8. Heart-shaped box
Touya’s POV
Mi svegliai di soprassalto con il cuore in gola. L’incubo incredibilmente vivido in cui mi ero ritrovato protagonista mi ridestò alle prime luci dell’alba. Avevo i capelli completamente bagnati dal sudore e il mio respiro non voleva saperne di placarsi. Il sole iniziava a comparire annoiato dietro alle tende e una luce leggera delineava appena i contorni della stanza. La mia bocca era completamente secca, come se avessi corso un’intera maratona in pieno deserto.
Con il battito cardiaco che lentamente ritornava alla normalità, mi voltai verso il mio comodino alla ricerca della bottiglietta d’acqua che ricordavo di aver lasciato lì la sera prima. In quel momento, mi accorsi che Twice non era nel suo letto. Pensai che si fosse svegliato presto o che magari fosse andato a fare pipì.
Bevvi un profondo sorso d’acqua beandomi di quella sensazione di freschezza.
Fu allora che sentii la porta della mia camera aprirsi. Era decisamente troppo presto per la sveglia, per cui non poteva essere un educatore pronto a rimproverarmi per il ritardo. Immaginai semplicemente si trattasse del mio compagno di stanza, ma ben presto mi resi conto che non poteva di certo essere lui. Twice era alto e robusto, a differenza della sagoma che mi si presentava davanti in quel momento.
Nella penombra, riconobbi i contorni di un corpo piccolo e snello che si muoveva con totale disinvoltura, completamente a proprio agio. La figura avanzava con passi leggeri verso di me, la sottana che svolazzava attorno alle sue curve morbide.
Il mio battito cardiaco riprese nuovamente vigore, mentre i miei occhi non riuscivano a staccarsi da quella strana danza che mi ipnotizzava di secondo in secondo. Avrei voluto urlare chi cazzo sei? che diavolo ci fai in camera mia?!, ma dalla mia bocca non uscì alcun suono.
La figura continuò ad avvicinarsi al mio letto, sembrava quasi fluttuasse. Il mio corpo era come bloccato, l’acqua bevuta qualche istante prima aveva perso del tutto la propria efficacia.
Quando si sedette con eleganza sul letto, sentii il materasso abbassarsi appena sotto al suo peso. Fui investito da un profumo di pesca, di bucato appena lavato… il mio cuore accelerò un altro po’ quando mi resi conto di chi fosse.
I suoi lunghi capelli le ricadevano morbidi sopra il seno e la sua camicia da notte si poggiava audacemente sui contorni del suo corpo lasciandomi immaginare tutto.
“Jun” fu l’unica cosa che riuscii a dire.
Nonostante la poca luce, fui in grado di distinguere nettamente il suo sorriso.
Si avvicinò appena, prima di iniziare ad accarezzarmi lentamente il braccio sinistro. La sua pelle era gelata e quel contatto mi provocò un brivido che dalla spina dorsale giunse dritto al sistema nervoso, bruciando in un colpo solo un’intera famiglia di neuroni.
“Non riesci a dormire?” sussurrò lei con la sua voce di miele “hai avuto un incubo?”. La sua mano si spostò fra i miei capelli che allontanò dalla fronte con gesti delicati.
“Jun, che… che ci fai qui?” chiesi con un filo di voce, la salivazione ridotta completamente a zero.
“Ha importanza?” ribatté lei cambiando posizione. Si inginocchiò sul materasso, distante appena un soffio dal mio corpo, continuando ad accarezzarmi i capelli. Nello sporgersi, il mio braccio sfiorò uno dei suoi seni coperti soltanto da quel sottilissimo strato di tessuto. In quel preciso istante, tutto il mio sangue si concentrò nella parte bassa del mio essere. Il mio respiro divenne più pesante.
Senza rendermene conto, poggiai la mia mano sul suo collo, accarezzando la pelle fresca che dal mento conduceva provocante alle sue spalle seminude. Dio, era così fottutamente morbida…
“Passeresti dei guai” sussurrai, appigliandomi a quell’ultimo frammento di razionalità che mi rimaneva “se ti trovassero qui”.
Jun sorrise nuovamente prima di avvicinarsi al mio orecchio, corteggiandolo con un soffio “e dove starebbe tutto il divertimento sennò?”.
Non fui più in grado di trattenermi. Affondai le mie mani sui suoi fianchi formosi traendola a me, bisognoso di sentire quel corpo profumato a contatto con il mio. Lei si lasciò guidare prima di tuffare le dita tra i miei capelli annullando la distanza tra le nostre bocche. La sua lingua fu un’esplosione alla ciliegia che mi inebriò come la più buona tra tutte le droghe. Le morsi le labbra bisognoso di sentire di più, di provare più sapore. Il suo gemito di approvazione non ebbe altro effetto se non quello di farmi diventare ancora più duro. Ormai tutta la circolazione sanguigna era concentrata in mezzo alle mie gambe. Jun mi strinse tra le sue cosce, iniziando a strusciarsi lentamente contro i miei boxer.
Con il respiro mozzato e il cuore che sembrava volesse esplodere, strinsi quella sua carne morbida tra le mie mani avvertendo indistintamente la temperatura del mio corpo surriscaldarsi.
Altri gemiti di piacere giunsero dalla sua bocca quando la sollevai di peso sdraiandomi sopra di lei. Mi avventai sul suo collo mordendolo senza preoccuparmi di essere delicato. Leccai la sua pelle come un disperato, avido di quel sapore che mi sballava sempre di più.
“Dabi…” gemette lei, dimenandosi appena sotto il mio peso.
Quel soprannome pronunciato con quella voce sfatta in quel momento mi sembrò la parola più porca del mondo.
“Adesso ti faccio urlare, dottoressina” ringhiai prima di abbassare lentamente la mia testa in mezzo alle sue gambe senza staccare gli occhi dai suoi.
“Chi è che fai urlare tu?” mi chiese lei con tono incredibilmente divertito. Improvvisamente la sua voce era diventata parecchio strana: era insolitamente grave, decisamente… maschile??...
“Jun?” chiesi perplesso, senza capire.
“Ahahhaahah, ti piacerebbe” la risata sguaiata di Twice mi fece svegliare di soprassalto, ritrovandomi la sua brutta faccia a pochi centimetri dalla mia.
“Ehi ma che cazzo fai?!” sbraitai allontanandolo bruscamente da me, ancora confuso dalle immagini di poco prima.
“Ti dimenavi come un pazzo, amico” rispose lui continuando a ridere “sembravi un cavallo imbizzarrito”.
Strizzai gli occhi abituandomi alla luce del mattino che inondava la stanza. Cercai di stiracchiarmi un po’ per uscire dal torpore, quando una fitta in mezzo alle gambe mi costrinse a guardare in basso. Una prominente erezione faceva capolino dai boxer. Con le guance infuocate, spostai velocemente il lenzuolo sulle mie gambe sperando in cuor mio che Twice non si fosse accorto di niente.
Quell’idiota continuava a ridere come un deficiente. “Se non la smetti, ti prendo a pugni” urlai.
“Scusami, Riku” disse asciugandosi una lacrima “è che sei troppo divertente. Che stavi sognando, si può sapere?”.
“Non sono cazzi tuoi” sbottai, imprecando tra i denti.
“Ahà, figurati” ribatté lui dirigendosi verso il bagno. Prima di chiudersi la porta alle spalle, fece capolino sull’uscio con quel suo ghigno da sberle “comunque chiederò alla direzione dei tappi per le orecchie: i tuoi gemiti non mi fanno dormire!”.
Sentii la rabbia montare dentro di me in maniera incontenibile. Mi alzai di scatto dal letto fulminandolo con lo sguardo. Twice sparì dietro la porta chiudendo a chiave la serratura, senza darmi il tempo di raggiungerlo e strozzarlo. Si mise a canticchiare un motivetto allegro ignorando totalmente le mie urla di minaccia.
“Tanto prima o poi dovrai uscire da lì dentro, brutto stronzo!” urlai tirando un pugno contro la porta.
“Ehi Jun, don’t make it bad” giunse dall’altra parte, in risposta.
“Si si, davvero molto divertente, Twice”.
Giuro che uno di questi giorni lo strangolo, pensai.
Quella mattina fu un completo disastro. Mai turno in cucina mi sembrò più lungo ed estenuante. Twice continuava a rivolgermi battutine degne di un bambino troppo cresciuto mettendo a dura prova la mia pazienza, già di base decisamente troppo carente.
Quel coglione canticchiava e se la rideva, beandosi del fatto che non mi sarei azzardato a colpirlo, temendo di beccarmi l’ennesimo richiamo.
Ad un tratto lo vidi bloccarsi, la cipolla in una mano e il coltello nell’altra. Alzò la testa annusando l’aria. “Senti anche tu questo odore?” chiese con sguardo interrogativo.
Lo imitai, cercando di cogliere qualche aroma insolito. Non cogliendo nulla di strano, ribattei “quale odore?”.
“Sì, lo sento indistintamente” disse lui, continuando ad annusare qualcosa di imprecisato e chiudendo gli occhi “è odore di cotta prepotente!”.
Era decisamente troppo. Con gli occhi fuori dalle orbite, mi scagliai contro di lui urlando “adesso ti ammazzo, Twice!”.
Il mio compagno, continuando a ridere, si parò gli occhi con le braccia, attendendo di incassare il colpo. Per sua fortuna, proprio in quel momento, uno degli educatori entrò in cucina.
“Che cazzo succede qui dentro?” chiese con espressione idiota osservando quella scena patetica.
Mi staccai di colpo dal deficiente, abbassando lo sguardo.
“Niente, si scherzava un po’” disse subito Twice con disinvoltura “è tutto ok”.
L’operatore osservò entrambi per qualche istante tentando di accertarsi se realmente la situazione fosse sotto controllo “Riku?”.
Mi limitai ad alzare le spalle “è come dice lui, si stava solo scherzando”.
“Bene” disse alla fine “qualcuno di voi due deve scendere nella cella frigorifera a recuperare alcuni ingredienti. Chi si offre volontario?”.
“Vado io” risposi senza pensarci troppo: era la mia occasione per stare lontano da quel multiplo idiota almeno per qualche minuto.
“Perfetto. Questa è la lista di quello che devi prendere. Se ti serve una mano, mi trovi in ufficio”.
Quando entrai nella cella, mi beai del freddo, ma soprattutto del silenzio. Per me quella temperatura era il paradiso, rispetto al calore corporeo con cui giornalmente ero costretto a convivere. Mi sedetti per terra, accanto ad alcune casse imballate, sospirando. Osservai il vapore uscire dalla mia bocca e creare delle strane figure attorno alla mia testa.
Mio Dio, un altro secondo accanto a Twice e avrei perso la ragione!
Le immagini oniriche di quella mattina iniziarono a ripresentarsi inopportune nella mia mente, regalandomi strane e fastidiose fitte al centro del petto. Cazzo, che diavolo mi stava succedendo?
Ero rinchiuso in quel posto da 6 mesi e non c’era stato un solo, minuscolo istante, in cui mi fosse mancato il sesso. A dire la verità, non c’era proprio nulla che mi mancava… del resto, come fa a mancare qualcosa a un cadavere ambulante?
Per la prima volta, mi ritrovai a pensare alla mia ultima esperienza sessuale. Risaliva a un anno prima, con una ragazza tossicodipendente poco più piccola di me. Non era stato nulla di sensazionale, solo un passatempo come un altro per ammazzare la noia.
E adesso, che diavolo stava succedendo? Quell’ultimo incontro con Jun, il modo in cui l’avevo afferrata provocatoriamente per i fianchi, il calore del suo abbraccio, avevano risvegliato qualcosa dentro di me, qualcosa che era rimasto sopito per molto tempo al punto da averlo dimenticato.
La desideravo. Desideravo il suo corpo morbido e profumato. Bramavo di sentirla contorcersi sotto di me, bruciavo dalla voglia di possederla in tutti i modi possibili. E più pensavo che fosse sbagliato, che lei avesse un ruolo di cura e io di paziente, più mi eccitavo come un animale.
La cella frigorifera iniziò a diventare fottutamente calda, mentre il mio corpo si imperlò di sudore. D’istinto, portai la mano sul cavallo dei miei pantaloni che continuavano a tirare in maniera fastidiosa.
Le immagini del mio sogno accompagnarono la mia mano che inesorabile attraversò il tessuto dei boxer. Se mi avessero scoperto sarebbe stato un disastro, ma in quel momento la mia ragione era andata totalmente a farsi fottere. Stavo esplodendo.
Immaginai i fianchi di Jun salire e scendere sul mio cazzo seguendo il ritmo della mia mano, la sua pelle di porcellana, il suo profumo di buono.
“Devo averla”, ringhiai tra i denti mentre il piacere si impadroniva dei miei sensi. Quella fu la prima volta che mi masturbai pensando a lei… a dire il vero, quella fu la prima volta, dopo più di un anno, in cui desiderai ardentemente qualcosa… qualcosa che non fosse una dose.
Jun’s POV
Era passata una settimana dall’ultima volta che l’avevo visto… una settimana che non riuscivo a togliermelo dalla testa.
Negli ultimi tempi, mi sentivo spesso stanca, spossata e alla fine della giornata di tirocinio, desideravo soltanto tuffarmi nel mio letto e riposare. Akinori mi rimproverava spesso di trovarmi distante. Io provavo a spiegargli che fossi semplicemente esausta, ma non sembrava mai soddisfatto di quella risposta.
Quando mi guardava, tendevo a distogliere lo sguardo, sentendomi in colpa. Le immagini di Riku mi avevano accompagnata in molte più notti di quante volessi confessare e questo pensiero non mi faceva stare affatto serena.
Nel corso di quelle giornate, il tirocinio si era svolto al centro di ascolto e in cuor mio ne fui incredibilmente sollevata. Pensai che stare per un po’ lontana dalla comunità mi avrebbe aiutata a rilassarmi, a non pensare… ma le cose non erano andate affatto così. I suoi dannati occhi di ghiaccio si divertivano a tormentarmi in dormiveglia e la sensazione delle sue mani calde sul mio corpo non voleva saperne di dissolversi.
Così, quando Chiyo quella mattina mi comunicò che eravamo state invitate alla festa di sobrietà di alcuni utenti quello stesso pomeriggio in comunità, sentii il mio cuore fare un tonfo.
“Qualcosa non va, Jun?” chiese lei con espressione preoccupata “da un po’ di giorni sei strana”.
“Nulla” sospirai abbozzando un sorriso sghembo. Da un lato avrei voluto parlare con lei, ma dall’altro non mi sembrava minimamente il caso.
Come se avesse appena letto nei miei pensieri, domandò con totale disinvoltura “non è che per caso c’entra un utente? Magari un utente con gli occhi azzurri?”.
Arrossii violentemente, il cuore che scese fino allo stomaco. Perfetto, era fatta. Addio tirocinio, addio carriera prima ancora di cominciare. “Chiyo, non è successo niente” cominciai, come se mi trovassi davanti ad un giudice pronto a condannarmi.
“Ehi Jun, tranquilla” sorrise la mia tutor “respira. Non voglio né interrogarti né accusarti in alcun modo. Vorrei solo aiutarti. Ho visto che tu e Riku passate molto tempo insieme quando andiamo in comunità e l’altro giorno ti ho vista abbracciarlo”.
“Si io, ecco…” balbettai, la faccia visibilmente paonazza.
“Re-spi-ra” scandì lei allegra “non devi giustificarti. Mi fa un immenso piacere che finalmente qualcuno di noi stia riuscendo a conquistare la sua fiducia. Però, quello che mi interessa di più al momento è sapere come stai tu”.
“Io?” ripetei come un’idiota, non capendo dove volesse andare a parare.
“Sì Jun, proprio tu. Come ti ho detto poco fa, ho notato che sei molto silenziosa ultimamente e non posso fare a meno di pensare che riguardi questo tirocinio. Hai mai sentito parlare di controtransfert, Jun?”.
Annuii iniziando lentamente a capire dove volesse andare a parare.
“Bene, allora saprai che i nostri pazienti provocano in noi alcune risposte emotive in base ai loro atteggiamenti. È molto importante, però, distinguere ciò che è relazionale da ciò che appartiene a noi. Ha senso ciò che ti dico?”.
Mi grattai la testa “non proprio” risposi imbarazzata.
“È normale, non è una cosa facile. Quello che sto cercando di dirti è che spesso i pazienti tossicodipendenti provocano in noi sentimenti di interesse, fascino, talvolta anche sessualizzati. Dobbiamo ricordare, però, che questo è il loro modo di essere, di adattarsi al mondo per ricevere ciò che vogliono, qualunque cosa sia. Per cui, senza troppi giri di parole, se ti sei ritrovata a fantasticare un po’ troppo su Riku, ricorda il tuo ruolo e il suo. Lui è un tossicodipendente e, come tale, è un seduttore. Tu sei una giovane psicologa in formazione e, come tale, sei mossa dalla voglia di prenderti cura di lui. Se dovesse capitarti di fantasticare, prova a riflettere su cosa significhi: se si tratta di una tua fantasia oppure se abbia a che fare con il controtransfert. In ogni caso, io sono qui per aiutarti a rendertene conto”.
In quel momento, mi sentii incredibilmente sollevata, come se mi fossi tolta dalla coscienza un peso enorme. Ecco che cos’era! Avevo frainteso tutto, non avevo minimamente pensato che quei pensieri fossero legati alle sue reazioni, al suo modo di essere. Mi ero concentrata soltanto sul senso di colpa credendo di essermi infatuata di un utente.
“Chiyo, non sai quanto le tue parole mi abbiano aiutata!” esclamai sorridendo di cuore.
“Te l’ho detto fin dal primo momento, ragazza: devi parlarmi delle tue emozioni e risonanze interne: è la parte più importante del tirocinio!”.
Le sorrisi annuendo, consapevole dell’importante lezione che avevo imparato.
Quel pomeriggio affrontai il viaggio in macchina con l’animo incredibilmente sollevato, senza l’oppressione che mi aveva attanagliato il petto per una settimana.
La comunità era vestita a festa quando giungemmo allo spiazzale principale. Il dottor Kimura, aggrappato ad una scala, era intento ad attaccare alcuni festoni.
Qualche utente abbelliva i cespugli con stelle filanti, altri apparecchiavano il grande tavolo posto all’esterno per l’occasione.
“Siete in anticipo” ci salutò Kimura sorridendo “stiamo ancora decorando. Volete darci una mano?”.
“Volentieri” esclamammo all’unisono io e la mia tutor.
“Benissimo! Allora Jun vai a recuperare l’altro scatolone di decorazioni che trovi nella sala della tv e Chiyo vai a dare un’occhiata in cucina per vedere se hanno bisogno di aiuto”.
“Vado subito esclamai” dirigendomi verso la stanza indicatami, accanto al grande salone dove generalmente si svolgevano i gruppi terapeutici.
Non ero mai entrata in quel locale. Le finestre erano chiuse, per cui tastai la parete accanto all’ingresso alla ricerca dell’interruttore. Riuscii a trovarlo con facilità.
Più che stanza della tv, sembrava il magazzino delle cianfrusaglie: vi era praticamente di tutto, un po’ accatastato dentro agli scatoloni un po’ sparpagliato nella stanza. Mi chinai sul primo scatolone per capire se si trattasse di quello richiestomi da Kimura.
Era pieno di padelle e roba per la cucina. Pacco sbagliato.
Con la coda dell’occhio, mi accorsi di una grossa scatola semi nascosta dietro ad un vecchio divano impolverato. La decorazione esterna mi fece immediatamente pensare alle feste. Spostai il divano quel tanto che bastava per riuscire a trascinarla e controllarne il contenuto.
In quel momento, la luce nella stanza si spense.
Alzai di scatto lo sguardo verso la porta. Vidi i contorni di una sagoma alta che se ne stava ferma sull’uscio, tra l’oscurità della sala e la luce esterna, impedendomi di riconoscerne i tratti.
“Ehi, sono qui dentro, puoi accendere la luce per favore?” chiesi con tono allegro.
Ma dall’altra parte non giunse alcuna risposta. Continuava a rimanere fermo nella stessa identica posizione.
Mi alzai indispettita dirigendomi verso l’interruttore. “Ti sembra uno scherzo divertente?” esclamai infastidita.
Solo in quel momento, l’uomo si mosse. Con un calcio chiuse la porta alle sue spalle prima di bloccarmi le braccia con le sue mani impedendomi di raggiungere l’interruttore. Era forte, molto più forte di me.
Il mio cuore accelerò mentre la paura iniziò a prendere possesso dei miei sensi.
Riempii d’aria i miei polmoni pronta per urlare con quanto fiato avessi in corpo, quando la sua voce, sussurrata ad un centimetro dal mio orecchio, mi mozzò il respiro, raggelandomi sul posto “fottutamente divertente, dottoressina”.
Dabi…
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