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Capitolo I

"Devo parlarti, Mathis!".

Essendo in classi differenti, io e il mio amico Paul ci trovavamo sempre all'uscita di scuola, davanti al cancello principale. Non capitava spesso che ero io quello che si faceva attendere, infatti, quel giorno, dopo aver aspettato più di cinque minuti, lo vidi uscire dalla porta dell'edificio e, come al solito, non aspettò nemmeno di essermi vicino per parlarmi: "Ho un'idea che ci cambierà la vita!" due ragazze che passavano sulla strada affianco a me lo guardarono, pensando che si stesse rivolgendo a loro, ma non si fermarono e aumentarono il passo. Gli studenti erano già tutti sulla via di casa a parte quelli che, per qualche ragione, dovevano trattenersi a scuola il pomeriggio. Li intravedevo dietro le finestre del piano terra, affacciate sul bar e non potevo fare a meno di pensare che loro stavano mangiando, invece io avrei dovuto aspettare venti minuti prima di arrivare a casa e, quindi, mettermi qualcosa sotto i denti.

"Mathis, mi stai ascoltando?" chiese Paul, arrivato vicino a me.

"Tutte le tue idee mi cambiano la vita..." dissi incamminandomi e non troppo disposto a starlo a sentire. Paul era un ragazzo molto alto. La prima volta che l'avevo visto pensai arrivasse a due metri, ma dovetti ricredermi perché arrivava solo a poco più del metro e ottanta. Aveva la carnagione scura e un corpo magro con delle spalle strette, pancia piatta e gambe lunghe. I suoi capelli erano molto corti, neri e ricci, gli occhi color nocciola e grandi, un naso a patata e delle labbra chiare e spesse. Vestiva sempre sportivo con pantaloni larghi, scarpe da ginnastica e felpa. Inoltre d'estate era solito a portare il cappello con la visiera, ogni volta ne aveva uno diverso e sempre colorato.

Ero sicuro che quel giorno aveva avuto lezione di greco perché ogni volta che succedeva, dato che lo detestava e non riusciva a seguire, se ne veniva fuori con qualche idea, pensata durante quel tempo. Non aveva un pensiero costante su un hobby o qualsiasi altra cosa, per lo più si fissava su ciò che gli capitava di pensare. Una volta si presentò a casa mia con un cane e, dopo tutto il prologo dove esponeva il suo sentito pensiero contro chi abbandonava gli animali e il fatto che aveva deciso di fare qualcosa in proposito, mi disse che aveva trovato quella bestia per strada, ma non poteva tenerla con sé per il poco spazio in casa. Mi propose di prendermi cura di "Adele", così aveva chiamato la cagna, per una notte. Finì che la ospitai, con approvazione dei miei genitori per una settimana, durante la quale lui scrisse su internet alcune proteste sulla questione. Dopo quei pochi giorni non diede più importanza a quel fatto e, accertatomi che non c'era più possibilità che i padroni venissero a riprenderla non ebbi coraggio di darla al canile e Adele rimase con me a casa, dove vive tutt'ora. Paul iniziò ad interessarsi sull'alimentazione e passò quel periodo che personalmente chiamavo "Non far vedere a Paul la carne". Usciva di testa appena vedeva tutto quello che si poteva mangiare che non era frutta, verdura, cereali e poche altre cose di cui non mi ero interessato. Voleva avere una dieta vegana e cercò di convincere anche me per un po', ma alla fine dopo qualche mese mise in bocca un hot dog e rinunciò al pensiero di mangiare in quel modo. Potrei elencare tutte le sue idee, da quella di fingere un malore per provare almeno una volta di essere portato in ambulanza per la quale ho dovuto accompagnarlo e rispondere a tutte le domande dei suoi genitori, preoccupati, a quella di voler fare a botte per strada dove ho preso un pugno in faccia che per poco mi spaccò il naso.

Insomma, motivandomi col fatto che, in tutte le sue idee, giuste o sbagliate, andavo di mezzo io in modo non sempre gradito, non volevo scoprire cos'aveva da dire.

Mi mise la mano sulla spalla, camminando vicino a me: "Partendo dal presupposto che voglio una ragazza" iniziò a dire e io alzai gli occhi; questo presupposto non lo gradivo.

"Ho pensato che potevamo fare un giro in quel quartiere...".

Mi fermai, eravamo in una piccola via dalla quale, poco più in là, avremmo preso il pullman per andare a casa.

"Quale?" stavo sperando che non intendesse proprio...

"Pigalle, il quartiere a luci rosse" mi sorrise soddisfatto.

Ci guardammo per poco negli occhi, mentre ridacchiai con lui. Era proprio ciò che temevo e non so se prenderlo come uno scherzo o prendere lui per matto. Continuai a camminare e tornai serio: "Nulla al mondo mi porterà in quel posto".

"Andiamo fratello, fallo per me" insistette, ma quella volta ero convinto di ciò che dicevo, non mi sarei lasciato trascinare.

"Sono la persona sbagliata da portare lì e, inoltre, non ho capito perché devi andarci".

"Le ragazze Mathis, le ragazze! Sarà la volta buona che ne trovo una o, almeno, mi diverto un po' e poi anche tu hai bisogno di fare nuovi incontri".

Ci fermammo ad aspettare il pullman in piedi. Vicino a noi c'erano due anziani seduti sulla panchina della fermata del bus e una donna in piedi che guardava la strada.

"Avere un rapporto a pagamento è una cosa disgustosa e non ne hai bisogno. Per quanto mi riguarda quei "nuovi incontri" di cui parli non mi interessano".

Non ero mai andato in quel luogo, il quartiere a luci rosse Pigalle. La sua reputazione di "brutto posto" e il significato stesso di "a luci rosse" non mi avevano mai invogliato ad andare a dare una sbirciata, anche se ho sempre voluto vedere il Moulin Rouge.

"Non farti pregare Mathis! A chi altro dovrei chiedere?" chiede Paul con gli occhi dolci di chi non aspetta altro che un Sì. Unì le mani e fece la faccia triste.

Era proprio in quel modo che mi lasciavo convincere, ma questa volta feci il risoluto ancora per un po'. Poi pensai alla sua domanda. Lo sapevo che non poteva rivolgersi a nessun altro perché solo con me aveva un'amicizia così forte e reciprocamente, anche se non approvavo molte sue azioni, anche io ero molto legato a lui e, come si può dire di no ad un amico?

"Mi hai convinto" mi rassegnai e lui saltò di gioia, facendo spaventare la donna accanto a noi, poi aggiunsi "A patto che daremo solo un'occhiata".

"Che noia, fratello. Va bene, allora niente ragazze" mi tese la mano e gliela strinsi. Ero contento che aveva accettato senza obiezioni, così, secondo i miei calcoli, si sarebbe stufato di gironzolare per quel quartiere senza far nulla entro un'ora e ce ne saremmo tornati a casa.

Uno volta preso il pullman e visto Paul scendere due fermate prima della mia, andai a mangiare con le parole del mio amico per la testa: "Vieni sotto casa mia alle nove, questa sera. Ci divertiremo!".

Mi accolse alla porta Adele, l'ormai mio cane. Era un Bouledogue di taglia piccola e, ormai, quasi già adulto. Aveva le orecchie tese, due occhioni neri e un pelo raso e bianco; solo sulla faccia aveva due chiazze nere che gli coloravano la parte destra e la sinistra, lasciando una striscia chiara verticale dalla testa al naso.

Mi fece le feste, aggrappandosi alle mie gambe con la lingua di fuori e le accarezzai il dorso.

Non dovetti rendermi conto che i miei genitori non erano in casa perché era così quasi sempre. Erano via per questioni di lavoro a volte tutta la mattina, altre volte mattina e pomeriggio e poi capitava che uscivano anche la sera.

Mangiai con la compagnia della televisione e, andando in camera mia, passai davanti allo specchio dell'entrata. Fermo a guardare la mia immagine mi accorsi di avere delle occhiaie non troppo marcate, causate dallo studio fino a mezzanotte di ieri e feci un sospiro. Non mi guardavo spesso il riflesso perché non mi piaceva molto il mio aspetto. La mia altezza che arrivava appena al metro e sessantacinque e le lentiggini che avevo sparse per il viso non mi facevano sembrare un diciottenne. I miei coetanei lo trovavano un motivo per esprimere battute poco gradite sul mio conto e i miei parenti per abbracciarmi e stritolarmi come un bambino. A volte credevano che stavo studiando per l'esame della scuola media, non per avere il diploma delle superiori. A peggiorare la cosa, c'erano i miei capelli color carota con quell'imbarazzante taglio a caschetto che quasi mi nascondeva le sopracciglia. Aveva insistito per farmelo mia nonna, dicendo che lo faceva a mio padre quando era piccolo. L'avevo accontentata pur sapendo il pericolo e immaginando a quanto poteva essere buffo mio padre con lo stesso taglio.

Distolsi lo sguardo da me stesso e andai in stanza a prendere dallo scaffale un buon libro, la cosa migliore che potevo fare, dato che amavo leggere e non riuscivo a stare un giorno senza farlo. Fin da piccolo mi ero interessato più a quello che a guardare i cartoni animati, per tale motivo stavo frequentando il liceo scientifico di Parigi. Non sapevo cosa avrei fatto dopo il diploma, ma mi bastava andare a lezione e imparare più cose sulla letteratura e la filosofia. Non andavo pazzo per le lingue, ma me la cavavo bene con l'inglese e, per quanto riguarda le materie scientifiche, seppur non ero portato, avevo voti molto buoni. Insomma, per tutti i miei compagni ero il più bravo della classe e colui da cui prendere esempio dalle insegnanti e questa reputazione non mi aiutò molto con i rapporti sociali. Non che fossi un escluso, ma i dialoghi con gli altri ragazzi erano per lo più riguardanti i compiti e le verifiche, per chiedermi aiuto o anche solo un consiglio. Le ragazze non facevano lo stesso, ma, di certo, non ero per loro il ragazzo dei sogni. Poco mi importava perché il mio interesse stava nello studio e, inoltre, avevo Paul che era solo uno, ma mi impegnava più di quanto lo facessero dieci persone, perciò non c'era noia nella mia vita.

Quel giorno cenai da solo e, salutando Adele, uscii di casa, trovandomi sotto l'edificio di Paul per l'ora che mi aveva detto.

"Mathis!" esclamò, aperto il portone. Lo lasciò chiudere da sé e mi incitò a incamminarmi velocemente verso quel quartiere perché era molto entusiasta.

"Mia madre pensa che stiamo andando a casa tua a guardare un film" ridacchia.

"E cosa succede se chiama e nessuno risponde?".

"Sei il solito, rilassati...".

Avevo messo un giubbotto non troppo leggero su una maglia a maniche corte, dei jeans e delle scarpe da ginnastica. Il tempo era stato discreto per tutto il giorno con il sole che andava e veniva perciò non faceva troppo freddo e poi eravamo nel mese di Aprile e tra non molto sarebbe iniziata la primavera. Paul invece indossava la solita felpa con lo stesso tipo di pantaloni che usavo per fare ginnastica e delle scarpe sportive. Essendo le nove di sera passate da poco i lampioni stavano pian piano rimpiazzando la luce del cielo e le persone per strada tendevano a diminuire.

Prendemmo la metropolitana, sotto indicazione della mappa trovata su internet, visionata sul cellulare e facemmo un scambio a Charles de Gaulle-Etoile, scendendo alla fermata Pigalle.

Salimmo le scale per uscire in strada, passando sotto ad un arco che portava la scritta "Metropolitain" e mi colse un improvviso stupore. Rispetto al posto da dove eravamo partiti, sembrava un'altra nazione; non pareva ancora Parigi. C'erano così tante persone che superavano in gran lunga quella al supermercato il sabato pomeriggio ed era impossibile contarle. Tutto era illuminato, quasi ogni edificio e c'erano scritte di tutti i colori che lampeggiavano come a China Town. C'era musica, mischiata al chiacchiericcio generale e Paul era tremendamente emozionato: "Dimmi che non è stata una buona idea?" mi chiese, volendo dire che aveva avuto ragione lui a venire qui.

"Non è stata una buona idea" affermai, dandogli torto, avendo accurato che quel posto, come pensavo, non faceva per me.

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