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Capitolo diciassette

Premessa: il capitolo sarà abbastanza lungo perché in realtà sono due capitoli, ma non ho voluto dividerlo. Se vi va commentate e lasciatemi una stellina. Buona lettura ❤️

Non penso esista una singola persona al mondo che non abbia detto, dopo una sbornia: «Da oggi non trangugerò più neanche un misero goccio di alcool».

È quello che mi ripeto io da quando ho aperto gli occhi.
Con un gemito soffocato mi alzo dal letto, prendo il cuscino e lo premo contro la mia faccia, reprimendo un urlo.
Quello che è successo ieri non è affatto un buon segno. Nossignore!

Ma cosa diavolo mi è passato per la testa? Dio, di solito odio dare voce ai miei pensieri, ma forse ho fatto bene ad aver interrotto quel momento intimo tra di noi.

Il mio cervello ha messo fine a tutti i miei film mentali. Il regista ha lasciato il film a metà. La sceneggiatura è stata scritta male. Il protagonista non ha seguito bene il copione.
Non mi aspettavo di certo che Kenneth mi lasciasse in attesa mentre si perdeva in chiacchiere inutili al cellulare con la sua ex. Che tra l'altro, adesso lavorerà per lui.

Beh, chi sono io per impedirglielo? Nessuno! Non dovrei nemmeno ingelosirmi troppo.

Però ti ha baciata. Ti ha toccata. Vorrà pur dire qualcosa, no?

«Sì, che sono soltanto l'ennesima ragazza che inizierà a sbavargli dietro», bofonchio a voce alta. «Come se non lo stessi già facendo».

Forse avrei dovuto valutare meglio la situazione. In questo modo lui non si sarebbe mai avvicinato più del dovuto a me. Sono stata io a permetterglielo.

Mi siedo davanti allo specchio e prendo la bottiglia di vino, ormai vuota, e la scruto con curiosità. Poi i miei occhi languidi si spostano sulla mia figura. Non ho neanche abbastanza forza per prendermela con me stessa. Ho un aspetto orribile.

Colpa del tuo capo, dice una vocina nella mia mente.

«Cretina, non è quello che sognano tutte? Un uomo che apra il suo cuore soltanto ad una donna e che ami lei fino alla fine dei suoi giorni? Che sia il suo eterno principe azzurro? Oh, ti è andata male una volta, alla seconda avresti dovuto puntare direttamente sull'antagonista!», mi rimprovero ad alta voce. Se mia madre fosse stata qui, probabilmente avrebbe riso forte e a lungo di me. Quella donna gioisce ad ogni mia disgrazia e di certo non perderebbe tempo a riferirlo a mia cugina.

Da quando ho incontrato mia madre, non ho fatto altro che continuare a odiarmi in silenzio, maledicendo ogni mia scelta. In amore non sarò mai fortunata. Mai.

Di relazioni ne ho avute poche ma durature, con una grande pausa tra una relazione e l'altra. Ho colmato il vuoto dentro di me mangiando tanto gelato e ascoltando la canzone Potential breakup song ripetutamente.

Ma essere baciata dal mio capo, che è probabilmente l'uomo più desiderato di Londra? Non male per una che potrebbe essere considerata sfigata da mezzo mondo, visto che ho perso la verginità a ventitré anni. Con un coglione, tra l'altro.

Dovrei aggiungerlo al mio curriculum?

Prendo il plaid e lo metto sulle mie spalle, poi vado in cucina e mi preparo una tazza di latte con del cacao e tosto una fetta di pane.
Infilo la fetta di pane tra i denti e allaccio le dita intorno alla tazza, poi esco fuori e chiudo la porta, salendo sul terrazzo all'ultimo piano.

Appoggio la tazza sul cornicione e mangio il pane, mandandolo giù con un sorso di latte. Vorrei poter dire che la vista davanti a me abbia migliorato la mia giornata, ma non è così. Davanti a me non vi è altro che una strada orlata da una fila di macchine e da edifici scrostati e adornati da graffiti, simili a quello in cui vivo. Le finestre con le sbarre mi fanno venire l'angoscia.

Mentre uno sbuffo sonoro scivola fuori dalla mia bocca, un colpo di tosse per poco non mi fa venire un infarto.

«Brutto risveglio, vero? Fa un po' freddo per stare qui fuori a quest'ora del mattino», dice Arnold dietro di me.

«Già, ma sto provando a riprendermi», mormoro con aria drammatica. «Si prospetta una meravigliosa giornata», aggiungo ridendo nervosamente.

«Posso avvicinarmi, scassapalle?», domanda il mio vicino con la solita premura.

Scivolo giù e mi siedo a gambe incrociate, stringendo forte la tazza tra le mani.
Arnold prende posto accanto a me.

Non dice nulla, ma fissa il cielo insieme a me in questa triste giornata autunnale. Il sospiro placido del vento lambisce il mio viso, rubandomi un mesto sorriso, che sparisce subito dopo.

«Alla fine ti ha fatto piangere, non è così? Noi uomini siamo stronzi a volte», gli angoli della sua bocca s'incurvano lentamente all'insù. E vorrei dirgli che non deve sorridere in questo caso, ma è Arnold e so che finirebbe per spedirmi nel mio appartamento con un calcio nel sedere.

«Solo a volte?», domando, fulminandolo con lo sguardo.

«Molte volte, se devo essere sincero», e ride come se avesse fatto una battuta.

Gonfio le guance come una bambina offesa e sono sul punto di mandarlo al diavolo con tanta gentilezza, questo finché lui non riapre bocca: «Quando ero giovane ero un vero coglione», sorride rammentando il passato. «Non che adesso sia molto diverso, ma spezzavo un sacco di cuori e non me ne importava nulla. Ero un vero stronzo», scuote la testa. Il petto è scosso da una risata.

«Non ti stai vantando, giusto?», chiedo guardandolo con aria torva.

Lui inarca un sopracciglio. «Se c'è una cosa che ho imparato in tutti questi anni, è che non c'è nulla di bello nel vantarsi di essere stronzi. È come vantarsi di essere cattivi, di fare del male alle persone volontariamente e poi godere del dolore altrui. Io mi definivo stronzo, perché alle ragazze piacevano gli stronzi, questo finché non si sono ritrovate tutte con il cuore a pezzi. I sentimenti non sono divertenti. Sono intensi e a volte ti mordono l'anima. È roba con cui non ci giocherei più.»

Lo guardo scettica, chiedendomi se sia il solito vicino rompi scatole o se qualcuno gli abbia fatto qualche strano incantesimo durante la notte.

«E oggi pensi di essere migliorato?», domando con curiosità.

«Non si smette mai di migliorare, ma sono stato stronzo perfino qualche anno fa, quando frequentavo una donna di un paio di anni più grande di me ed è rimasta incinta.»

Sgrano gli occhi, ma cerco di nascondere lo stupore dietro la tazza che stringo tra le mani all'altezza del viso. Non riesco proprio ad immaginarlo padre.

«Non ho figli, nel caso te lo stessi chiedendo. Nemmeno lei ne voleva. È successo e basta», si stringe nelle spalle. «Ha abortito. Mi aveva chiesto di accompagnarla, le avevo detto di sì, ma alla fine non mi sono presentato. Ero spaventato, sì. Un uomo adulto, ma spaventato perché non ho mai desiderato di essere padre. Mi sono cagato addosso come un adolescente. Lei non mi ha più voluto vedere. E come darle torto? Avrei dovuto capire che la mia paura non era diversa dalla sua e che forse avrei dovuto affrontare la situazione come una persona matura anziché scappare.»

Mando giù un sorso di latte e deglutisco rumorosamente. Arnold si gira e mi guarda. «Sei veramente una ragazza rumorosa.»

«Me ne ne rendo conto», sorrido timidamente.

«Quello che cerco di dirti è che a volte quando abbiamo paura di una cosa che ci sembra più grande di noi, tendiamo a scappare. Sembra sempre la scelta ottima da fare nei momenti intrisi di paura. È solo che molte volte lo capiamo quando è ormai troppo tardi. E non per questo bisogna smettere di vivere, attenzione!», allunga una mano verso di me e mi arruffa i capelli; un gesto affettuoso.

«Io non sono scappata, comunque», borbotto con aria affranta.

«Oh, ma nessuno stava parlando di te», lo guardo di sottecchi e mi fissa con occhi complici.

«Stai dicendo che lui è scappato come hai fatto tu?», chiedo, arricciando il naso. «Il mio capo però è più giovane rispetto a te».

«Ma io ho soltanto quaranta cinque anni e piace anche a me sentirmi giovane», mi rimbrotta guardandomi con aria ammonitrice, poi aggiunge: «E mi piace anche la birra, come puoi vedere», si tocca la pancia, ridendo. «E comunque sì, è scappato».

«Non so cosa fare. È il mio capo. Non ho ancora avuto modo di parlargli e spiegargli che non sto cercando una relazione, non voglio nemmeno essere scopata da lui. Basta, io non voglio più niente. Solo soldi. Mi servono i soldi», sospiro.

«Sei giovane, Kendra. E sei bella. Potresti avere tutti i ragazzi che vuoi. Non chiuderti in una scatola di cartone sperando che qualcuno venga a liberarti, quando sai benissimo che con una spinta riusciresti ad uscire fuori da sola. I sentimenti a volte hanno bisogno di tempo per essere compresi e apprezzati. Te lo sto dicendo per esperienza», si alza in piedi e si toglie il giubbotto, mettendolo sulle mie spalle. «Resta pure qui a piangere per un imbecille che ti ha spezzato il cuore, se è quello che vuoi. Oppure alza il culo, metti un po' di musica e balla. Dicono che le canzoni di Tyler Swift vadano bene in momenti del genere.»

Scoppio a ridere. «È Taylor.»

«Scassapalle», alza gli occhi al cielo. «Se un uomo gioca con il tuo cuore, tu allora gioca con la sua mente. E te lo dico da uomo, di solito funziona sempre», sfoggia un sorriso complice, pieno di malizia, e per un secondo mi sento davvero in pace con me stessa. E anche perfida. E penso proprio che andrò ad ascoltare le canzoni di Taylor Swift.

Mi alzo e allungo il giubbotto verso di lui, dicendo: «Seguirò il tuo consiglio, Arnold. E semmai avrai voglia di farti una birra con me, tira due colpetti nel muro e sarò subito da te.»

Lui si riprende il suo giubbotto e stringe la mia mano con vigore. «Affare fatto.»

Prendo il plaid e la tazza e rientro nel mio appartamento.

È incredibile quanto mi abbia fatto stare meglio questa conversazione, anche se per la maggior parte del tempo è stato lui a parlare. Di solito è di poche parole e io pure, ma è stata la prima volta in cui mi ha detto qualcosa in più su di lui. Ho un vicino odioso ma adorabile.

Lancio il plaid sul divano, poso la tazza sul bancone della cucina, poi mi siedo e cerco le canzoni di Taylor Swift su YouTube.

Alzo il volume mentre Shake it off risuona in tutto l'appartamento.

«È stato scientificamente provato che se muovi il sedere sulle note di Shake it off gli uomini stronzi ti cadono dal cuore e finiscono per starti sul cazzo», grida Arnold dall'altra parte facendomi ridere.

L'entusiasmo si spegne non appena i miei occhi si posano sull'orologio.
«Porca troia, sono in ritardo», grido correndo nella mia stanza.




È una giornata di merda e niente è come avevo immaginato.

E lo si capisce dal fatto che sono arrivata in ritardo al lavoro anche per colpa della mia stupida macchina. Tiffany mi guarda come se sapesse che il prossimo passo sarà quello di essere sbattuta fuori e come se non bastasse tutti gli altri dipendenti borbottano tra di loro e mi osservano con compassione, come se stessi per essere decapitata tra esattamente uno, due, tre... «Perché non siete al vostro posto? Perché non state lavorando?», chiede Kenneth furibondo, mentre cammina a passo deciso verso di noi con una cartella stretta in una mano. E dall'inflessione della sua voce capisco sia arrabbiato. Quasi sicuramente con me.

«Noi stiamo lavorando, ma qualcuno qui è arrivato in ritardo», cinguetta Tiffany con aria trionfante. In realtà tutti gli altri assistono alla scena come se non vedessero l'ora di sentire il rimprovero che uscirà a breve dalla bocca di Kenneth.

Oh, sì, meraviglioso. Un altro passo verso il precipizio. Sono pronta a lanciarmi e mettere fine a questa miserabile vita.

«Collins, ce l'hai un orologio?», chiede il mio capo fulminandomi con lo sguardo. Pensavo di essere l'unica ad essersi svegliata con la luna storta, ma qualcuno qui sta avendo una giornata più brutta della mia.

Oh, non lo compatisco minimamente. Che si fotta!

«Ho avuto un contrattempo. La mia macchina-», faccio per scusarmi.

«Esistono gli autobus», ribatte. Se si fermasse un attimo a ricordare il posto in cui abito, probabilmente si darebbe dello stupido da solo.

«Signor Harrison, se fossi stata realmente così agevolata con i mezzi, penso che non avrei acquistato una macchina e avrei usufruito del servizio di trasporto pubblico», il sarcasmo anima la mia voce e illumina il suo sguardo sorpreso. Non dovrei stare qui a sbavare per lui e il suo look da "Non dormo da un paio di giorni, ma continuo ad essere sexy da fare schifo", eppure lo faccio. Mi prendo giusto il tempo di squadrarlo dalla testa ai piedi. Per esempio non dovrei mica fare caso ai jeans neri che indossa, dato che di solito ha sempre qualche completo nuovo addosso. E non dovrei nemmeno soffermarmi sul maglione nero che gli fascia il busto. Dov'è finita la sua camicia? E perché ha perfino i capelli spettinati?

Kenneth alza un sopracciglio e mi fissa a lungo come se mi avesse appena beccata, poi distoglie lo sguardo. Oh no, non vincerai tu questa volta.

«E cosa ci fai ancora qui?», chiede. Alzo le spalle come per scusarmi, e gli passo accanto, lasciando che la borsa mi scivoli accidentalmente dal braccio. «Oh, che sbadata!», mi porto la mano davanti alla bocca fingendomi sorpresa, poi mi piego lentamente per raccoglierla.

«Santo cielo, che cosa hai da guardare?», chiede Kenneth ad uno dei dipendenti che si è fermato ad ammirare le mie gambe.

«M-mi scusi, io-», balbetta il ragazzo.

«Fallo un'altra volta e giuro che ti licenzio», lo minaccia. E dov'è la sua solita formalità? Il suo essere clemente? L'uomo dalla personalità indecifrabile?
Mi alzo e proseguo dritto, sghignazzando tra me e me. Be', forse Arnold non ha tutti i torti.

Se lui gioca con il mio cuore, allora io giocherò con la sua mente. E i suoi ormoni, in questo caso.

Pessima mossa? Probabilmente.

Me ne pentirò? Sicuramente.

Funzionerà? Oh, mi auguro di sì, perché non intendo rendermi ridicola senza ottenere nulla in cambio.

Inizio a sentirmi cretina già da ora? Certo che sì!

Allungo il passo, ma Kenneth si schiarisce la gola dietro di me.

«Spero non diventi un'abitudine arrivare in ritardo.»

Alzo gli occhi al cielo e lo mando al diavolo mentalmente.

«Buongiorno, Kendra», esclama Jacob mentre si dirige verso la sua scrivania con un bicchiere di caffè tra le mani.

«Al lavoro!», grida Kenneth. «Questa non è la pausa pranzo!»

Continuo a camminare lungo il corridoio vuoto, poi mi fermo e mi giro lentamente verso di lui. «Mi sta seguendo, signor Harrison?»

Kenneth sembra colpito. Si guarda intorno e risponde: «No. Io sono il capo, non devo dare spiegazioni a nessuno, Collins. Mi assicuro che lavoriate davvero qui dentro», apre la porta per me e mi fa cenno di entrare. Gli passo accanto, sfiorandogli involontariamente il braccio e la sua mano calda si posa per un secondo sulla mia schiena. Trattengo il respiro nei polmoni e sollevo lentamente lo sguardo verso di lui. Nei suoi occhi leggo il rimorso e la voglia di parlarmi, di sfiorarmi, ma non lo fa. Tutti i miei buoni propositi sfumano via ogni volta che mi guarda in questo modo. E io cerco di apparire sicura di me. Lui invece possiede un'imperturbabilità e una rigidità che in questo momento non gli appartengono.

Nell'esatto momento in cui gonfio il petto e sono sul punto di fare un passo in avanti, colgo una sfumatura maliziosa in quel dannato sorriso che nemmeno lui vorrebbe far spuntare sul suo viso.
E io non so a quale maledetto gioco vuole giocare, ma ho l'impressione che questa volta vincerò io.

«La prossima volta ti insegnerò a piegarti meglio», sussurra. «Non è quello il modo giusto per abbassarsi e raccogliere le cose», specifica, cercando di serbare l'espressione seria di poco fa. «La gonna si è alzata troppo», conclude il discorso, saluta i suoi dipendenti e poi se ne va.

Rimango imbambolata a fissare le ragazze davanti a me.

«Kendra, sei rossa. Ti senti bene?», domanda Emma.

«Qualcuno chiami i pompieri, questa ragazza prenderà fuoco a breve», mi punzecchia Lexie, l'altra collega di lavoro.

«Ho la febbre», invento. «Ma sto alla grande! Mai stata meglio!», esclamo con troppa enfasi mentre vado a sedermi.

Accendo il computer e faccio un bel respiro, ma sento il suono di una notifica.

Accendo lo schermo e leggo: "Dobbiamo parlare."

È da parte sua. Sorrido come un'idiota, sentendo già il canto di vittoria in un luogo remoto nella mia mente, finché non mi arriva un altro messaggio con scritto "Di lavoro."
E tutte le mie certezze crollano. Di nuovo.

Digito freneticamente "Codardo", ma soffoco un urlo e poi cancello il messaggio. Vaffanculo!
Lo riscrivo, questa volta con più calma.
"Certo. Quando vuole".

Mi risponde immediatamente. "Tra un'ora. Ricordati che sei ancora la mia assistente."

Alzo gli occhi al cielo. "Lo sono soltanto quando vuole lei".

"Mi sembra ovvio, Collins."

Tra un'ora sarò nel suo ufficio. Sto andando in iperventilazione. E se dovesse parlarmi di ciò che è realmente successo tra di noi? Oppure si è già dimenticato della sua mano tra le mie gambe?

Le mie guance si infiammano nuovamente e cerco di pensare ad altro.

«Leslie è qui!», squittisce una delle ragazze.

La mia mascella per poco non tocca terra. A quest'ora?
«Le cose si fanno sempre più serie, allora», commenta Emma.

Scusami?!

«Sapevo che sarebbero tornati insieme! Era soltanto questione di tempo. Sono comunque belli insieme», commenta Lexie.

Incasso il colpo e guardo lo schermo ancora spento del computer.

«Dicono che lei sia qui per lavoro, ma sappiamo com'è andata l'ultima volta fra di loro».

Oh sì, dimmi di più, Emma. Sono davvero curiosa.

«Non tutto ciò che vediamo sulle riviste è vero. Il signor Harrison non ha mai parlato della sua vita privata alla stampa», continua a dire.

«Già, chissà quanti scheletri nasconde nell'armadio. Sa che i giornalisti potrebbero rovinare la sua reputazione esattamente com'è successo a suo fratello», afferma Lexie.

Dunque, il signor Harrison ha paura dei giornalisti...

Il cellulare inizia a squillare e guardo il nome che lampeggia sullo schermo.
Oh, merda.

«Pronto? Zia? Tutto bene?», sussurro cercando di non farmi sentire dalle altre.

«Tua madre è venuta a prendere Elliott. Mi dispiace, tesoro, ho cercato di farla ragionare, ma nulla, non è servito a niente».

Cazzo, cazzo, cazzo!

«E lui come sta? Come ha reagito», le chiedo.

«Piangeva e non voleva andare via. Gli ho detto che gli porterai il nuovo libro di Percy Jackson. Era molto scosso».

«Va bene, grazie», mormoro. Nuovo libro di Percy Jackson. Appuntato. «Lo raggiungerò a breve. Andrà tutto bene. Grazie, zia».

Lei sospira profondamente. «Cerca di far ragionare quella donna. Ti mando un abbraccio».

Chiudo la chiamata e trattengo le lacrime. Mia madre sa sempre dove colpire.
Prendo la borsa e il cappotto e mi incammino verso la porta.

«Non solo ti sei presentata al lavoro in ritardo, adesso intendi anche andare via? Hai chiesto il permesso? Cosa dirà il signor Harrison?», Emma inizia a straparlare dietro di me, ma ignoro le sue frasi e corro verso l'uscita.

Al momento Kenneth non è un mio problema.

«Hai il permesso di uscire prima?», chiede Christine, la segretaria.

Scuoto la testa e raggiungono l'ingresso, sorridendo garbatamente ad Alfred.
«Signorina, è appena arrivata e sta già andando via? Il signor Harrison-»

«Che si fotta, il signor Harrison», borbotto raggiungendo la mia macchina malandata. Spero non mi abbandoni proprio adesso.
Lancio il cellulare sul sedile accanto insieme alla borsa e inserisco la chiave nel blocchetto di accensione.
«Arrivo, piccolino», dico con un nodo alla gola.




Fare ritorno a Loughborough non è mai piacevole per me. È come se superassi una barriera e all'improvviso tutti i ricordi della mia infanzia, che avevo dato per dispersi, mi piombassero addosso come una secchiata d'acqua gelida.
In alcuni luoghi ci lasci il cuore e in altri ci lasci i tuoi traumi, le tue paure, i ricordi che non vorresti mai rivivere.

Guardo l'insegna del Queen's Park e sorrido brevemente. Da piccola adoravo andare con papà al parco. Mi comprava sempre il gelato di nascosto; mia madre non lo scopriva mai. È sempre stata rigida con me, anche dal punto di vista alimentare. Alcune cose non potevo, e non dovevo, mangiarle. Mi dava le caramelle soltanto di domenica. Le patatine soltanto una volta al mese. Mentre tutti gli altri bambini facevano merenda con la brioche al cioccolato io mangiavo frutta ogni singolo giorno.

Osservo gli alberi spogli e le case tutte uguali una accanto all'altra. Svolto a sinistra e prendo il viale che porta a casa. Una casa che forse non è mai stata realmente mia.

Il portone si apre e io mi guardo intorno con curiosità. Il giardino è curato come sempre, appare soltanto un po' più triste e spoglio dall'ultima volta che l'ho visto. Guardo la mia altalena dalla verniciatura scrostata e mi fermo, mordendomi il labbro. La nonna amava sedersi sull'altalena accanto alla mia. Mi raccontava storie e creava coroncine di fiori per me in primavera, poi mi deliziava con le sue torte ai frutti di bosco e i buffi racconti sul nonno. Tutta la felicità è sfumata via con la sua morte.

Lascio le mie cose in macchina e cammino lentamente verso il portico.
La porta si apre e mia madre mi accoglie con un sorriso freddo.

Non avevo alcun dubbio sul suo impeccabile abbigliamento. I capelli sono sciolti e ricadono morbidi sulle spalle, la camicetta bianca e i pantaloni neri la fanno sembrare una donna che sta per assistere ad colloquio di lavoro.

«Ho intravisto la tua macchina davanti al cancello e mi sono detta "Ma sì, vai ad accogliere tua figlia", ed eccomi qui. So già perché sei qui, quindi risparmiami la ramanzina ed entra dentro», si fa da parte e io cerco di non scoppiare a piangere.

Odio questa casa. Odio i miei genitori.
Le passo accanto dandole una spallata e inizio a cercare Elliott in ogni stanza.
Lo trovo in salotto, seduto sul divano. Papà è accanto a lui, sta dormendo. Il tavolino è pieno di bottiglie di birra e posaceneri pieni.

Elliott guarda la TV, ma non appena mi vede si alza e mi corre incontro, abbracciandomi forte.
«Sei tornata», grida con entusiasmo e io gli bacio ripetutamente la testa.

«Torno sempre, no?», gli dico. Le lacrime scorrono sulle mie guance e mi affretto ad asciugarle con il dorso della mano.

Apro il cappotto e tiro fuori il nuovo volume della sua saga preferita.
«Aveva ragione la zia!», esclama prendendolo tra le mani. Sfoglia lentamente le pagine e poi mi abbraccia di nuovo forte. «Grazie, Ken».

«Sto per commuovermi», commenta mia madre alle mie spalle. «Adesso che tua sorella è tornata, vedi di non fare i capricci, hai capito?», dice rivolgendosi ad Elliott.

«Non parlargli così», la minaccio.

«Altrimenti? Hai paura che gli assistenti sociali lo portino via, quindi ti conviene tacere», mi punta l'indice contro il petto. «Sapevo che saresti tornata grazie a lui. Abbiamo dei debiti e mi piacerebbe che tu ci dessi una mano».

«Avresti potuto non trascinarlo nei tuoi casini», digrigno i denti.

«Abbiamo bisogno di soldi, Kendra. Non so se ti è chiaro. Tuo padre non lavora più e io, beh, eccomi», apre le braccia con indifferenza.

Prendo Elliott pe mano e andiamo nella sua stanza.
Si butta sul letto con il libro stretto al petto e sorride. «Grazie di volermi bene. Mamma mi odia», il sorriso gli muore sulle labbra e il mio cuore si spezza in mille pezzi.

Non riesco a dirgli "No, non è vero, la mamma ti vuole bene". Non è così.
«Non potremmo andare a vivere insieme, solo io e te?», chiede con occhi speranzosi.

«Non ancora, Elliott. Non ancora... Ma la zia si prenderà cura di te», gli accarezzo i capelli biondi e cerco di sorridere.

«Andiamo a prenderci un dolce più tardi?», chiede leccandosi le labbra. Ha la già l'acquolina.

Annuisco.

Non passerai quello che ho passato io, te lo prometto.

«Torno subito», gli lascio un bacio sulla fronte ed esco dalla sua stanza. Mia madre è in cucina, ha gli occhiali da vista sul naso e lo sguardo fisso sulla schermata dello smartphone.

Vado a prendere la borsa e ritorno da lei, lanciando sul tavolo della cucina i pochi soldi che sono riuscita a racimolare.

«Trecento sterline? Tutto qua?», li prende tra le mani con aria disgustata.

«È tutto quello che ho per adesso. Non mi hanno ancora pagata e ho le mie spese, mamma. Ho un affitto da pagare, le bollette, la benzina. Cazzo, non posso prendermi cura anche di voi», grido sedendomi sulla sedia e prendendomi il viso tra le mani.

«Non è un mio problema, lo sai», fa spallucce e infila i soldi nella tasca dei pantaloni. «Ma sono utili anche questi. Grazie», sorride e si alza, andando via.

Appoggio la testa sul tavolo e mi abbandono ad un pianto silenzioso.
«Dovresti prendere in considerazione la proposta di Martha. Lei ogni tanto ci aiuta e questo sarebbe un grande aiuto per te. Smetteresti di fare la fame», dice alle mie spalle e stringo i pugni.

Elliott mi raggiunge in cucina e mi accarezza dolcemente la schiena. «Sei meglio di Martha. Quella strega mi sgrida sempre».

Mi asciugo le lacrime e tiro su con il naso. «Usciamo fuori da questa casa.»
Si infila le scarpe e prende il giubbotto e mi segue verso la mia macchina.

«Quando sarò abbastanza grande e potrò lavorare, ti comprerò una macchina più bella», mi dice facendomi ridere.

«Pensa a te. A me ci penserò io», gli arruffo i capelli.

Controllo i soldi che mi sono rimasti e sospiro profondamente.
Andrà tutto bene.


Un paio di minuti dopo siamo seduti in un locale, soltanto io e lui, al caldo mentre mangiamo una fetta di torta al cioccolato.

«A scuola sto andando alla grande. La maestra è fiera di me perché sto leggendo tutti i libri che mi consiglia», mi dice leccandosi gli angoli della bocca. «Dici che mamma sarà fiera di me un giorno?»

«Non lo so. Ma io sono tanto fiera di te, Elliott. Lo sarò sempre», gli tocco la punta del naso.

Il cellulare continua a vibrare dentro la borsa.
Lo agguanto, ma il nome di Kenneth mi fa contorcere le budella.

Scorro tra i diversi messaggi.

"Dove diavolo sei, Collins?"

"Sei uscita senza avvisare?"

"Ho bisogno di te, rispondi"

"Lascia perdere le divergenze che ci sono state tra di noi. Il lavoro è lavoro. Ti do dieci minuti, dopodiché non sarò più così clemente."

«Tutto bene?», chiede Elliott.

«Sì, tutto bene». Rischio di essere licenziata, ma va tutto alla grande!

«Voglio tornare dalla zia», Elliott mette il broncio e io cerco di non dare di matto davanti a lui.

«Non posso fare avanti e indietro, El. Spero tu possa capirmi, non posso permettermelo. Parlerò con nostra madre e sono sicura che tornerai dalla zia».

Lui accenna un sorriso triste. «Mi comprerai anche gli altri volumi della saga?»

Il mio portafoglio è un po' vuoto, vorrei dirgli. Ma non posso mostrarmi vulnerabile davanti a lui. Conta su di me.
«Sì», rispondo.



«Devo tornare a casa. Domani mattina la zia verrà a prenderlo e ho bisogno che tu non faccia storie, mamma», la guardo con aria sfinita, ma lei alza gli occhi al cielo e cerca di non dire una delle sue solite frasi pungenti.

«Va bene, ma appena avrai dei soldi dovrai aiutare anche noi. Ci siamo capiti? Non può contribuire solo Martha. Lei non ha alcun obbligo, tu invece sì».

Indosso il cappotto e do un bacio ad Elliott.

«Ciao, papà. Sono felice di rivederti», mormoro. Si alza dal divano e muove una mano in segno di saluto. Ha il viso arrossato e gli occhi assonnati, una sfumatura di vergogna gli dipinge il volto stanco.

«Ci siamo capite, Kendra?», chiede mia madre aspettando la conferma.
Annuisco e salgo in auto, pronta a tornare a casa.
È stata una giornata pesante.

Cosa potrebbe succedere ancora?



La batteria del cellulare è morta. Il mio umore è sotto terra e la testa sta per scoppiarmi.

Almeno sono arrivata a casa sana e salva. Non mi piace guidare per tanto tempo. È una cosa che ho sempre odiato. Ho spesso la mente infestata dai pensieri e mantenere l'attenzione sulla sulla strada diventa difficile.

Accosto la macchina e quando scendo mi imbatto in Arnold. Butta il sacchetto nero nella spazzatura e si ferma per guardarmi.

«Sei nei guai? Hai ucciso qualcuno? Hai rubato qualcosa?», chiede incrociando le braccia al petto.

Lo guardo stordita. «No! Perché lo chiedi?»

Lui fa spallucce. «Beh, innanzitutto il tuo capo è passato da queste parti per ben tre volte.»

«Fantastico!»

«Non sembrava molto felice. Poi, penso ti sia arrivata una bolletta pomeriggio. E un'altra cosa, il tuo ex è passato da queste parti. L'ho visto».

Mi appoggio con la schiena al cancello e mi mordo forte il labbro per non scoppiare a piangere di nuovo.
«Sono al verde», esclamo all'improvviso. «E probabilmente rimarrò senza lavoro. Non è meraviglioso?».

Arnold apre la bocca per dire qualcosa, ma la richiude subito dopo.
Mi dirigo verso il mio appartamento senza dire più una parola. Non ce n'è bisogno.

Appena mi chiudo la porta alle spalle, getto la borsa sulla poltrona insieme al cappotto e vado nella mia stanza.
Metto il cellulare sotto carica e raggiungo la scrivania per accendere il mio portatile, ma non è lì. Inizio a cercarlo in tutta la casa, ma del mio portatile non ce n'è neanche l'ombra.

L'avrò dimenticato al lavoro? Non ricordo di averlo portato con me. Lì non mi serve.

Mi siedo sul bordo del letto e guardo la finestra aperta. Ricordo di averla chiusa.

Mi affaccio e guardo giù. Sul davanzale noto un pezzo di foglio attaccato con lo scotch.
C'è soltanto una faccina sorridente e la scritta "Ciao".
Qualcuno è davvero entrato in casa mia.

Cole! Dev'essere stato Cole! Ma lui non ha più le copie delle chiavi.

Mi butto sul letto e chiudo gli occhi. Sono esausta.
Asciugo le lacrime; due colpetti nel muro attirano la mia attenzione.
Una risata amara abbandona la mia bocca.

Chiudo la finestra e lascio il cellulare dov'è, poi esco dal mio appartamento e trovo già la sua porta aperta. Arnold grida: «Sono in cucina. Gli appartamenti sono tutti uguali, quindi sai dove trovarmi.»

Be', in effetti non è molto diverso dal mio. Sembra soltanto più... vivo?

Mi aspettavo di trovarmi davanti agli occhi un casino, ma il suo appartamento appare perfino più carino e ordinato del mio.

«Mi sei sembrata davvero giù prima. Non voglio che tu vada a dormire triste. I miei famosi tramezzini, birra e John Wick ci faranno compagnia questa sera.»

«Oh, John è qualche tuo amico?», chiedo ingenuamente.

Scuote la testa con aria delusa mentre continua a preparare i tramezzini. «Almeno imparerai come fare fuori qualcuno con una matita. Sconsiglio di farlo, ma se vuoi usare il tuo capo come sacco da boxe, fai pure.»

Non ho la minima idea di cosa sia John Wick, ma so per certo che il mio cuore in questo momento batte soltanto per quei tramezzini dall'aspetto delizioso.




«Grazie, Arnold. Sono stata bene», biascico. Mi dirigo verso il mio appartamento con la pancia piena e la testa più leggera.

«Di questo passo finiremo entrambi in un centro di disintossicazione», commenta divertito alle mie spalle.

«È molto probabile», rispondo accompagnando la frase con un singhiozzo. Dio, quelle birre hanno fatto effetto. «Buonanotte!», sollevo due dita per salutarlo e sbatto la porta alle spalle, chiudendola a chiave.

Se Cole intendeva spaventarmi, ci è riuscito! Ma quello stronzo domani si beccherà una denuncia, senza dubbio.
E dovrò cambiare la serratura.

Mi tolgo i vestiti di dosso e vado direttamente sotto la doccia. Dopo una simile giornataccia ho bisogno di rilassarmi.

Quando finisco, avvolgo il mio corpo in un accappatoio e mi butto sul letto. Prendo il cellulare dal comodino e cerco il contatto del mio capo.
A

vvio la chiamata e mi porto il cellulare all'orecchio.

«Si può sapere dove diamine eri finita?», la sua voce è arrabbiata, ma almeno non sta gridando.

«Mi dispiace, ho avuto un contrattempo», dico con voce flebile.

«Hai bevuto?», chiede.

«Sono perfettamente sobria», ridacchio.

«Sei a casa?»

«Sì, per sfortuna. Vorrei essere in una villa, immersa in una vasca con l'idromassaggio e mangiare fragole al cioccolato».

Lo sento sospirare. «Cos'è successo?»

Faccio spallucce, come se potesse vedermi. «Sono stanca», ammetto tirando su con il naso.

«Sei un disastro, Collins», mi chiude la chiamata in faccia e io osservo la schermata luminescente come un'ebete. Ha davvero riattaccato!
Beh è mezzanotte inoltrata, non posso chiamare Eileen. Si preoccuperebbe troppo.

«Che vita di merda», chiudo gli occhi e rimango così per un bel po', con i capelli umidi che bagnano la federa del cuscino e il mio corpo scosso dai brividi. Non ho intenzione di accendere i riscaldamenti. Bene, probabilmente mi beccherò anche un raffreddore!

«Dio, universo, o chiunque tu sia, giuro solennemente che non sfiderò più il destino. Morirò sotto una valanga di merda, ma evviva, che bella la vita!», inizio a parlare con il soffitto. Sto ufficialmente perdendo il lume della ragione.

Qualcuno bussa alla mia porta.
Mi alzo dal letto e vado in cucina a prendere una pentola.

Rapunzel mi ha insegnato a difendermi.

Apro lentamente la porta, pronta a colpire, ma davanti a me c'è Kenneth con una scatola tra le mani e un'espressione dispiaciuta sul viso.
«Ciao, Collins. Posso entrare?», chiede accennando un breve sorriso.

«Ho le allucinazioni. E giuro che non mi faccio di funghetti», metto una mano davanti al petto per difendermi. Spalanco la porta e lui entra dentro, ispezionando come sempre il mio appartamento.

«Hai i capelli bagnati», mi fa presente.

«Sì, l'ho notato anche io», ironizzo.

«Fa freddo, Kendra. Vai ad asciugarli. Ti aspetto qui», indica il divano.

«Sto bene così. Cosa sei sei venuto a fare?»

«No, non stai bene così», mi afferra il polso e mi fa cenno di seguirlo nella mia stanza.

Posa la scatola sulla scrivania, poi va in bagno e ritorna da me con il l'asciugacapelli.

«Nemmeno mia madre è così premurosa», dico con un sorriso amaro.

Kenneth intercetta la mia tristezza e va a riprendere la scatola che ha portato, aprendola.
«Non hai la vasca idromassaggio, ma spero che queste ti facciano stare meglio», mi mostra le fragole al cioccolato e i miei occhi si illuminano d'un tratto.

«Ma i negozi sono chiusi a quest'ora!», dico.

Lui alza gli occhi al cielo. «Mangia e non fare domande.»

Ne prendo una e l'assaggio. Penso sia la fragola al cioccolato più buona che io abbia mai mangiato. Ne mando giù una, poi un'altra e un'altra ancora. Kenneth prende l'asciugacapelli e si posiziona dietro di me. Il mio cuore si ferma quando le sue dita iniziano a pettinare i miei capelli umidi.

Il mio capo è nella mia stanza.
Sul mio letto.
E mi ha portato una scatola di fragole al cioccolato.

«So che sei arrabbiata con me, Kendra. Ma io lo sono ancora di più», sussurra al mio orecchio, poi inizia ad asciugarmi i capelli.

Quando finisce, lo mette via e riprende il discorso. «Sai perché lo sono?»
Scuoto la testa.

«Per quello che hai fatto al lavoro oggi. Non si fa, Collins», sposta i capelli sulla mia spalla e io stringo involontariamente le gambe.

«Sono nei guai?», gli chiedo, guardandolo con la coda dell'occhio.

Mi volto piano piano verso di lui, il suo sguardo è fisso sulle mie labbra.
«In un sacco di guai», replica senza distogliere lo sguardo dal mio.

«E cosa posso fare per rimediare?», gli faccio gli occhi dolci. Probabilmente domani mi odierò di nuovo.

«Lasciati baciare di nuovo, Kendra», la sua mano scivola dolcemente sulla mia nuca e io chiudo gli occhi.

«E se non volessi essere baciata?», sussurro, lui avvicina la bocca alla mia.

«Non sei brava a dire le bugie», sorride e io mi lascio andare del tutto.

«Fanculo», dico poi mi fiondo sulle sue labbra e lo bacio avidamente, come se fosse passata un'eternità dall'ultimo bacio.

La sua bocca calda si stacca dalla mia e scende a baciarmi lentamente il collo.
Mi fa sdraiare, il nodo dell'accappatoio si è quasi sciolto del tutto e io non indosso nemmeno la biancheria intima.
Il mio capo mi sta baciando. La sua bocca esplora la mia pelle e il mio corpo è completamente in fiamme.
Divarico le gambe e lui si fa spazio tra di esse, continuando a baciarmi con foga. Il suo palmo caldo scende sulla mia scollatura e con i polpastrelli sfiora il mio capezzolo, strappandomi un gemito.

«Non so cosa diavolo mi hai fatto, Collins», mormora contro la mia bocca. «Ma non ho fatto altro che pensare al bacio di ieri e cazzo, mi è venuto duro al solo pensiero di sapermi di nuovo qui con te», non bado molto alle sue parole, perché la sua bocca mi sta per mandare dal creatore.

Scende sul mio petto e traccia un sentiero di baci fino al mio seno. Poi si ferma, il suo respiro caldo si infrange contro l'areola e io inarco la schiena, supplicandolo di darmi di più. La sua bocca si chiude intorno al mio capezzolo e io penso di aver appena visto le stelline intorno a me.

«Non smettere», lo prego. Lui mi prende l'altro seno con una mano e inizia a baciarlo, ma poi si ferma all'improvviso.

«Perché ti sei fermato?», chiedo trafelata.

Si tira lentamente indietro e fa scorrere il dito tra i miei seni fino ad arrivare al mio ombelico.
«Volevo solo assicurarmi che domani ti presenterai al lavoro».

La festa è finita. La felicità è scomparsa. E i miei neuroni sono appena scoppiati.
Mi copro e mi metto a sedere, più rigida che mai.

«E sei finito casualmente con la bocca sulle mie tette? Cavolo, complimenti signor Harrison».

«Kendra, non posso fare questo... Tu lavori per me e-»

«E cosa potrebbe mai vedere il mio capo in una che prepara i caffè e legge i manoscritti? Ti vergogni, non è così? Perché siamo diversi. Io non sono come Leslie», non so se sia l'alcool a farmi parlare così, ma so per certo che sono molto arrabbiata. Anzi, no. Sono furiosa.

«No, non sei come Leslie», conferma. «E non voglio che tu lo sia. È solo che, sì, siamo troppo diversi e la mia vita è incasinata».

«La porta è lì», gliela indico.

«Non fare così».

«So che sei abituato a frequentare donne ricche, o almeno che non siano al verde come me, non devi fingere che non sia così. Me lo puoi dire».

«Al verde?», chiede, corrugando la fronte.

«Già, proprio al verde».

Lui si avvicina a me. «Perché non me l'hai detto? Hai bisogno di un anticipo?»

«Perché non voglio sembrare una morta di fame, anche se tecnicamente lo sono», inizio a ridere nervosamente, tirandomi poi uno schiaffo sulla fronte.

«Stai scherzando?», chiede, sempre più perplesso.

«Ti sembra uno scherzo? Cazzo, ho dovuto regalare il secondo volume di Percy Jackson a mio fratello, ho dovuto dare i soldi a quella stronza di mia madre, ho pagato la benzina per arrivare a Loughborough sana e salva e sono stanca», mi prendo la testa tra le mani e premo le dita contro le tempie.

«Tuo fratello ha preso da te? Gli piace la lettura?», chiede facendomi sorridere. Non tanto per la domanda quanto per il suo interesse verso Elliott.

«Sì, e vorrei regalargli un'intera libreria, ma non posso permettermelo e questa cosa mi fa male. Tanto male. Gli ho promesso che un giorno la nostra vita sarà diversa».

Kenneth stringe il mio ginocchio per darmi conforto. «Avresti potuto dirmelo, Kendra... Ti farò avere una parte del tuo stipendio domani».

Annuisco senza guardarlo in faccia. Mi vergogno da morire.

«Quindi non mi licenzierai?», chiedo tra le lacrime.

«No, non lo farò. Ma non ci sarà una prossima volta, Kendra. Non posso fare favoritismi», si passa la mano sul collo.
«Ci vediamo domani al lavoro. Buonanotte. Spero tu stia meglio».

E mentre lui lascia la mia stanza, io ripenso alle parole di Arnold.

Abbiamo iniziato un gioco e non sappiamo neanche giocare.
Mi chiedo fino a che punto ci spingeremo, io e lui.

Ciao a tutti, spero vi sia piaciuto il capitolo ❤️ non so quando arriverà il prossimo, però mi sono fatta perdonare con questo doppio capitolo spero 😂

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