8. Resta con me
I biscotti al Pajac che dai a Jules Verne per premiarlo ogni volta che fa i bisogni nel luogo designato;
L'eyeliner spesso sugli occhi, la coda allungata che li rendevano simili a due mandorle;
Il Rosolio al Tubero che bevi ogni volta che andiamo al Bar Sospeso;
Il sorriso che nasce spontaneo dalle tue labbra quando Penelope ti rivolge la parola.
Gli ordini perentori; gli sguardi seri; la solitudine; nessuna foto di famiglia a decorare la tua stanza.
Per me, Blue, sei tutto questo.
***
L'ologramma del Comandante della base dei Vigilantes del cluster A della Galassia di Andromeda, Jin, ondeggiava in mezzo a loro. Il pannello di comunicazione, una base circolare posta alla base del pavimento, l'aspetto un po' bombato la rendeva simile a una piccola cupola, emise uno frizzo elettrico. La figura bluetta si spezzò in due, prima di ritornare di nuovo a immagine intera.
"È stato appena emanato uno stato di allerta di tipo Leviatano."
Il Capitano Blue e lә Tenente Ren Settantaduesima si guardarono, entrambә scurә in volto. L'Umana si morse il labbro superiore, il rossetto scuro che le dipingeva le labbra si scolorì proprio al centro.
Raddrizzò la schiena. "Di cosa si tratta, Comandante?"
Akira, invece, aggrottò la fronte. Non era da poco che prestava servizio sulla Lucy, appena due anni solari di Spitzer, il pianeta su cui si trovava la base a cui facevano riferimento. Eppure era la prima volta che era testimone dell'emanazione di un'allerta "Leviatano". Il massimo che aveva raggiunto era il "Kraken", quando una banda di pirati Kairos aveva assaltato un pianeta al confine tra il cluster A e il cluster B e tentato di rapire i civili per rivenderli come schiavi.
Si grattò la testa. Esisteva nel mondo qualcosa peggiore di quello?
Abbassò lo sguardo, il pavimento lucido gli proiettava di rimando il suo viso accigliato, una bocca corrucciata, capelli talmente neri da confondersi con il resto dello sfondo.
Ma certo. Certo che esisteva.
Svegliati!
Ormai sono finiti gli anni in cui ci si illude che tutto possa andare per il meglio, la vista proiettata su un futuro migliore.
L'ologramma continuava ad agitarsi. Sullo sfondo, di tanto in tanto, giungeva un vociare concitato e lontano, di qualcuno che si stava dando un gran da fare e volteggiava attorno al Comandante Jin e che disturbava il segnale.
"Un comunicato dal carcere di massima sicurezza di Helios Beta. A quanto pare La Furia è riuscita a scappare."
Strabuzzò gli occhi. Il petto sussultò.
Quel nome. La voce di un telegiornale che parlava del Partito degli Indipendentisti Umani, fresco di fondazione, ma che aveva già conquistato un posto tra i seggi delle Nazioni Unite. Frances Norman, colei che sarebbe passata alla storia con il nome de La Furia, che vomitava di fronte a una diretta streaming il suo odio per gli alieni. "Colpa loro!" ripeteva ogni volta, "è solo colpa loro se adesso noi Terrestri soffriamo così tanto. Siamo considerati una Civiltà di serie B, per questo ci lasciano le briciole. Bisogna passare all'azione e far capire loro chi è che comanda davvero! Dobbiamo risorgere dalle nostre ceneri, più forti che mai!"
I commenti ai lati della diretta proferivano appalusi festanti.
E lui guardava lo schermo, attonito. I suoi genitori alzavano gli occhi al cielo. "Che mucchio di stronzate. Se siamo in questo stato è solo colpa nostra, gli alieni non c'entrano nulla."
Trasalì. Non poteva pensare a loro, non in un momento come quello. Un moto di rabbia, simile a un formicolio, serpeggiò dal petto fino a infondersi tra le dita delle mani. Le immaginava mentre premevano il grilletto contro quella donna che sorrideva attraverso le dirette streaming prima e dietro ai mandati di cattura poi.
Sua madre sorrideva. "Sei felice, oggi, Akira?"
"Cosa?" Blue sembrava sul punto di gettarsi contro la proiezione dello Stratiota per scuoterlo. "Com'è possibile? Come ha fatto a evadere?"
Jin scosse la testa. "Piacerebbe saperlo anche a me. A quanto pare laggiù le Guardie del Consiglio sanno solo lamentarsi, invece che fare il loro lavoro."
Adesso la pistola sparava anche a loro. Inetti. Incompetenti. Come avevano potuto tradire la sua fiducia in quel modo? Glielo avevano promesso. Era l'unica richiesta che aveva preteso da loro.
Non uscirà mai più da qui. Non aveva voluto neanche ricevere il risarcimento riservato alle vittime di quel mostro. A lui, quei soldi sporchi di sangue non servivano.
Cher era impallidito, sul punto di svenire. Non lo biasimava. Tra i Protoi, il nome de La Furia non provocava ricordi piacevoli: la sua ultima impresa, prima di essere fermata e spedita su Helios, era stata far saltare in aria un Consolato Protoi sulla Luna. Duemila morti.
Perfino Penelope guardava la sagoma di Jin con gli occhi sbarrati: la pericolosità di quella donna era giunta anche alle orecchie di una provinciale come lei.
"Dobbiamo darle la caccia, Comandante?"
Ren si era allineatә al fianco di Blue, la bocca una rigida linea inespressiva. Gli occhi gialli dritti sullo schermo non tradivano alcuna emozione. Akira osservò il suo profilo da gatto blu e si chiese come facesse a rimanere impassibile di fronte a una simile notizia.
"Assolutamente no." S'indurì il Comandante. "Il Consiglio è già partito all'inseguimento, tutti i pianeti del cluster sono stati avvertiti e le norme di sicurezza applicate. Il nostro compito è quello di sorvegliare il portale e assicurarsi che nessuno entri o esca. Da questo momento in poi, siamo in isolamento." Prese fiato, la voce si fece più grave. "La Furia è riuscita a fuggire a bordo di una nave della Guardia del Consiglio, ci hanno segnalato che ha degli ostaggi con lei. Non fate nulla di avventato, è armata e pericolosa."
Di nuovo, un pizzicore formicolava sulla punta delle dita. Aprì mentalmente il fuoco anche contro il Comandante.
Una voce dal fondo parve richiamare l'urgente attenzione di Jin e il suo ologramma scomparve.
La cupola di fronte a loro apparve più nera che mai.
Akira rimase a guardarla fino a quanto non sentì i bulbi troppo secchi.
La Furia.
Ti abbiamo mai raccontato come ci siamo conosciuti io e tuo padre, Akira?
***
Raccontarmi perché avessero deciso di chiamarmi Akira era il passatempo preferito dei miei genitori. Si sono conosciuti in un cinema, in proiezione davano un film animato giapponese degli anni Ottanta. Akira.
Io odio gli anni Ottanta. Tutti amano gli anni Ottanta. Sembra che sulla Terra non ci sia stato periodo migliore. Che nausea. Perché la gente ama ricordare il passato e non pensa mai al futuro?
Quando chiesi loro di che parlava il film, mi dissero che in realtà non lo ricordavano. Forse di una banda di ragazzini con i poteri magici in moto, boh, chi lo sa. Fatto sta che si conobbero in questo modo e io non mi sarei potuto chiamare altrimenti.
Akira.
Me lo raccontavano sempre ridendo. Mio papà beveva una bottiglia di birra mentre cucinava; mia mamma, seduta al tavolo, narrava con un sorriso leggero e lontano di come per tutto il film non aveva fatto altro che osservare quell'uomo alto e bellissimo. Anche perché si era seduto proprio davanti a lei e le copriva la visuale.
In sottofondo, della musica city pop anni Ottanta aleggiava attorno a noi. Ancora quei maledetti anni. Attorno a noi, sparsi sul tavolo da cucina, per terra, perfino tra le stoviglie sporche che papà aveva utilizzato per cucinare, dei volantini, le scritte "No xenofobia in Parlamento" campeggiavano a caratteri cubitali. Da quando avevano iniziato a militare nelle manifestazioni pro Consiglio, la casa si era riempita di slogan Anti Partito Indipendentista Umano. Odiavo anche quei maledetti foglietti. Oggi li odio ancora di più. È tutta colpa loro se...
Comunque, io Akira non l'ho mai visto. Mi piace continuare a credere che sia un film su dei ragazzini magici che vagano per le strade di Tokyo a bordo delle loro moto, anche se mi pare davvero una trama assurda.
***
Da quando il Comandante Jin aveva chiuso la comunicazione, era scesa una strana quiete sulle spalle di Akira. Era irreale, vuota, un senso di sospeso che neanche lui sapeva spiegarsi. Blue gli aveva dato subito ordine di disattivare il pilota automatico e di iniziare le manovre di ronda attorno al portale Cluster A, ma lui non si era mosso da quello stato di nulla.
Il Pilota aveva impiegato un po' a immagazzinare quell'informazione, gli occhi ancora fermi sulla cupola nera. Il vuoto incombeva attorno a lui, malgrado sentisse i movimenti concitati degli altri che si affaccendavano a raggiungere le loro posizioni, Penelope che sparava domande senza sosta, agitata, la voce trafelata. "E che facciamo adesso, Capitano? Come dobbiamo comportarci se vediamo La Furia? E se aprisse il fuoco? Ma dobbiamo catturarla viva o morta?"
Non dava neanche il tempo di rispondere.
"Perché, tra tutte le prime missioni che dovevano capitarmi, proprio quella di facilitare la cattura di una delle Terroriste più pericolose in circolazione?" si lamentò infine, quasi piagnucolando.
"Ma taci, ti lamenti sempre! La mia prima missione è stata salvare uno scienziato su un Asteroide, una noia mortale. Almeno questa è movimentata."
Il nero del vuoto divenne una putrida coltre di odio. Perchè Ren doveva sempre aprire bocca per sparare stronzate?
"Sei sempre inappropriatә, Ren! Non ammetto battute sulla Criminale che ha sterminato in un colpo solo duemila fratelli della mia specie."
Ren rimase in silenzio. Era la prima volta che qualcuno lә aveva rubato l'ultima parola.
"Akira. Ti senti bene?"
Il ragazzo di ridestò. Alzò gli occhi al soffitto. Lucy era un'entità che permeava le pareti della nave, eppure fu come se gli avesse appena soffiato all'orecchio. Doveva smetterla di darle una personalità che non aveva: le A.I. non provavano sentimenti. Lei non era preoccupata. Il tono allarmato che gli era parso di udire era frutto di un suo blando tentativo di umanizzare ciò che umano non era.
Si stropicciò l'estremità degli occhi con la punta delle dita. La vista del soffitto latteo, dopo essersi abituato al nero piombo della cupola di comunicazione, gli bruciò la vista. Mimò qualcosa con le labbra, ma non uscì alcun suono. Il riflesso metallico del soffitto gli restituiva un'immagine sbiadita di lui, ma abbastanza nitida da fargli notare quanto colore avesse perso.
Una mano si racchiuse sulla sua spalla. Questa volta era reale. La voce di Penelope lo sorprese da dietro la schiena. "È una notizia sconcertante, lo so." Il ragazzo si girò verso di lei. Quando sorrideva, si formava una rughetta sul naso. Era ancora più carina, così. Ed era solo per lui, per tranquillizzarlo. "Ma non preoccuparti, la prenderanno."
"Stavo per dire esattamente la stessa cosa. È tua abitudine intrometterti nelle conversazioni che non ti riguardano, o ti diverti a farmi riformulare continuamente la mia risposta, Umana Soto?"
"Ma tu dovresti rispondere in simultanea, Lucy, la tua programmazione non prevede alcun tipo di formulazione prolungata..."
"Vuoi sapere meglio di me come funzionano i miei processi creativi?"
"Beh... sì, visto che sei stata creata dagli umani."
"Ok, potete anche smetterla di litigare davanti a me." Akira si scrollò via la mano di Penelope dalle spalle. "Comunque sto bene, non c'è bisogno che vi preoccupiate così tanto."
Uscì dalla sala comunicazioni senza guardare nessuno di loro. Doveva disattivare il pilota automatico e fare il suo dovere, sperare che la giustizia del Consiglio facesse il suo corso. Non era quello che faceva sempre? Sperare?
E fin dove lo aveva condotto la speranza?
"Tenente Pilota Akira Morales?"
Girò la testa. Sul fondo del corridoio, tra la sala comunicazioni e lui, Blue lo osservava, una spalla poggiata sullo stipite della porta, il volto scuro, un po' di mascara colato sul viso cosparso di efelidi.
Si guardarono, Pilota e Capitano. Sapeva cosa stava per chiedergli. Decise di anticipare la sua domanda.
"C'entrano i miei genitori, Capitano."
"Immaginavo." Si staccò dalla parete e mosse alcuni passi verso di lui. "Ti chiedo di mettere da parte le questioni personali, per questa volta."
"Non posso promettertelo, Blue."
"Capitano," lo corresse, e il cipiglio s'indurì. "Dico sul serio, Akira. È una questione delicata. Il caso è in mano alla Guardia del Consiglio. Noi siamo dei Vigilantes, il nostro dovere è assicurarci che l'ordine pubblico sia rispettato. Nient'altro."
Fece un verso di scherno. "Certo, la Guardia del Consiglio. La stessa che se l'è fatta sfuggire."
Mosse un altro passo verso la cabina di pilotaggio, ma la voce di Blue lo costrinse a fermarsi un'altra volta. "Le mie richieste sono ordini, Tenente. Se fai anche solo un passo falso, dovrò cacciarti da questa nave."
Akira sospirò. Di nuovo, le mani fibrillavano. Questa volta avrebbero voluto infrangersi contro il viso della donna di fronte a lui. Impiantò i piedi contro il pavimento, le braccia parallele lungo i fianchi. Alzò di poco il mento e la guardò negli occhi. "Ricevuto, Capitano."
Ma che ne poteva sapere, Blue, di quello che provava lui? Lei non aveva mai avuto una famiglia.
***
Un lavoro normale. Una casa normale. Una famiglia normale.
Ero una persona normale. Ogni sabato mi recavo alla stazione spaziale con i miei amici per osservare le astronavi che lasciavano la Terra. Per andare dove? Chi lo sa?
L'importante era lasciarsela alle spalle, per sempre.
Le scie bianche delle navi accompagnavano i miei occhi lungo i cieli grigi di Manila. Quel bianco, immerso tra le polveri sottili che pesavano sul petto, pareva folgorare il grigiore attorno a noi.
Quando erano ormai troppo lontane, prendevo lo scooter e tornavo a casa. Le strade dissestate, la gente disperata buttata agli angoli dei marciapiedi, uno skyline alto e irraggiungibile, venditori ambulanti, gli ologrammi che sparavano a tutto volume gli slogan fastidiosi di quel cazzo di Partito Indipendentista: tutto scorreva attorno a me. Baciavo mamma e papà, cenavo con loro e poi uscivo di nuovo. Ballavo, bevevo e andavo a letto con altri esseri umani e mi dimenticavo delle scie. Della fame. Degli attentati.
Tornavo a casa, così stanco che mi gettavo sul letto con i vestiti che avevo ancora addosso, ma senza la voglia che avevano tutti gli altri di scappare.
Io volevo restare.
Mi piaceva andare a dormire e sperare il domani sarebbe stato migliore: lavoro, scorribande con gli amici, cena con i miei, e poi di nuovo a ballare, conoscere nuova gente dagli occhi vuoti che si strusciavano addosso a me. Avrei voluto che quegli occhi fossero di nuovo pieni di vita. Di speranza.
E poi fui licenziato.
"Ormai il tuo lavoro lo può gestire un'A.I. in totale autonomia, Akira. Mi spiace. Non c'è più spazio per te, qui."
Non c'è più spazio per te, qui.
Mi venne in mente il cielo e quei reticoli bianchi che lo attraversavano ogni volta che le astronavi si lasciavano alle spalle la stazione spaziale.
"Com'è andata oggi, Akira? Sei felice?"
Sei felice?
È una domanda così ingenua. Mia mamma la pronunciava sempre ogni volta che rincasavo, reclinando un po' la testa. Se avessi risposto di no, si sarebbe messa a piangere. Stava lottando con tutta sé stessa per lasciarmi un futuro più felice.
Aveva sempre più rughe. La petizione portata avanti dall'Associazione in cui era entrata a far parte era finalmente stata messa ai voti. Presto, forse, gli Indipendentisti Umani sarebbero stati dichiarati fuori legge.
Continuava a sorridere. Il giorno in cui le ho finalmente confessato che mi avevano sbattuto fuori dall'azienda, mi aveva abbracciato forte. "Non perdere la speranza, Akira. Sono sicura che lì da qualche parte c'è qualcosa di bello per te."
Prima o poi avrei trovato qualcuno con cui accasarmi e avere dei figli. Avrei trovato un lavoro altrettanto noioso e tranquillo come quello di prima. Avrei ascoltato la stessa musica, ma avrei visto la Terra migliorare davanti ai miei occhi. E quel grigio sarebbe diventato presto azzurro. Perché era questo quello che volevo.
"Mamma. Sono qui con voi. E non chiedo nulla di meglio."
E quei miei amici, che mettevano i soldi da parte in attesa di lasciare al più presto la Terra, "gabbia di smog e fumi tossici", dicevano loro, per andarsene in qualsiasi altro pianeta che non fosse quello, io li compativo. Non capivano. Non capivano quanto di bello avesse da offrire quel mondo oltre la siepe affollata, fatto di gente disperata, di case fatiscenti, di novità che scivolavano via dalle loro mani.
Gli umani andavano via, le I.A. restavano per fare ciò che gli umani abbandonavano dietro di loro. E il Partito Indipendentista si abbeverava della rabbia di chi era costretto a rimanere lì.
Ma io... Io non ero costretto.
"Mamma. Sono qui con voi. E non desidero nulla di meglio."
Non ero costretto. Fino a quel giorno.
Quando misi il piede dentro casa e vidi il tappeto in soggiorno tinto di rosso, le chiazze brillanti che inzuppavano il biancore della trama di lana, pensai al cielo. Alle scie bianche. Ai miei amici che mi ripetevano "Vattene, finché puoi. Non farti mangiare vivo da questo pianeta infame, che non ha più nulla da offrirti."
Mamma. Papà. Dormivano sdraiati sul pavimento, due pozze di sangue che si allargavano dagli addomi fracassati.
Rimasi a guardarli per ore, in attesa che si svegliassero per venirmi incontro. Mia madre mi avrebbe chiesto, "Com'è andata oggi, Akira? Sei felice?" e io avrei riso, perché quella era una domanda davvero stupida.
Non ho più un lavoro. La Terra fa schifo. I miei amici diminuiscono anno dopo anno, chi fottuto dalla droga, chi su un altro pianeta, chi smarrito in qualche casinò, a tentare una fortuna che tanto non arriverà mai, non così.
"Ma', ho finito quel corso da pilota di cui ti parlavo qualche mese fa. Forse un po' felice oggi lo sono per davvero."
Non lo stetti neppure a sentire, quell'agente di polizia che mi stava spiegando chi poteva averli uccisi. Tanto sapevo già chi era il colpevole, i tentativi di depistaggio non avrebbero mai attecchito.
È lui che mi ha chiamato? No, la voce è troppo grave, non è stato lui. Forse è stato il vicino. Avrà sentito le urla. E infatti eccolo, lo vedo dal suo angolino di merda che ci spia, tutto timoroso. So che se mi girerò a guardarlo negli occhi, si ritirerà nella sua dimora, chiudendosi la porta dietro di sé. Non vuole avere nulla a che fare con questa storia.
Per non finire come loro.
"Purtroppo, sa... in questo quartiere ultimamente le bande criminali sono aumentate in modo esponenziale. Cercano soldi e... questo e..." Il poliziotto si sporse per guardarlo. "Va tutto bene?"
"Com'è andata oggi, Akira? Sei felice?"
Domande stupide. Perché tutti facevano sempre domande così stupide?
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