato marito, se sei così sicuro facciamo una scommessa: se si lasceranno tentare, se lasceranno che le mie creature corrompano la loro anima, gettando il buio sulle loro azioni, rendendole empie, indegne, allora vincerò io e potrò dare vita ad altre sette creature un'ultima, sola, volta; se vincerai tu, me ne starò qui, buona buona, e accetterò la sconfitta senza proferire verbo. Cosa ne dici?"
"Accetto, Morte cara, accetto e ti concedo un anno: se, alla fine del tempo stabilito, le anime degli Umani saranno corrotte, ti lascerò dare nuovamente vita a sette creature, ma se nulla accadrà, allora mai più avrai il permesso di avanzare una simile richiesta."
Morte si dichiarò soddisfatta e, entusiasta, accettò le condizioni che Vita le imponeva; quest'ultimo, dal canto suo, le donò un piccolo mortaio e un pestello, entrambi in pietra, e le disse che avrebbe potuto dare forma a tutto quello che desiderava: sarebbe bastato seminare il composto, ottenuto pestando gli ingredienti nel mortaio, nella terra feconda e aspettare che i frutti del suo lavoro crescessero rigogliosi.
Senza farselo ripetere, Morte si mise al lavoro: per tutta la notte, rimestando, pestando, cantando e ballando, senza concedersi nemmeno un minuto di pausa, creò sette diversi composti, cui aggiunse una goccia del suo sangue, e, come i primi uccelli del nuovo giorno iniziarono a cinguettare, prima che l'ultimo stralcio della notte venisse ingoiato dai raggi del sole, seminò il tutto ai piedi di una quercia nodosa, la più alta e maestosa.
Trascorso un giorno, allo scoccare della mezzanotte, tra le grosse radici dell'albero secolare, nacquero sette sorelle, tutte dotate di immensa bellezza. Queste ricevettero precise istruzioni dalla loro Madre e, col favore del buio di quella notte priva di luna, si mescolarono agli Umani.
Dopo un anno, Morte invitò suo marito a scendere con lei nella vallata e osservare da vicino le sue creature: lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi fu, per lui, devastante.
Nel suo mondo regnava il caos.
Taluni passeggiavano ricoperti di pelliccie e monili, scrutando con cupidigia tutto quello su cui si posavano i loro occhi e rubando con la forza ogni cosa risultasse loro appetibile e meritevole d'essere posseduta; tra di loro, la più riccamente vestita, adornata, la ladra più abile, era una delle sette figlie della Morte: Avarizia.
Altri erano nudi e, accompagnati nei loro movimenti da Lussuria, si abbandonavano ai piaceri della carne come fossero bestie, mossi da puro istinto primordiale; irriconoscibili, lascivi, cercavano di toccare e leccare, smaniosi, ogni lembo di pelle, ogni punto erogeno di se stessi e dei loro compagni, fossero questi donne o uomini, anche contemporaneamente.
Più lontano, un capannello di Umani osservava, bramoso, i beni posseduti dal primo gruppo di uomini e le azioni compiute dal secondo, mentre Invidia sussurrava nelle loro orecchie parole d'odio e Ira instillava nei loro cuori un cupo seme di vendetta, una cieca furia, tale da non lasciare spazio ad alcun sentimento che non fosse profonda avversione e desiderio di compiere del male.
Ai margini della valle, alcuni uomini e donne erano distesi sull'erba soffice, e, incuranti degli animali che correvano qua e là senza ordine alcuno o della sporcizia che insozzava le loro abitazioni e le loro vesti, erano impegnati, indolenti e inerti, a godere, insieme ad Accidia, dei tiepidi raggi del sole, che splendeva alto nel cielo; immersi nei cespugli, nel frattempo, altri Umani si ingozzavano di ingenti quantità di frutti succulenti, riempiendo il volto e le mani di polpa e semi nella foga del loro pasto, sottraendo ai compagni tutto il cibo che erano capaci di arraffare: quando non vi riuscivano, Gola provvedeva a rifornirli di ogni ben di Dio.
Poco lontano, professando la distanza da qualsivoglia attività i loro stessi amici e parenti compivano, rimirando la loro immagine nello specchio di uno stagno e profondendosi in continui complimenti verso la propria immagine e la propria capacità di non mischiarsi in tali empi comportamenti, stavano Superbia e un altro gruppo di Umani.
"Ebbene, mio dolce marito?" chiese Morte, sorridendo e indicando a Vita l'obbrobrioso spettacolo con un ampio gesto della mano. "Chi ha vinto la scommessa?"
"Mi duole ammetterlo" rispose Vita piangendo, incapace, persino di fronte alla sua più grande delusione, di nutrire alcun sentimento che non fosse un profondo dispiacere e vergogna per quello che i suoi figli erano diventati, "ma temo abbia ragione tu. Le mie creature sono deboli, i loro cuori sono malleabili come argilla e le loro volontà cedevoli come giunchi. Ti concedo, consapevole della mia sconfitta, di dare vita ad altre sette creature. Nel frattempo, io continuerò a sperare e continuerò a mostrare agli Umani le bellezze di una Vita retta, degna d'essere vissuta, e non avrò pace finchè non li avrò convertiti a tale tipo di esistenza, espiando la mia colpa: il mio terribile errore di valutazione."
"Suvvia, marito caro, non essere così duro con te stesso: non devi biasimarti se le tue creature sono talmente inette e imperfette. La tua unica colpa è stata quella di considerarle molto più di quanto queste in realtà non siano: giocattoli senza valore, invero, oggetti creati al solo scopo di distrarre e divertire la Morte."
Dopo aver accarezzato la guancia del marito e averlo dolcemente baciato sulle labbra, ella si allontanò, felice e spensierata come non mai, pronta a riprendere per l'ultima volta in mano mortaio e pestello. Come la volta precedente, preparò sette composti e li sotterrò: allo scoccare della mezzanotte nacquero Violenza, Carestia, Malattia, Assassinio, Guerra e Pestilenza. Qualche ora dopo, all'alba, in notevole ritardo, intrisa di una certa bontà, perchè seminata laddove era casualmente caduta una lacrima di Vita, nacque l'ultima sorella: Vecchiaia.
Esse, istruite dalla loro creatrice, andarono tra gli Umani, con lo scopo di svuotare i loro corpi dallo spirito vitale che li animava.
Uomini e donne, nel corso degli anni, proliferarono e occuparono non solo la valle, ma ogni parte del mondo, sempre accompagnati da tutte le figlie della Morte che, dal canto suo, non soffrì mai più, nemmeno per un solo istante, di noia, troppo impegnata a suggerire a ognuna delle quattordici sorelle nuovi modi per stuzzicare l'animo umano, così da vederli rovinarsi con le loro stesse mani e poter strappare loro il prezioso dono elargito dal marito.
Vita, intanto, tiene ancora fede al patto stipulato con se stesso: soffia instancabilmente la sua linfa intrisa di speranza in ogni nuova creatura e viene ripagato del suo impegno ogni qualvolta un Umano, riconoscente, tratta il dono concessogli con tutto il rispetto dovuto, non cedendo a nessuna delle sette primogenite della Morte, pur rimanendo incapace di non dare, presto o tardi, il suo ultimo respiro alle secondogenite.
E i due coniugi? Continuano, come sempre, ad amarsi profondamente, un giorno dopo l'altro, nonostante tutte le loro divergenze, consapevoli che non potrebbe essere altrimenti: dove c'è Vita deve necessariamente esserci anche Morte e viceversa, in un equilibrio così perfetto da non poter mai essere spezzato.
Un paio di info rapide e indolori:
Il quadro in copertina è Il Trionfo della Morte all'Oratorio dei Disciplini di Clusone
Il componimento in calce, invece, è la Ballata in Fa diesis minore di Angelo Branduardi
[1] C'è del marcio in Danimarca e c'è della farina in questa storia: sono consapevole che la farina in un contesto del genere stoni tantissimo, ma mi sono concessa questa licenza poetica perché non sono riuscita a fare a meno di cedere al fascino della pasta di sale in luogo dei soliti composti d'argilla...
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