이름 ;; n a m e
"Ho finalmente trovato il modo per esaudire la decima cosa della mia lista. Ho finalmente trovato quella persona. Per cui... Lasciami solo un altro po' di tempo per poter esaudire ciò che ti ho chiesto, te ne prego"
Ricordavo perfettamente le sue parole della sera precedente e, anche se lui non sapeva che io lo avessi sentito, ero ormai fermamente convinta ad aiutarlo.
Non so che cosa fosse scattato in me, senso di solidarietà, di pietà, di compassione... fatto sta che non appena lo vidi sorridere fra le lacrime mi si scaldò il cuore.
«Continuerai a startene in piedi laggiù?» mi chiese lui dall'alto, indicandomi con la testa dopo qualche minuto di silenzio.
«Uff.. d'accordo, d'accordo» sbuffai facendo la finta offesa, mentre iniziavo la mia arrampicata.
Una volta arrivata in alto, mi accorsi però che lui si era posizionato proprio su quello scoglio che stava di fianco al mio scoglio.
«Yah. Come mai tutta questa confidenza?» esordii mentre mi avvicinavo, indicandolo con un cipiglio che non avrebbe spaventato nemmeno un bambino.
«Sai, immaginavo che l'avresti detto» rise lui, lasciandomi perplessa.
«D'accordo, d'accordo... Se ti dà fastidio, posso tornarmene giù. In fondo, la confidenza è qualcosa che si acquisisce pian piano, ed io non voglio affrettare di certo le cose» aggiunse poi, con una nota di amarezza nella voce, mentre si rialzava.
Dal canto mio, non so cosa mi prese in quel momento, ma sentii lo strano impulso di bloccarlo.
Così in un nano secondo mi avvicinai a lui, ancora occupato ad alzarsi in piedi, e gli afferrai un braccio.
«Mh?» lui alzò lo sguardo, senza capire.
Volevo che rimanesse lì dov'era. Volevo mettermi alla prova, per vedere se sarei riuscita a sopportare una tale vicinanza senza poi cominciare ad affezionarmi a quella persona.
«Puoi... puoi restare, tranquillo» gli spiegai, abbozzando un sorriso.
Ah, provavo troppa compassione per il fatto che fosse così solo - d'altronde però, anche io lo ero - che mi ero spinta a compiere un'azione che in altre circostanze non mi sarei neanche sognata.
«Beh, grazie» rispose lui, rimettendosi comodo, mentre io - scrollando le spalle - scavalcavo il suo scoglio per andare a posizionarmi sul mio.
In questo modo, a differenza delle altre volte, eravamo alla stessa altezza, e a soltanto un metro di distanza l'uno dall'altra.
Era strano, molto strano, forse anche un poco imbarazzante per una ragazza fredda e timida come me, ma non sapevo che mi ci sarei abituata presto.
«Allora...» cominciammo in contemporanea, per poi voltarci l'uno verso l'altra e fissarci sorpresi.
«Prima le signore» disse allora lui, in tono scherzoso, per darmi il via libera.
Presi un respiro profondo, chiudendo gli occhi, e finalmente gli domandai molto diretta:
«Quanto ti resta?»
Il ragazzo ci impiegò circa cinque secondi nel formularmi la risposta, che non mi sarei aspettata per nulla al mondo.
«Non lo so, sai... dipende molto da me. I medici mi hanno detto in media quattro o cinque mesi, oppure, se rallentassi il tumore con quella benedetta chemio, sei o sette; però mi hanno detto anche che se continuerò a mangiare schifezze e a rifiutarmi di stare perennemente in ospedale potrei morire fra meno di tre mesi»
Sgranai gli occhi, basita.
Avevo sentito bene?
«Q-quindi tu.. dovresti stare sempre in ospedale?»
Il ragazzo annuì con un sospiro.
«Ma allora... perché?»
«La risposta è semplice, sai? Credo che - per come sono fatto io - preferirei di gran lunga vivere di meno ma con più soddisfazione, piuttosto che vivere il doppio dei mesi stando sempre in ospedale attaccato a delle flebo o a dei macchinari per tenermi in vita» mi spiegò tutto d'un fiato.
Non aveva tutti i torti, pensai.
Anzi, in fondo, se fossi stata nella sua stessa identica situazione, lo avrei fatto anch'io. Eccome se l'avrei fatto.
Primo, perché odio gli ospedali.
Secondo, perché non c'è gusto nel vivere tre mesi in più del dovuto quando sai già in partenza che li trascorrerai attaccato ad uno squallido macchinario. Un po' come stava succedendo a nonna.
Tuttavia non gli dissi la mia opinione, continuando ad annuire in silenzio.
In fondo, non sarei riuscita ad esprimermi sulla faccenda in modo adeguato. Non ci sapevo fare con la gente.
«Ora tocca a me» parlò lui dopo qualche secondo, pronto a porgermi la sua domanda.
«Non andrò troppo sul personale, ho già visto che ti metterei a disagio e sicuramente non è quello che voglio fare» cominciò, tenendo lo sguardo fisso sul mare.
Io invece continuavo a guardare lui, quel suo volto che di profilo sembrava così perfetto, baciato dalla fievole luce del sole che sbucava timidamente dalle nuvole.
«Come ti chiami?» mi chiese infine, girandosi di novanta gradi verso di me.
Il suo sguardo si era ravvivato, pareva veramente curioso di sapere il mio nome, come i bambini piccoli quando vogliono sapere il nome del loro compagno di giochi al parco.
«Lee Ji Eun» risposi piatta, senza esitazione, ritenendola una domanda di poco conto, anche se in realtà nessuno me lo chiedeva più da tanto tempo.
«Ji Eun... è un nome carino» constatò lui, piegando le labbra in un lieve sorriso.
«Grazie» farfugliai dopo qualche attimo, imbarazzata.
Non volevo ammetterlo, ma era vero: quel sorriso così spontaneo, quei suoi occhi brillanti che parlavano al suo posto... mi rendevano spensierata, quasi felice.
Forse stavo cominciando già ad affezionarmici? Ma com'era possibile, per un lupo solitario come me?
«Io invece sono-» parlò il ragazzo, pronto a presentarsi.
«Aspetta» lo interruppi.
Lui mi guardò con aria interrogativa, piegando la testa di lato.
Abbassai lo sguardo. Sarà potuta sembrare una gran cavolata, ma nel profondo del mio cuore lui sarebbe sempre rimasto il ragazzo del porto.
Non aveva nome, per me.
Nè io avrei dovuto averne uno per lui.
Saremmo dovuti essere due perfetti sconosciuti, come i vicini di posto nell'autobus che parlano del tempo. Non volevo relazioni amichevoli con qualcuno, avevo cambiato improvvisamente idea.
Ma mi resi poi conto che mi stavo solamente contraddicendo da sola; ormai era troppo tardi.
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