9. Lithium
Jun’s POV
“Che diamine stai facendo, Riku?” esclamai tentando di divincolarmi dalla sua presa. La sua stretta attorno alle mie braccia non accennò a diminuire. Il suo respiro caldo mi solleticò il collo quando sussurrò, decisamente troppo vicino al mio orecchio “esattamente quello che vuoi anche tu”.
Un brivido di paura mi attraversò il corpo. Avvertii le sue labbra poggiarsi sulla mia guancia, annusando la mia pelle come un animale famelico. Aveva il fiato spezzato, la sua lingua bollente corteggiò oscenamente la mia mandibola. Le sue mani calde, ancorate con una stretta salda alle mie braccia, accarezzavano insistentemente la mia pelle provocandomi una serie di incontrollate scosse elettriche che vagarono senza alcun controllo attraversando la spina dorsale.
“Dio, hai un profumo buonissimo Jun...” soffiò contro il mio collo.
Tentai di ignorare totalmente il fremito che quelle parole e quei gesti, assolutamente inopportuni, mi causarono. L’adrenalina iniziò a scorrere incontrollata nelle mie vene. Senza nemmeno rendermene conto, la mia gamba si mosse da sola, lanciando una ginocchiata alla cieca tentando di colpirlo.
Riku mollò immediatamente la stretta attorno alle mie braccia, mugolando per il dolore.
Con facilità, mi allontanai rapidamente da lui, sgusciando via dalle sue braccia come una gazzella dalle fauci del leone. Cercai a tentoni l’interruttore della corrente lasciandomi sfuggire un sospiro di sollievo quando tornai a vedere.
Con il battito ancora accelerato e gli occhi inumiditi dal terrore, mi voltai verso di lui. Era chino su sé stesso, un’espressione sofferente dipinta in volto, mentre con entrambe le mani si copriva il basso ventre.
“Si può sapere che diavolo ti passa per la testa?” sbraitai.
Mi osservò come un cucciolo ferito, completamente sconvolto dalla mia reazione “tu… non era quello che volevi?”.
Spalancai gli occhi in preda ad una rabbia che montava in me di secondo in secondo “per chi cazzo mi hai presa?” esclamai senza preoccuparmi di censurare il mio vocabolario “come fai anche solo a pensare che uno scherzo del genere fosse quello che volevo? Mi terrorizzi spegnendo la luce e bloccandomi come il peggiore dei depravati. Se non fossi riuscita a sferrarti un calcio nelle palle, che avresti fatto, Riku?”.
La sua espressione confusa vagava dal mio viso alle sue mani. Non c’era alcuna traccia della sua solita spavalderia “Io… tu” iniziò a balbettare “vieni sempre a cercarmi anche quando faccio lo stronzo… sorridi, mi abbracci anche…”.
“E questa dovrebbe essere una giustificazione?” sbottai. “Non so che razza di persone tu abbia frequentato fin ora e, francamente, nemmeno mi interessa. Ma non pensare, neanche per un secondo, che io sia un altro dei tuoi passatempi”.
Gli voltai le spalle aprendo la porta e dirigendomi in fretta verso l’uscita.
La sua mano mi bloccò il braccio, impedendomi di proseguire. La sua stretta era decisamente meno salda rispetto all’episodio precedente “Jun… aspetta”.
Osservai quella mano come se mi stesse scottando prima di spostare lo sguardo sul suo viso “lasciami andare, Riku, non lo ripeterò un’altra volta” esclamai con voce ferma che non ammetteva repliche.
Rispose con uno sguardo strano, un condensato di dolore misto a delusione. Emise un profondo respiro prima di mollare la presa.
Senza aggiungere altro, corsi via da lui.
Il cuore batteva talmente forte da farmi male il petto. Avevo bisogno di rassettare le idee, di calmarmi e capire cosa fosse realmente successo. A passo svelto svoltai l’angolo cercando di trovare un luogo, lontano da occhi indiscreti, dove potermi ristabilizzare.
Ma, caso volle, che mi ritrovai a sbattere contro il petto di Eichi che giungeva dalla direzione opposta rispetto alla mia.
“Scusami tanto” esclamai visibilmente imbarazzata allontanandomi da lui.
Mi sorrise cordialmente come faceva sempre “nessun problema, Jun. Stai bene? Mi sembri parecchio sconvolta”.
Cercai di mantenere un minimo di contegno, aggiustandomi gli occhiali storti sul naso “tutto bene, ero solo sovrappensiero”.
Mi osservò per alcuni istanti quasi volesse accertarsi che non stessi mentendo. Sperai con tutto il cuore che la smettesse con le domande. Ma alla fine, chiese esattamente l’ultima cosa che avrei voluto chiedesse “hai visto Riku per caso? Lo sto cercando dappertutto”.
Mi augurai che il calore che sentivo propagarsi nelle mie guance rimanesse ben nascosto sotto al fondotinta. Scossi la testa, fingendo disinvoltura “no, mi spiace”.
Sfoderò un altro dei suoi strani sorrisi “chissà dove si sarà cacciato quello scansafatiche… va bene Jun, ti lascio andare. Ci vediamo dopo”.
“A dopo, Twice… cioè Eichi” arrossii senza ritegno. Che figura di merda!
L’uomo scoppiò a ridere, palesemente divertito “puoi chiamarmi Twice: quel soprannome mi piace da impazzire!”.
Risposi con l’ennesima risatina imbarazzata prima di allontanarmi da quel posto infernale il più velocemente possibile.
Per mia fortuna, riuscii a raggiungere il bagno femminile senza imbattermi in altri indesiderati incontri. Chiusi a chiave la serratura, prima di sedermi sopra la tavolozza abbassata iniziando a respirare a fatica.
Le immagini di qualche attimo prima passavano davanti ai miei occhi come la pellicola di un film scadente e più tentavo di dar loro un senso, più mi sembrava diventassero confusionarie.
“Esattamente quello che vuoi anche tu…” quelle parole martellavano nei miei timpani come il peggiore dei tormentoni estivi.
E se gli avessi dato troppa corda? Pensai, e se, senza rendermene conto l’avessi incoraggiato con i miei gesti a credere che potesse permettersi questo?
Mille dubbi iniziarono ad attanagliarmi la mente, mentre un familiare e fastidioso senso di colpa si insinuò dentro di me.
“Devi stare attenta Jun, i tossicodipendenti sono manipolatori per definizione” le parole di Chiyo bussarono alle porte dei miei ricordi provocandomi un tonfo al centro del petto “faranno di tutto per ottenere ciò che desiderano, indipendentemente da cosa esso sia”.
Dovevo stare più attenta, non potevo più permettermi di lasciarmi coinvolgere così tanto. Ero stata ottenebrata dal fascino del proibito e non me ne ero nemmeno resa conto.
Non si gioca con il fuoco, specie se di quel tipo.
Da qui in poi, semplice e formale rapporto di circostanza, né più né meno. Avrei proseguito il mio tirocinio normalmente limitandomi a un accenno di saluto, se richiesto, e ad osservare. E, soprattutto, mi sarei tenuta lontana da Dabi il più possibile.
Quando il mio respiro si convinse a calmarsi, mi alzai, indugiando per alcuni secondi sulla mia immagine allo specchio. Con le mani cercai di domare i miei capelli spettinati e aggiustai alla meno peggio la matita nera leggermente sbavata. Emisi un profondo respiro di incoraggiamento personale e, pronta ad affrontare quella forzata maratona pomeridiana, uscii dal bagno.
Trasalii nel ritrovarmi davanti Chiyo che mi osservava con espressione incuriosita “oh eccoti Jun! Dov’eri finita?”.
Ma oggi si sono tutti messi d’accordo per provocarmi un infarto?!, pensai.
“In bagno” risposi con una risatina idiota indicando la porta.
“Mancavi da parecchio e mi sono preoccupata. Hai trovato la scatola delle decorazioni?”.
Oh, cazzo! L’avevo completamente dimenticato.
“Ehm... no” mentii spudoratamente “quella stanza è un vero disastro” mi grattai la testa, visibilmente imbarazzata.
La mia tutor mi osservò con quei suoi occhietti in grado di scrutarti fin dentro le ossa. Distolsi lo sguardo, attirata da un poster totalmente inutile affisso alla parete “sei sicura di stare bene, Jun? Sembri un po’ strana”.
Per un istante mi balenò l’idea di parlarle di quello che era successo, ma scacciai quel pensiero come la più fastidiosa delle zanzare. Con grandi probabilità, se avessi raccontato tutto, lo avrebbero sbattuto fuori dalla comunità senza pensarci due volte. E per quanto in quel momento fossi arrabbiata con lui, non avrei mai fatto un gesto del genere. Riku aveva bisogno di quel percorso, non solo per disintossicarsi, ma anche e soprattutto per capire come si sta realmente al mondo.
Per cui, sperando con tutta me stessa che mi credesse, mi limitai a rispondere “sto bene, solo un leggero mal di testa”.
Passarono pochi, interminabili secondi di silenzio, prima che finalmente Chiyo si decidesse a dire “ti lamenti spesso di avere mal di testa, Jun. Forse dovresti fare un controllino alla vista”.
Annuii, sollevata. Per stavolta, l’avevo scampata.
“Coraggio, andiamo: stanno cominciando!”.
Sfoderai il miglior sorriso che riuscissi a riprodurre in quel momento, scrollandomi di dosso una valanga di pensieri negativi che continuavano a depositarsi nelle mie tempie.
Mio Dio, pensai, che dannata voglia di una canna!
Touya’s POV
Mollai un calcio alla prima scatola che mi si presentò a tiro facendone disperdere l’intero contenuto. Una miriade di stoviglie si riversarono per il pavimento provocando un fracasso infernale. Avevo una voglia esplosiva di distruggere tutto, di far saltare in aria ogni cosa, me compreso.
Come se non bastasse, attirato da quel tonfo, Twice fece la sua comparsa sull’uscio della porta. Mi affrettai ad allontanare le mani da sopra i miei testicoli ancora doloranti.
“Ehi amico, tutto ok?” mi chiese con un’insolita espressione preoccupata.
“Benissimo” risposi seccamente.
“Che stai combinando qui dentro?”.
“Non combino proprio niente” sbraitai “sto cercando di mettere ordine in questo casino”.
“Ti serve una mano?”.
“Non mi serve niente!” urlai “voglio solo essere lasciato in pace!”.
Mi osservò per alcuni istanti con uno sguardo serio che raramente gli avevo visto in volto. “Come vuoi tu, Riku” si limitò a dire alla fine “a volte sai essere davvero un maledettissimo stronzo” e si allontanò lasciandomi da solo in mezzo a quel totale delirio.
Mi lasciai cadere sopra a quello sgangherato divano da cui si alzò una nuvola di polvere. Mi afferrai il volto tra le mani provando a dare un senso a quanto fosse successo.
Che cazzo avevo combinato?
Mi sentivo un idiota, un emerito totale coglione.
Il dolore che provavo in mezzo alle gambe era nulla in confronto alla vergogna che mi attanagliava le viscere. Il rifiuto di Jun, le sue parole pronunciate con quel totale disprezzo, mi avevano colpito in pieno petto con una forza che faticavo a incassare.
Nessuna prima di allora mi aveva rifiutato. Anzi, generalmente era l’esatto opposto. Ero abituato ad ottenere tutto, indipendentemente da cosa fosse. Dopo la mia presunta morte, dopo essermi lasciato alle spalle la mia famiglia, era esattamente questo ciò che mi ero prefissato: mai più privazioni.
In un modo o nell’altro, riuscivo comunque ad avere ciò che volevo. Dove non arrivavano i soldi, riuscivano le minacce; dove non bastavano le minacce, c’era il fuoco.
Con le ragazze, poi, le cose erano decisamente più facili. A volte, era talmente semplice che mi bastava sforzarmi di sorridere, sussurrare la parola giusta al momento giusto e il gioco era fatto… fino a quel momento.
“Se non fossi riuscita a sferrarti un calcio nelle palle, che cosa avresti fatto, Riku?”. Già Touya, che cosa avresti fatto?
Quella stronza non aveva fatto altro che tormentarmi nelle notti precedenti. I miei sogni diventavano via via più nitidi mentre il suo calore si mescolava al mio mozzandomi il respiro. Continuavo a svegliarmi sudato, con il fiato corto e i boxer fottutamente scomodi.
Era diventata un fottuto chiodo fisso.
L’odore della sua pelle mi mandava letteralmente fuori di testa, ancor di più della vista del suo sguardo da bambina incastonato alla perfezione nelle sue curve di donna.
Vederla lì, da sola in quella stanza, mi aveva fatto perdere completamente la ragione. L’idea di poterla toccare, baciare, sentire il suo corpo contro al mio erano le uniche cose a cui riuscissi a pensare.
Come avevo potuto essere così stupido? In quale dannato universo, reale o immaginario che fosse, una come lei avrebbe potuto concedersi a me? In quale mondo una ragazza colta, intelligente e sveglia come lei si sarebbe lasciata toccare da un rifiuto come me?
In quell’istante, un pensiero doloroso giunse a farmi visita alle porte della percezione.
Era un ricordo antico, risalente a molti anni prima di allora. Mia madre terrorizzata, bloccata contro lo stipite della porta incapace di reagire al marito che le imponeva di svolgere i suoi doveri di donna e moglie.
Trattenni a stento un conato di vomito che dallo stomaco risalì fino alla gola. Mio Dio, è questo che sto diventando? Mi sto trasformando in quel bastardo?!
Non aveva senso, in alcun modo avrei potuto somigliare a lui. Non potevo sopportarlo, non questo…
Forse, in fondo, era anche meglio così: spaventarla l’avrebbe allontanata da me il più possibile e, piano piano, anche la mia lucidità ne avrebbe tratto beneficio.
Dopo quel siparietto idiota Jun non mi avrebbe più rivolto la parola: non ci sarebbero più stati sorrisi, né battute, né abbracci… e io me la sarei definitivamente tolta dalla testa.
Per il giorno successivo, mi era stato finalmente accordato il permesso d’uscita: dopo la tintura dei capelli, avrei rimediato una bella scopata dicendo definitivamente addio a quell’assillante pensiero.
Sì, il piano era decisamente perfetto. Potevo ottenere tutto ciò che desideravo: che senso aveva bloccarsi con l’unica persona che non avrei potuto avere? Era da idioti e io di certo non ero un deficiente, no?
Non so per quale strana ragione, abbassando lo sguardo, mi ritrovai con i pugni serrati lievemente illuminati di blu.
Lentamente e senza distogliere lo sguardo, aprii le mani, provando a mantenere la concentrazione. Con leggero stupore, osservai piccole fiammelle roteare attorno ai miei palmi prima di dissolversi nell’atmosfera.
Chiusi gli occhi, cercando di incanalare tutta l’energia sulla punta degli indici. Una gocciolina di sudore mi attraversò la fronte quando il fuoco iniziò a scorrere nelle vene. I miei muscoli si contrassero al passaggio delle fiamme, intorpiditi da un calore via via più aggressivo.
Ignora il dolore, Touya, puoi essere più forte di così.
Provai a concentrarmi sul mio respiro, su quegli stupidi esercizi di rilassamento che continuavano a propinarci. Poi, li riaprii.
Ed eccole finalmente, due minuscole fiammelle blu che torreggiavano sulla punta delle dita. Tremavano appena danzando sulle note di una melodia silenziosa che conoscevano soltanto loro.
“Rieccovi, vecchie mie” dissi con un sospiro poco prima di estinguerle.
“Sono bellissime” la voce di Twice giunse da oltre la porta facendomi trasalire.
“Cazzo” imprecai “sei sempre fottutamente silenzioso”. Mi grattai la testa spostando qualche ciuffo ribelle dietro l’orecchio “senti… mi dispiace, per prima intendo”.
“Conosco i tuoi sbalzi d’umore, amico” mi rispose scrollando le spalle “a volte, mi domando se tu non abbia qualche tratto bipolare”.
“Si beh… è una giornata di merda” risposi sospirando.
“Non ti ripeterò più che con me puoi parlare” mi disse con un leggero sorriso “anche perché poi mi mandi al diavolo e io mi offendo… sai che sono un tipo sensibile” pronunciò quelle ultime parole con una spiccata nota teatrale “per cui ho deciso che da oggi in poi ti costringerò direttamente”.
Quella sua espressione da finta isterica mi fece scappare una risata “ah sì?”.
“Ooh sì!” enfatizzò quelle due sillabe con gesti istrionici “ma per il momento, dovremo aspettare: ci aspettano per cominciare”.
Sbuffai sonoramente “devo proprio? Non ho alcuna voglia di vedere gente oggi”.
“E dove sarebbe la novità?” mi perculò Twice “coraggio, muovi il culo Riku: se ti becchi una nota disciplinare e non ti fanno uscire nemmeno domani, poi spetta a me sopportare i tuoi piagnistei”.
Di controvoglia, mi alzai, seguendo il mio compagno oltre la porta lungo i viali di quel dannato posto.
Per l’occasione, la piazzetta interna era stata decorata con festoni e palloncini. Cristo, ma dove sono finito?
Gli utenti e le loro famiglie avevano già preso posto sulle sedie posizionate per l’occasione attorno ad un piccolo palchetto improvvisato.
Tra la folla, intravidi Jun, in disparte, poggiata ad un muretto intenta a rollare una sigaretta. La portò alle labbra e per un solo, minuscolo istante, il suo sguardo incontrò il mio. Ma, dopo nemmeno un secondo, si affrettò a girare la testa dall’altra parte.
Ignorai il fastidio che si propagò al centro del mio petto misto al calore che riprendeva ad espandersi nelle mie mani.
“Benvenuti a tutti” la voce di Kimura si propagava nello spiazzale aiutata da un microfono. Iniziò uno dei suoi soliti discorsi sul valore del percorso, dell’amicizia e di altre cazzate simili.
“Ma non spetta a me parlare. Oggi è il vostro giorno, il giorno dei compagni che ce l’hanno fatta, che passo passo e con molta fatica, hanno ripreso in mano la loro vita. La loro testimonianza è il segno tangibile di come la convinzione, unita a relazioni salde e protettive, possano fare la differenza. Perciò, è con immenso piacere che lascio la parola a voi”.
Sorridendo, Kimura passò il microfono a un uomo che salì sul palco con evidente controvoglia. Il suo viso incredibilmente pallido risaltava a contrasto con gli abiti scuri che indossava. Sebbene mi trovassi parecchio distante rispetto al palco, riuscivo a scorgere chiaramente due evidentissime e marcate occhiaie.
Prese un respiro, probabilmente per autoconvincersi a parlare, prima di dire “mi chiamo Shota Aizawa e sono pulito da dieci anni”.
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