7. Smells like teen spirit
Touya’s POV
La cucina distava dalla sala gruppi non più di trenta metri. Li percorsi correndo afferrando con poca cura un bicchiere di plastica e una bottiglia d’acqua. Il fiatone che quella breve corsa mi provocò mi fece maledire le innumerevoli sigarette che fumavo giornalmente.
Scesi rapidamente giù per le scale quando vidi, radunata attorno a Jun una piccola folla.
Chiyo le si era seduta accanto e la aiutava a respirare. Kimura sorreggeva un bicchiere d’acqua invitandola a bere piccoli sorsi alla volta. Per il resto, tante facce confuse, preoccupate e incuriosite che assistevano a quell’insolito evento.
Pensai che non avesse più bisogno di me, che fosse in ottime mani… così, feci dietro front abbandonando bottiglia e bicchiere sulla prima panchina che mi si presentò a tiro.
Sospirai sonoramente, quasi a volermi scrollare di dosso una sensazione fottutamente spiacevole.
Conoscevo troppo bene quello sguardo: il terrore puro che attanaglia le viscere, lo smarrimento nel percepire che il corpo non risponde come vorresti… e l’angoscia, l’opprimente angoscia di morire.
La prima volta che ebbi un attacco di panico ero poco più che un bambino. Me ne stavo rannicchiato sul mio letto, sotto le coperte, mentre fuori dalla porta i suoi passi pesanti e inquietanti diventavano sempre più vicini. A quel tempo non capivo, nemmeno me ne resi conto. Ricordo che la mia stanza, il mio luogo sicuro anche in mezzo alle tenebre, perse la sua solidità, la sua morbidezza, i suoi colori. Non era più il luogo in cui potevo rifugiarmi leccandomi le ferite; la protezione era venuta meno, il mondo crollava inesorabile ed io con lui…
Accesi distrattamente l’ennesima sigaretta tentando invano di allontanare quegli spiacevoli ricordi.
Era strano pensare che una ragazza apparentemente perfetta, colta, con una brillante carriera ad attenderla, potesse soffrire di un simile disturbo.
Certo, quei dannati gruppi terapeutici possono essere incredibilmente difficili da mandare giù, ma la sua reazione in qualche modo mi colpì. Davvero le importava così tanto che dei rifiuti come noi possano essere trattati male? L’empatia sa essere davvero una palla al piede, pensai.
Che poi, alla fine della festa, che diavolo ci guadagni nel sentire sulla tua pelle la sofferenza altrui, escludendo una mera soddisfazione masochistica?!
Il dolore ti appartiene, è tuo soltanto e pensare a chi sta peggio non ti fa stare meglio, nemmeno per un istante.
No, quello che avevamo, quello che eravamo, era una nostra scelta. Avevamo scelto noi di diventare le ombre di noi stessi, di nasconderci dietro ad una maschera che per un po’ era anche stata divertente da indossare, ma adesso? Dove finiva la persona e iniziava il tossico? Dove finiva Eichi e iniziava Jin?
Adesso, dove finiva Touya e iniziava Riku?
Avevo cambiato un’infinità di nomi nei precedenti cinque anni della mia esistenza, vestendo i panni di personaggi diversi come un attore sulla scena. Eppure, ora non sapevo più chi fossi veramente.
Avevo tentato di seppellire sotto strati di merda tutto ciò che potesse anche solo ricordarmi la mia vecchia vita. Touya era morto, questa era l’unica certezza assoluta.
Eppure, a volte, senza nemmeno rendermene conto, ecco che quel ragazzino fragile decideva di ritornare sotto le luci della ribalta con la sua sensibilità, la sua gentilezza…
Riku non avrebbe mai aiutato una ragazza a respirare in preda a un attacco di panico: avrebbe girato i tacchi, annoiato, e avrebbe continuato a farsi i cazzi suoi. Touya no. Touya le sarebbe rimasto accanto, l’avrebbe accarezzata per tranquillizzarla e si sarebbe offerto di prenderle dell’acqua.
Questa consapevolezza mi fece torcere le viscere.
Dopo tutto quel tempo, dopo tutte le sostanze che avevo assunto, dopo anni e anni passati a costruire una corazza di meccanismi di difesa, era bastato questo: di fronte alla sofferenza di due occhi lucidi, qualsiasi armatura crolla.
Cercavo disperatamente di trasformare la mia sensibilità in menefreghismo, pigrizia, odio, eppure non bastava mai.
Per un attimo, l’espressione di Jun mi aveva ricordato la mia: il viso di un bambino terrorizzato che vuole soltanto essere preso per mano e confortato sul fatto che il mondo non stia finendo.
No, era stata proprio la mia sensibilità a condurmi alla rovina. Giungere alla conclusione che fingermi morto potesse essere la migliore scelta possibile fu la grande svolta della mia vita. “Starebbero meglio senza di me” mi ripetevo ogni notte in preda ad un pianto sommesso che non voleva sentire ragione di smettere. Non ero chi mio padre voleva che fossi, non ero un bravo fratello… non ero niente.
Touya sarebbe sparito senza fare rumore, senza lasciare lettere, senza dire una parola e sarebbe stato meglio per tutti. Del resto, dopo la mia presunta morte, nulla cambiò. Il mondo continua anche senza di te…
Mio Dio, avevo voglia di bere! Avrei bevuto pure l’olio del motore se fosse stato commestibile. Possibilmente, pure se lo facessi, non ti succederebbe nulla, pensai. E in effetti, il fatto che fossi ancora vivo dimostrava fin troppo bene che il destino avesse un ottimo senso dell’umorismo.
A qualche metro di distanza, sentii un brusio di voci farsi sempre più vicine. Gettai il mozzicone di sigaretta dirigendomi ad ampie falcate nella mia stanza. Non avevo voglia di parlare o di vedere gente, ancora meno del solito.
Quando l’educatore venne a cercarmi bussando alla mia porta, dissi che mi sentivo poco bene e che avevo bisogno di dormire. Gli fui grato per il fatto che mi lasciò in pace senza indagare oltre. Per quella sera, sulle mie interazioni umane poteva calare il sipario.
La mattina seguente, dopo aver fatto colazione e aver assunto quell’orribile dolciastro metadone, mi diressi in cucina per il turno del lavoro. Per quella settimana, Twice avrebbe fatto coppia con me nei turni lavorativi e non potevo esserne più contento. Quel giorno, sembrava incredibilmente di buonumore pelando patate come se si trattasse dell’attività più divertente della vita.
Ogni tanto, mi gettava un’occhiatina divertita canticchiando una melodia fastidiosa. Tentai di ignorarlo, concentrandomi sulla preparazione del soffritto per lo stufato, finché non ne potei più “si può sapere che diamine hai?” sbottai.
Il suo sorrisino si ampliò ancor di più “io niente, e tu invece?”.
Sbuffai alzando gli occhi al cielo “coraggio Twice, sputa quel dannato rospo! Ce l’hai dipinto in faccia che non vedi l’ora di dire qualcosa”.
Si appoggiò con le braccia al tavolo della cucina posando i suoi occhietti su di me “e così, il nostro Riku dal cuore di ghiaccio soccorre le dottoressine in preda all’ansia, eh?”.
Imprecai a denti stretti. Cazzo, dovevo immaginarmelo “sei un coglione” esclamai, riprendendo ciò che stavo facendo. Un fastidioso calore si impossessò delle mie guance.
“Andiamo, amico, sei stato molto galante” continuò con quella vocina allegra. Osservai con insistenza la padella pensando di tirargliela in testa.
“Ero uscito a fumare una sigaretta” risposi seccamente, mentendo spudoratamente “tutti quei discorsi mi stavano dando sui nervi”.
“Ahà, come no” mi canzonò lui “le sei letteralmente corso dietro. E poi che è successo? L’hai accarezzata dolcemente per farla tranquillizzare...”.
“Chiudi quella fogna Twice o giuro che te la chiudo io!” sbottai.
Scoppiò a ridere più sguaiatamente “pessima scelta di parole, amico. Conservale per Jun” e mi fece l’occhiolino.
Arrossii senza ritegno rendendomi conto troppo tardi del doppio senso che gli avevo servito su un piatto d’argento “sei un deficiente”.
Continuando a ridere, riprese a tagliare le patate. “Dai, scherzi a parte, hai fatto davvero una bella cosa Riku. Te ne sei accorto prima ancora dei dottori”.
“Lo sa qualcun altro?” chiesi lanciandogli uno sguardo truce.
Twice scosse la testa “me ne sono accorto solo io perché ti ero seduto accanto. Immagino che Jun l’abbia detto ai dottori… ti terrorizza così tanto che qualcuno possa vederti come una persona per bene, Riku?”.
Non gli risposi, riversando la mia frustrazione sulle povere verdure. Fantastico, pensai, quasi quasi era meglio quando aveva paura di me…
Dopo pranzo, avevo un’ora abbondante di riposo prima del turno pomeridiano. La giornata era abbastanza soleggiata e il venticello piacevole. Mi sdraiai sotto al mio albero preferito iniziando a sonnecchiare.
“Ciao”, la voce esitante di Jun mi fece quasi trasalire. Strabuzzai gli occhi mentre la sua sagoma appariva con maggiore nitidezza.
“E tu che cazzo ci fai qui?” sbottai.
La vidi arrossire pesantemente distogliendo lo sguardo e giocando con una ciocca di capelli “Chiyo aveva una riunione con Kimura e così ho pensato di venire anch’io, così recupero un po’ di ore per il tirocinio”.
La osservai per qualche secondo, l’imbarazzo che trapelava da ogni poro. “Bene” risposi annoiato tornando a coprirmi gli occhi con il braccio destro “buon pomeriggio”.
Nessun rumore di passi che si allontanavano giunse alle mie orecchie, nessuna parola di congedo. Sentivo la sua fastidiosa presenza ancora ferma a pochi passi da me.
Sbuffai aprendo l’occhio destro senza spostare il mio braccio da quella comoda posizione “che vuoi ancora?”.
Iniziò a torturarsi le dita come faceva ogni volta che era nervosa “io ehm… ecco… volevo… sì, insomma, volevo ringraziarti per ieri”.
Mi tirai su reggendomi per i gomiti, stiracchiandomi appena “non ho fatto assolutamente nulla” risposi con un’alzata di spalle.
“Questo non è vero” esclamò lei “mi hai fatta calmare, mi hai fatto passare l’attacco…”.
“Non ho fatto niente” la interruppi “Chiyo e Kimura ti hanno fatto passare l’attacco di panico. Io ero solo uscito a fumare una sigaretta. Ti ho sentita piagnucolare e non potevo di certo ignorarti, non del tutto almeno”.
Le sue guance divennero ancora più rosse prima di illuminarsi con uno dei suoi strani sorrisi “ti è davvero così difficile accettare di non essere stronzo, Riku?”.
Aprii bocca per tentare di ribattere qualcosa, ma non mi venne in mente nulla da dire. Abbassai la testa, grattandomi la nuca, sgradevolmente imbarazzato.
“Vabbè, fai un po’ quello che vuoi” sbuffai alla fine.
“Posso sedermi vicino a te?” mi chiese allegra.
“Posso dire di no?” sbottai, ma chiaramente fu inutile.
Jun si accomodò sotto l’albero di mele sistemando la sua gonna lunga così da continuare a coprirsi interamente le gambe.
“Guarda che così ti sporchi tutti i vestiti” le dissi “il terreno è umido”.
Tastò appena il terriccio con espressione incuriosita “fa niente, peggio per me che mi ostino a non indossare una tuta per salire fin qui”.
Quella ragazza era strana. Non gliene importava nulla di imbrattarsi i vestiti di terra o delle mie parole velenose. Sembrava sempre che le cose non la scalfissero, o meglio, che le scivolassero addosso con semplicità.
“Si sta bene qui sotto” disse allegra con il viso rivolto all’insù, verso gli alberi pieni di frutti.
“Si stava bene” precisai io.
Mi guardò per un attimo prima di farmi una linguaccia e di darmi un leggero spintone sulla spalla “sempre il solito brontolone”.
“Guarda che se non la smetti ti abbrustolisco” la ammonii serio.
Jun alzò gli occhi al cielo “quanto sei ripetitivo! Brucio questo, incenerisco quest’altro… la tua è proprio una fissazione, Da-Bi” scandì quelle ultime due sillabe come se stesse parlando ad un bambino piccolo.
Le lanciai uno sguardo di fuoco “come diavolo mi hai chiamato?”.
Lei continuò a sorridere, visibilmente divertita “beh, credo che, come soprannome calzi proprio a pennello”.
“Non osare affibbiarmi soprannomi” la minacciai.
Jun scimmiottò la mia espressione contrita “beh, se Eichi è Twice, nome più che azzeccato tra l’altro, e io sono la dottoressina, non vedo perché tu non debba essere Dabi!”. Continuava a sorridere divertendosi come una matta mentre il mio desiderio di incenerirla seduta stante diventava sempre più tangibile.
“Dì un po’, dottoressa, hai per caso 5 anni?”.
“24” precisò lei “e non vedo cosa c’entri l’età con i soprannomi. E invece tu, Dabi?”.
“Falla finita” esclamai, sebbene quelle strana atmosfera fosse in qualche modo divertente.
Ridendo a crepapelle, si alzò in piedi allungando il braccio per tentare di prendere una mela.
Quella scenetta ridicola mi fece scoppiare a ridere di gusto. Si accigliò, un finto tono serio dipinto in volto “certo, molto spiritoso. Mi dai una mano o no?”.
“Oh ma non ci penso proprio” risposi continuando a ridere “è molto più spassoso assistere a questa scena da qui!”.
Jun tentò con un salto di aggrapparsi ad un ramo, ma il risultato fu quello di ritrovarsi con il culo per terra.
“Imbranata, oltre che gnoma da giardino!”.
La rabbia le si dipinse in volto, rabbia mista ad uno strano senso di sfida. Mi avvicinai appena al suo orecchio, sussurrando “che c’è dottoressina, vuoi riprovarci? Magari stavolta andrà meglio”.
“Ci puoi giurare che ci riprovo” rispose rialzandosi immediatamente. La vidi tentare altri salti goffi finché non decisi di alzarmi anch’io.
La afferrai per i fianchi ignorando i suoi “ma che diavolo fai?”, prima di sollevarla di qualche centimetro per permetterle di raccogliere il frutto.
Una volta riportata a terra, la osservai con sguardo divertito. Eravamo incredibilmente vicini in quel momento, distanti sì e no un palmo. Arrossì abbassando lo sguardo “bastava la raccogliessi tu” disse.
“E il divertimento dove starebbe?” la sfidai sussurrando quelle parole a pochi centimetri dal suo orecchio. Indietreggiò di un passo per aumentare la distanza tra i nostri corpi “sei sempre il solito” sospirò.
“Per me non ne hai raccolta una?” chiesi con un finto tono offeso.
“Puoi raccoglierle tutte solo allungando la mano” rispose con un’alzata di spalle.
Alzai appena le spalle “ripeto: dove starebbe il divertimento?”.
“Sei incorreggibile, Dabi” sorrise.
Istintivamente, sorrisi anch’io “quindi sono condannato per l’eternità a questo nomignolo idiota?”.
Annuì facendo di sì con la testa “mai nome fu più azzeccato!” esclamò.
Sbuffai, mentre da lontano la voce di Chiyo richiamava Jun non so per quale faccenda.
“Adesso devo andare” disse “grazie ancora, Dabi”.
Tentai di ribattere quando mi ritrovai le sue braccia attorno alla vita. Non ero molto abituato a ricevere abbracci, non sapevo bene come comportarmi. Se poi ad abbracciarmi era una donna, la rarità dell’evento cresceva ancor di più. Portai delicatamente le mie braccia sulle sue piccole spalle ricambiando quel gesto.
Era decisamente più piccola di me, la sua testa arrivava sì e no all’altezza del mio mento. Senza rendermene conto, abbassai appena il capo avvicinando il mio naso ai suoi capelli. Profumavano di pesca, di bucato appena lavato e di buono, proprio come i capelli dei bambini…
Il mio cuore accelerò appena al contatto inaspettato con quel corpicino caldo e profumato. Quando sciolse l’abbraccio dirigendosi correndo verso la sua tutor, una strana e insolita sensazione di freddo prese il suo posto provocandomi un brivido.
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