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Capitolo 9

Canzoni del capitolo:

- Fix You - Coldplay

-   Changes - XXXTentation

La porta del vagone si apre bruscamente. Rimango ancorata a mio padre. Ho il fiato sospeso. I soldati urlano in tedesco. Non capiamo una singola parola, ma da quello che posso intendere ci ordinano di scendere.

In meno di un minuto, si crea il panico: Uomini che chiamano i famigliare dispersi, bambini che piangono e urlano. Alcuni si stanno domandando dove siamo.

Il vento è gelido, che quando mi sfiora, sento le guance pungermi. Siamo su una piccola banchina ferroviaria, in mezzo alla campagna. Poco più in là, vedo degli uomini scaricare le nostre valigie. Sono diversi.

Sono magri e malandati e hanno addosso una specie di casacca e un berretto a righe.

Ma dove siamo?

Sentiamo i soldati urlare in tedesco. Alcuni prendevano con la forza le donne separandole dagli uomini. Il caos prende il sopravvento.

Ci stanno dividendo! Non possono farlo!

Non voglio separarmi da mio padre. Mi tengo stretta a lui. Sento mia madre piangere disperata:

« Non permettere che ci separino! Non puoi lasciarci! » esclama mia madre a mio padre.

« Non vi lascerò. » dice, cercando di tranquillizzarla.

Le persone continuano a urlare. I soldati strappavano senza vergogna i bambini dalle braccia delle loro madri.

Anche Ruth, tiene stretta a sé la sua bambina. Non ho mai visto una cosa del genere in tutta la mia vita.

Sono sconvolta.

Mentre cerchiamo di non perdere la calma, un soldato afferra la manica di mia madre e la strattona trascinandola dalla parte opposta. Mia madre urla. È Fuori di sé e cerca in tutti i modi di tornare da mio padre.

Un altro soldato prende mia sorella. Ho le lacrime agli occhi. Emmanuel la tiene stretta più che può, finché è costretto a mollare la presa, per via del calcio che gli ha inferto il soldato. Sarah piange disperata.

Poi viene il turno della zia.

« Come osate! Lasciatemi! O ve ne pentirete! » esclama, dimenandosi.

Io sono ancora accanto a mio padre. Non riesco a pensare a nulla. Mi pizzicano gli occhi per via delle lacrime. Come posso farci questo?

All'improvviso, sento prendermi per la machina. Mi giro e vedo il soldato strattonarmi il braccio.

No!

Afferro la manica di mio padre e con tutta la forza che ho cerco di non mollare la presa. Mio padre, mi afferra tendando il tutto e per tutto, di tenermi con sé. Il soldato, questa volta, mi strattona più forte, costringendomi, a mollare la presa e mi sento trascinare via.

In questo momento, con tutta la forza che ho, cerco di mandare la testa in avanti, per poi, mandarla indietro, e colpirlo in pieno viso.

Il soldato per un breve secondo mi lascia e corro verso mio padre. Ma il soldato mi riprende e mi strattona.

« NO! No, vi prego, No! Papà! Voglio stare con mio padre! » piango e urlo, in preda alla disperazione.

Mio padre mi guarda non sapendo cosa fare. È la prima volta che lo vedo piangere e mi si spezza il cuore.

L'unica cosa che sento; sono le sue parole:

« Miriam, ricordati, non perdere mai la speranza! »

Mia madre mi tiene stretta a sé, dandomi conforto. Guardo mio padre e mi chiedo se lo avrei rivisto ancora. Nella stessa fila, scorgo anche Simon, Noah, David e Emmanuel.

In fondo alle due file ci sono due ufficiali delle SS con indosso un camice bianco. Ci esaminano uno alla volta, mandando alcuni di noi a destra e altri a sinistra.

Che cosa significa?

Quando viene il mio turno, mi asciugo in fretta le lacrime e alzo la testa. Ho davanti a me l'ufficiale. È piuttosto giovane. Come il suo collega vicino a lui. Però quest'ultimo non aveva il camice.

È un ufficiale anche lui. La sua uniforme è verde opaca, i pantaloni a sbuffo con degli stivali neri lunghi fino al ginocchio e il berretto con il teschio con le ossa incrociate.

Non è la sua uniforme a incutermi paura, ma il suo volto. I suoi occhi... sono di un colore azzurro come il cielo, ma allo stesso tempo grigi e freddi come il suo sguardo. Non avevo mai visto così... tanta malignità. I suoi capelli sono neri, come le more mature.

L'ufficiale con il camice bianco mi scruta attentamente. Gli rivolgo un sorriso. Per farmi vedere che sto bene e in salute.

Mi chiede qualcosa in tedesco. Non capisco. Non riesco a parlare, anche s e non ho capito quello che mi ha appena detto.

L'ufficiale mi rivolge di nuovo la domanda, questa volta con più prepotenza. L'ufficiale vicino a lui, fa un mezzo sorriso che mi mette i brividi e dice qualcosa all'orecchio del suo collega.

« Miriam, devi rispondere: Sechzehn. » riconosco la voce di mia zia. È l'unica a sapere il tedesco, avendo vissuto per due anni in Germania.

Che cosa vuol dire?

Senza pensarci rispondo senza prendere fiato. L'ufficiale mi guarda di nuovo e mugugna scontento, mandandomi a sinistra.

Sono salva? O ancora in pericolo?

Spero che il peggio sia passato. L'ufficiale fa passare anche mia madre, Sarah, mia zia, Rachel e Lèa, verso sinistra.

Anche dalla parte di mio padre. Quelli che conosco sono passati tutti verso sinistra, compreso Simon. Tiro un sospiro di sollievo.

Quelli mandati verso destra noto che sono tutte persone malate, anziane, donne incinte, bambini o invalidi. Non oso pensare a cosa capiterà a loro.

Anche io sono piuttosto malconcia, però non sono stata mandata verso destra. Forse sarà stata anche la mia pelle mulatta a salvarmi.

Mentre ci incamminiamo per non so dove, rivolgo un ultimo sguardo a quell'ufficiale. Il mio unico pensiero è quello di non vederlo più.

***

Camminiamo per non si sa quanto tempo. Ho i piedi che mi fanno male e in alcuni punti bruciarmi per via delle vesciche.

Ho freddo e ho fame. non credo che ci diano da mangiare.

Alzo lo sguardo e davanti a noi c'è un campo con lunghissime recensioni di filo spinato. Come quando eravamo in Francia, ma vicino a queste c'è un cartello bilingue con un teschio sopra.

Attraversiamo un cancello. È altissimo e sopra vedo scritta una frase.

"Arbeit Macht Frei"

Che cosa vuole significare?

Continuiamo a seguire i soldati, fin dentro ad una baracca. In questo momento, il mio corpo si muove da solo. I soldati urlano e impartiscono ordini.

Noi non capiamo nulla, finché non arrivano delle donne con la divisa delle SS.

Urlano e urlano. Ho la testa che mi scoppia. Vedo le altre donne che si spogliano. Dobbiamo toglierci anche la biancheria intima e lasciare tutto lì. Non avevamo più nulla. Muoio dalla vergogna. Le lacrime continuano a scendere senza sosta. Non riuscivo a non pensare a mio padre e se stesse subendo il nostro stesso trattamento.

Le donne delle SS ci conducono in un'altra stanza. Al centro ci sono cinque sedie con dietro, altre donne con in mano delle forbici.

Le mie compagne si siedono e vedo i loro capelli cadere ciocca dopo ciocca. Sono sconvolte. Non è possibile... vogliono privarci anche dei nostri capelli.

D'istinto mi tocco i miei. Li avevo sempre odiati. Sempre. Ho sempre pensato di tagliarli o di accorciarli un poco. Questa è l'ultima volta che ho l'occasione di farlo.

Tocca a me. Mi siedo sulla sedia. Vedo le mie cicche cadere una a una.le lacrime non smettono di rigarmi il viso.

È un incubo.

Come se non bastasse, mi depilano anche il pube. Ora non avevo più niente. I miei capelli non sono più lunghi di un centimetro. Sembro un ragazzo.

Singhiozzo silenziosamente.

Le guardie, adesso, ci portano sotto le docce. Io, mia madre, sarah e mia Zia, ci abbracciamo per darci conforto. Io alzo lo sguardo e fisso i soffioni.

Tremo. All'improvviso un getto d'acqua mi colpì la faccia. L'acqua è bollente.

Due soldatesse delle SS entrano urlando:

« Fredda! » esclama, una di loro.

Io e le altre iniziamo ad urlare. Quello sbalzo di temperatura, è micidiale. L'acqua è talmente gelida, che sembra tagliarci la pelle.

« Qui, non vogliamo prenderci il tifo o la scabbia! » aggiunge, alla fine.

Finita la doccia, ci conducono in un'altra stanza. Qui ci viene data una tunica a righe, con un paio di zoccoli di legno.

Quindi d'ora in poi, sarà questo il nostro abito?

Sono orribile. E per giunta è fatta di stoffa leggera. Come faremo? L'inverno è alle porte. Non saremo resistite a lungo.

Questo posto è  un inferno.

Le donne ci conducono in un'altra stanza. Spero che sia l'ultima. Ci sono dei tavoli al centro, disposti verticalmente. Mi metto in fila. Mi sporgo un poco per vedere di cosa si tratta.

Dall'altra parte del tavolo, vedo un uomo. In mano aveva una specie di pennino, dove scrive qualcosa sul nostro braccio.

Adesso veniamo anche marchiate. Come se fossimo degli animali.

Arrivato il mio turno, l'uomo si rivolge a me con tono diffidente:

« Nome e cognome? »

Non so quanti, in questi giorni, me lo abbiano domandato. Ma arrivati a questo punto, non me lo sarei aspettato.

« Miriam Solommon. » rispondo, con un filo di voce.

« 563485 » disse, lui, al ragazzo che gli era accanto.

Stendo il braccio. Non voglio vedere. Distolgo lo sguardo. Sento un leggero pizzicorino e un po' di dolore, ma è sopportabile. Lo vedo prendere un panno e strofinarlo sulla parte tatuata. Noto che sul numero, esce un po' di sangue.

« Che cosa sono questi numeri? » gli domando.

L'uomo alza lo sguardo. Ha un' espressione cupa e spenta. « Questi numeri... Sono numeri per il paradiso. »

Per un secondo mi manca il respiro. Che cosa intende dire?

Mi alzo e respiro lentamente. Mi tocco la parte marchiata. Mi fa male, ma riesco a sopportarlo. Il dolore che sento dentro è mille volte peggio.

Quando finiscono di marchiarci tutte, sento che dovevamo andare in un altro campo. Chiamato "Birkenau". I soldati ci fanno uscire e ci allineano tutte in fila.

Iniziamo ad incamminarci fuori dal campo, inoltrandoci in aperta campagna. Ora devo raccogliere tutto il coraggio. Guardo mia madre, Sarah e zia Mimì. Non sono sola. In un modo o nell'altro, possiamo aiutarci a vicenda.

Ricordo cosa mi disse mio padre: "Non perdere mai la speranza."

Arrivata a Birkenau, un campo dove ci sono solamente baracche. Anche questo è circondato da chilometri e chilometri di filo spinato. In lontananza, verso la boscaglia vedo del fumo nero. Non voglio sapere che cosa bruciassero lì.

I soldati ci fanno entrare in una baracca.

Ai lati ci sono dei letti a castello molto larghi. Non sono letti. Non ci sono le lenzuola, e neanche dei cuscini. Sono fatti con asse di legno e sopra c'è una piccola quantità di paglia. In compenso abbiamo delle coperte, anche se sono consumate e strappate.

Mi sdraio vicino alla mamma e alle altre. Rachel e le mie amiche sono in una cuccetta più avanti.

Che posto orribile è mai questo?

Quando chiudono la porta, la baracca si riempie di pianti e singhiozzii. Io sono troppo stanca anche per continuare a piangere. Spero che questo sia solo un incubo. Spero con tutto il cuore di svegliarmi domani mattina nel mio letto. Nella mia camera a Parigi con Nana che mi sveglia facendomi le feste e con il profumo di cornetti e caffè che proviene dalla cucina.

E lì, avrei trovato tutta la mia famiglia riunita e felice. Ma in cuor mio, so che non accadrà. Mi addormento con le lacrime che mi rigano il viso.


Note dell'autrice:

[MODIFICATO]

Finalmente si sono incontrati! Anche se parzialmente, però è meglio di niente. Spero vi sia piaciuto.
Ringrazio:
Chi recensisce.
Chi legge la mia storia.

Grazie ancora, alla prossima.

Bacioni, Noemi

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