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#Bloopers 1 - Le figlie della morte

Ebbene, cari e care: come promesso a qualcuno di voi e nella speranza che possa incontrare anche il piacere degli altri, benvenuti alla prima edizione di "BLOOPERS".
Chi ha il piacere (o forse no) di leggermi, conosce il prodotto finito, la forma definitiva che ho deciso di concedere alle mie parole quando ho premuto il tasto "Pubblica", ma vive ignaro dei tentativi compiuti per arrivarci. A chiunque voglia rimanerlo, ignaro, consiglio di bypassare questo capitolo.

Da ciò, nasce l'idea di Bloopers: uno spazio (una rubrica?) in cui illustrarvi cosa mi è frullato per la testa, prima di arrivare alla pubblicazione. E spesso c'è da ridere.

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Per il primo episodio, vi delizio con questa perla: come alcuni di voi sanno, sto partecipando al Winter Writing Contest indetto dal WritinwithyouProject  , le cui giudici mi hanno messo in estrema difficoltà con la il prompt della seconda prova.

Cito testualmente:
Dovete creare una mito sulla nascita e la morte dell'uomo, in particolare spiegando perchè noi nasciamo e moriamo.

Punto.
Fine.

In un primo momento, a seguito della lettura, ho attraversato le cinque fasi del lutto, una per giorno:

1. Negazione/rifiuto: non è possibile, no Maria io esco, è stato bello, ma...

2. Rabbia:

3. Negoziazione: magari propongo di cambiare traccia......

4. Depressione:

5. Accettazione. E lì ho iniziato, finalmente, a scrivere qualcosa.

Dividerò le mie geniali idee in paragrafi.

(Disclaimer: 1. Nulla è stato revisionato, dal momento che non è stato pubblicato. Potrei aver disseminato errori come primule a primavera. 2. Nessun Rocci è stato maltrattato per la stesura delle mie idee.)

La sessione invernale

Nonostante abbia terminato l'università da oramai un anno e mezzo, sei anni di torture medievali hanno fatto sì che il trauma della sessione rimanesse impresso, sulla mia pelle e nei miei ricordi, brutale e vivido come il giorno in cui ho scoperto che era mia nonna a mangiare con gusto i biscotti che il 24 dicembre lasciavo come offerta a Babbo Natale.

Vuoi questo trauma, vuoi che il periodo era propizio, mi è saltata in testa questa fantastica idea: noi nasciamo in un pianeta X, cui avevo dato il nome di Amempto (dal greco amemptos: privo di vergogna, colpa o difetti, perfetto). Questo pianeta è governato da alcuni Togati, che avevo immaginato più o meno con queste fattezze

Nessuno di conosciuto, insomma, è la prima volta che vedete questo tizio, immagino, vero? Bene. Passiamo oltre.

I bambini nascono su Amempto, studiano le norme di buona condotta e civile convivenza per anni e, giunti all'età di diciott'anni, devono superare gli esami per poter accedere alla vita adulta su questo pianeta. Vengono, dunque, mandati sulla Terra, dove rinascono come neonati, perdono la memoria (ma non gli innati concetti che sono stati instillati nei loro cuori) e conducono la loro vita fino a vecchia e morte.

Fin qui, dovremmo esserci.

A questo punto, dopo la morte terrena, tornano sul pianeta come nerboruti e floridi diciottenni, recuperano la memoria e sono pronti a sostenere l'esame con i Togati. Se sono capaci di dimostrare di aver condotto una vita retta, allora 30 e lode, bacio accademico e si esce a comandare sul pianeta perfetto; se, invece, hanno compiuto peccati e malfatte, ci vediamo a prossimo appello e si ricomincia un altro ciclo di vita terrena.

Tutto chiaro?

Insomma: noi umani altro non siamo che diciottenni con gli ormoni imbizzarriti a primavera che stanno compiendo il loro periodo di prova prima di popolare una terra perfetta.

Come mi è venuto in mente? Che cazz mi sono andata a inventare? Non è dato sapere.

Abbastanza complicato, ingestibile e non del tutto funzionante, ma non escludo di scriverci una storiella in merito, dopo aver sistemato le cose, chissssssà.

Intanto, vi regalo uno stralcio di questa roba:

«Silenzio! Silenzio in aula!»

L'ampia Aula Magna dagli alti soffitti a volta, affrescata su ogni lato da sapienti pennellate, che delineavano il lussureggiante e ameno paesaggio dell'Amempto [1], con i suoi boschi solcati dai ruscelli e rigagnoli alimentati dalla Tuke [2], i fiori variopinti che aprivano pigri le corolle al sole perenne, i numerosi animali immersi nei loro habitat, era permeata da un concitato bisbigliare, che si interruppe istantaneamente nel momento in cui il Togato Alfa impose il silenzio.

I vecchi Togati, in un fruscio di seta color porpora e un dondolio di barbe canute, si diressero spediti verso il grande tavolo centrale che regnava incontrastato all'interno dell'Aula Magna.
Si accomodarono sulle poltrone di velluto, adagiando gli arti superiori sui braccioli intarsiati, e scrutarono gli allievi con le palpebre semi socchiuse: a uno sguardo attento non sarebbero sfuggite le minuscole pieghette d'espressione formatesi agli angoli degli occhi, unico segno d'espressione sul loro, altrimenti imperscrutabile, viso.

Dal canto loro, gli alunni erano lo specchio dei sentimenti contrastanti che si agitavano nei loro cuori. Felicità, impazienza, speranza, paura, ansia deformavano i loro volti nelle più disparate espressioni e muovevano le loro dita, che tamburellavano veloci sui quadricipiti che tendevano la tunica verde chiaro.

Il giorno dell'esame di maturità era il più importante della loro vita.

Le mani incartapecorite dell'Alfa spiegarono una pergamena color ocra, su cui erano vergati con una scrittura svolazzante i nomi degli Esaminandi del giorno.

«Esaminandi, Esaminande, benvenuti» esordì costui, con tono grave.

Jumanji

Dopo aver abbandonato l'idea di mondi perfetti, togati, adolescenti e compagnia, è arrivata la seconda illuminazione: il gioco di società.

Io, ideatrice del gioco del secolo de noantri, avevo pensato a tali Moglie e Marito (e qui iniziamo a intravedere le fila della mia storia definitiva...), che vivevano in questa casa situata di preciso non so dove, in un mondo che supponibilmente è popolato solo da 'sti due eroi. La Moglie sbrigava le faccende di casa con aspirapolveri e lavatrici, il Marito non si è ben capito che occupazione avesse, fondamentalmente ciondalava qua e là per questo improbabile universo.

Moglie è la solita insoddisfatta cronica, Marito il solito docile premuroso che cerca una soluzione alla vecchia rompic...uori e un giorno trova una scatola in soffitta.

Cito: Fu così che, quando un giorno Marito si presentò di fronte a lei con in mano una grossa scatola di cartone, logorata dal tempo, non si stupì del nervoso borbottio che ricevette in risposta: «Cosa ci dovrei fare, io, con questa cosa che puzza di vecchio? Portala subito fuori di qui, prima che sporchi tutto quanto di polvere e io debba, di nuovo, spazzare per terra.»

«Ma, mia cara» tentò Vita, con tono docile e accondiscente «lascia prima che ti spieghi cos'ho trovato in soffitta.»

Morte si mise più comoda in poltrona e lo osservò torva, calando le palpebre e le cespugliose sopracciglia aggrottate sugli occhi neri come la notte. Con un annoiato gesto della mano, intimò a Vita di continuare a parlare. «Ti do cinque minuti, non uno di meno, non uno di più.»

«Oh, bene, vedrò di sbrigarmi, allora. Ero in soffitta, questa matt-»

«Questo me l'hai già detto. Quattro minuti e mezzo.»

«Oh, sì, cara, certamente.» Piccole goccioline di sudore iniziarono ad imperlare la fronte di Marito, scendendo pigramente, fino a raggiungere la radice del naso. «Ho trovato questa scatola in un vecchio baule: credo sia un gioco di società, si chiama Pletos [1]. Ho pensato che potremmo aprirlo e curiosare, potrebbe essere un utile passatempo per le nostre giornate, non trovi?»

Pletos, dal greco gentaglia. No, non ho frequentato il liceo classico e no, non mi chiamo Giulia.

Moglie afferrò sgraziatamente il gioco dalle mani del marito e lo studiò dettagliatamente: una scatola quadrata, di un bel color marrone, su cui il nome del gioco si stagliava imponente, vergato in una svolazzante scrittura color rosso rubino. Un sigillo di ceralacca della stessa tonalità di rosso del titolo era apposto sul lato anteriore della confezione.
Nessun'altra decorazione o elemento lasciava presagire la natura del suo contenuto.

«Va bene, apriamolo.»
Con un sospiro stanco e puntando sul pavimento il suo bastone da passeggio, Moglie si sollevò dalla poltrona e si diresse verso il tavolo della cucina, dove, scostando il centrotavola ricolmo di frutta e i ferri per fare la maglia, posò la scatola misteriosa. I due coniugi si accomodarono l'uno di fronte all'altro e Marito, con un coltello da cucina, divelse il sigillo, permettendo a Moglie di sollevare il coperchio e scoprire il contenuto della confezione.

E fin qui, tutto molto bello e facile. Ora viene la parte in cui invento, dal bello e buono, un gioco di società coerente e funzionale, in cui possono giocare solo due persone e tramite cui popolano il mondo e poi lo decimano.

Un gioco da ragazzi. Quando gli altri facevano la fila per le idee semplici, io ero a quella accanto pronta a ricevere a mani aperte il disagio.

Dispiegarono un tabellone quadrato, su cui erano disposte delle caselline rettangolari, l'una al fianco dell'altra, come a formare una cornice intorno alla sfera disegnata al centro. Quest'ultima era tonda come un pallone da calcio e di un bel blu brillante, punteggiata qua e là da macchie verdi, alcune più grosse, altre piccole come capocchie di spillo.

Toh, un pianeta Terra selvatico.

Il resto del tabellone era occupato da varie figure delineate all'interno di alcune caselle che correvano per tutto il bordo del tabellone e da un rettangolo di plastica nera, nell'angolo in basso a destra della porzione centrale, sopra la cornice di caselle.

Mi autocomplimento per la chiarezza dell'esposizione. Sicuramente avrete capito quello che cercavo di comunicarvi.

Per farla breve, era una specie di Monopoli con tanto di imprevisti, funzionali a far morire la gente (stile: mille umani vengono decimati da un'epidemia di peste), e al centro del tabellone uno schermo nero tipo l'oblò di Jumanji, su cui potevano apparire, all'occorrenza, scritte o brevi riprese di quello che i poveri umani ignari facavano nel dato momento.

Moglie, abbandonata l'espressione arcigna, era ora intenta a frugare nella scatola al fine di svelare il resto del ricco contenuto, che comprendeva: un libretto d'istruzioni, due dadi, due pedine, una bianca e una nera, due diversi mazzi di carte, anch'essi dello stesso colore dei due segnaposto, un paio di sacchetti contenti del sale fino e della farina e dei coloranti di vari colori.

«Iniziamo dal libretto d'istruzioni» propose Marito, indicando il volumetto dello stesso marrone della confezione. Sua moglie inforcò gli occhiali da vicino e iniziò a scorrere le informazioni per leggere quelle di maggiore interesse.

«Oh, ecco qui» disse, dopo qualche secondo. «Scopo del gioco: consiste nel raggiungere il punteggio di dieci milioni prima dell'altro giocatore.»

«Fin qui mi sembra tutto chiaro.»

«Shhh, lasciami andare avanti, dannato impaziente che non sei altro.» Morte scoccò un'occhiata più divertita, che realmente irritata, al coniuge, e riprese la lettura. «Giocatori: due, ciascuno contraddistinto da una diversa pedina.»

Marito afferrò i due segnaposto, entrambi uguali nella forma, e posò il bianco, Vitalia, di fronte a sè e il nero, Mortimer, di fronte alla moglie.

Vitalia e Mortimer, eh?

«Il giocatore con la pedina bianca sarà il primo a iniziare, occupandosi della predisposizione del gioco...» Morte scoccò una velenosa occhiata al marito. «Dì un po': conoscevi già le regole e hai deciso di appropriarti appositamente della tua pedina?»
«Ma no, cara, come avrei potuto! E' che la nera mi ricordava così tanto il colore dei tuoi dolcissimi occhi» balbettò Vita, in risposta. Lei sospirò pesantemente e proseguì.

«...predisposizione del gioco, dunque, creando gli Umani. Versando il sale e la farina in una ciotola e unendoci dell'acqua tiepida mischiata al colorante, dovrà mescolare fino ad ottenere un composto omogeneo e malleabile; quindi, con la pasta di sale così ottenuta, dovrà creare delle piccole forme e lasciarle essicare in forno per pochi minuti. Posare gli Umani così ottenuti sulla Terra al centro del tabellone e aspettare che proliferino, seguendo il loro moltiplicarsi sullo schermo. La popolazione sarà pronta al raggiungimento di sei miliardi.»

E qui mi sono un attimo fermata e, prima di continuare a ingarbugliarmi l'esistenza, ho chiesto alla disponibilissima JennaRavenway , mia giudice, se loro volessero proprio un mito o un racconto, e niente: volevano proprio un mito. Addio sogni di gloria.

Vi posso comunque dire che le cose dovevano, su per giù, andare così: Marito, con la pedina di Vitalia, creava gli Umani e li mandava a vivere nel gioco e poi Mimì e Cocò, continuando a giocare, li facevano continuare a nascere o li decimavano a secondo della casella e della carta pescata. Il gioco era tanto travolgente (brava Giulia, brava), che non avrebbero mai più smesso di giocare (!) e vissero tutti felici e contenti.

Insomma: questi sono stati i miei deliranti tentativi prima di giungere a "Le figlie della Morte", che potrete trovare in questa stessa raccolta.

Non so se questo genere di "storia" (?) possa esservi piaciuta, nel caso fatemelo sapere. Sono, tra l'altro, come sempre disponibile a scambiare opinioni e commenti sui miei disagi.

Vi voglio bene e prossimamente aggiorno e torno con a lot of novità.

Tanto ammore ♥️,

Giulia

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