Cap. V Gli Amanti Parte I
Dovetti imparare a mie spese che comprare la libertà di una persona, firmando con il mio nome il suo atto d'acquisto, era un gesto che avrebbe avuto delle conseguenze poco piacevoli.
A Cartago, dove la schiavitù era così importante che persino sulla bandiera erano effigiate le catene, il mio gesto non appariva tanto eclatante. Ma i miei conoscenti mi avevano probabilmente considerata eccentrica per aver scelto come schiavo un pericoloso Alato che neanche la frusta avrebbe saputo domare.
Per gli schiavi che non si rassegnavano alla propria sorte c'erano solo la tortura e, se neanche quella fosse bastata, la morte.
Oltre che eccentrica, quindi, ero quasi certa che la gente mi ritenesse stupida per aver investito i miei soldi in un acquisto chiaramente inutile.
Dal canto mio, non avrei mai permesso che Mizrael venisse torturato, tuttavia se non fossi riuscita a renderlo in qualche modo inoffensivo, se non docile, sarei stata costretta a tenerlo segregato per il resto della sua vita. E questa era una possibilità che mi rifiutavo di accettare.
Dopo aver subito la tortura della garrota, era stato condotto nelle segrete dei sotterranei in pessime condizioni. Avevo dovuto pagare uno dei sorveglianti con quanto rimaneva dei dinari guadagnati alla Casa del Loto per costringerlo ad avvicinarsi allo schiavo e a estrargli la pallottola.
Per un po' era andato tutto bene, ma quando il ferito aveva cominciato a dimenarsi furiosamente, in un rumoroso tintinnare di catene e anelli di ferro, il sorvegliante si era tirato indietro.
– Non posso ricucirlo se continua ad agitarsi così.
Tuttavia non aveva aspettato che si quietasse, lasciandomi da sola con l'occorrente per suturare.
– Lo faccia lei, signorina – aveva suggerito, prima di defilarsi. – Non è poi così diverso dal cucire l'orlo di un abito femminile o chiudere un tacchino ripieno!
Mi era parso di cogliere un sarcasmo non troppo velato in quelle parole.
Il sorvegliante era quanto di più simile a un medico avessimo nelle terre di Edmund. Era un uomo abituato a curare gli schiavi e non doveva essere pagato per le sue prestazioni, a differenza di un dottore vero. I dinari che io avevo dovuto dargli per obbligarlo a toccare il mio schiavo, non erano comunque che una minuscola parte della parcella di un medico qualificato.
Per Mizrael avrei potuto provare a rivolgermi al dott. Stheiner: ero quasi sicura che non avrebbe preteso un centesimo. Tuttavia avevo scartato l'idea, pensando a quanto l'uomo avrebbe apprezzato il poter mettere le mani su un Alato.
Temevo la possibilità che gli infliggesse più sofferenza del necessario, solamente per testare la sua soglia del dolore.
Allora mi ero rimboccata le maniche – letteralmente – e mi ero avvicinata al ferito. Dal foro che era stato lasciato dal proiettile rimosso usciva parecchio sangue. Non bisognava essere un medico per capire che bisognava disinfettare e chiudere subito.
Ma Mizrael non sembrava essere d'accordo.
Quando avevo provato a toccarlo era scattato contro di me come un crotalo e per la prima volta mi aveva sfiorato l'idea che avrebbe preferito morire, piuttosto che perdere di nuovo la libertà.
E mi aveva preso lo sconforto. Come avrei potuto curarlo se non voleva salvarsi?
Madida di sudore nervoso, con il respiro mozzo e il cuore che mi martellava in petto, avevo maledetto il sorvegliante che se n'era andato con i miei soldi senza aiutarmi almeno a tenere fermo il ferito. Non avevo compreso se lo avesse fatto perché detestava dover avere a che fare con un azrariano, perché mal sopportava di prendere ordini dalla "sgualdrinella" del barone o per entrambe le ragioni.
Ma ero certa che mi avesse messa in difficoltà di proposito.
– Il sorvegliante temo mi odi quasi quanto odia te, lo sai? – mi era sfuggito, mentre, vincendo la paura, provavo a tamponare la ferita da arma da fuoco con una soluzione a base di creolina.
Stranamente Mizrael si era un po' placato, come se avesse prestato attenzione alle mie parole. Ero riuscita a disinfettare e poi, con ago e filo in mano, avevo fatto un respiro profondo.
– Mi permetti di curarti? – gli avevo chiesto, cercando di mostrarmi sicura e di celare il tremore delle mani.
Non avevo mai suturato una ferita, ma se poteva farlo un rozzo sorvegliante semi analfabeta non dubitavo di poterci riuscire anch'io. Per di più ero toppo abituata alle piaghe che il mio busto correttivo nascondeva per impressionarmi a causa di quelle altrui.
O perlomeno era ciò che mi ero ripetuta mentalmente per farmi coraggio.
L'Alato mi aveva permesso di stringergli con le dita i margini della ferita, tuttavia non appena avevo infilato l'ago aveva fatto un movimento così brusco da strapparmi un urlo. Si era piegato in avanti con la schiena in modo repentino afferrandomi il collo tra i denti, che avevo percepito sulla pelle appuntiti in maniera anomala.
Avevo pregato l'Unico che non li sentissi affondare mentre cercavo di rimanere immobile, con il petto che andava celermente su e giù.
– Il mercante di schiavi allora aveva ragione – avevo detto, con un filo di voce. – Voi azrariani avete ali come angeli, ma mordete come cani.
Per un lungo istante avevo sentito il respiro dello schiavo sincronizzarsi con il mio e la sua lingua quasi bruciarmi la carne, poi la stretta sul mio collo s'era allentata e l'Alato aveva staccato lentamente le labbra dalla mia pelle.
Senza più muoversi, mi aveva permesso di cucire i labbri della ferita. Cosa che, dopo essermi ripresa dallo stupore iniziale, avevo cominciato a fare con la speranza che i brividi che facevano tremare il mio corpo si placassero.
Incredula davanti al modo apparentemente semplice in cui l'Alato sembrava dominare il dolore, avevo infilato l'ago più volte, unendo i margini del foro lasciato dal proiettile. Lui fissava il movimento delle mie dita sulla sua pelle senza battere ciglio, mentre io soffocavo i conati a ogni affondo.
Una volta finito, mi ero alzata in piedi con l'abito sporco di sangue e la testa che girava ed ero andata via barcollando, temendo di vomitare davanti ai suoi occhi duri.
Non ero stata così male nemmeno quando avevo pugnalato lo sfortunato mezzadro dello ius primae noctis. In quel caso, avevo agito quasi come se qualcun altro stesse guidando la mia mano. Avevo mirato al cuore, ma una forza invisibile mi aveva spinto a ferire solo in modo lieve. In quel modo non ero riuscita a risparmiare allo sposo la fine penosa a cui poi era andato incontro.
Con Mizrael, invece, ogni azione era stata programmata. La mia mano aveva suturato con una precisione soddisfacente, malgrado i miei movimenti non proprio fluidi; tuttavia l'essermi sostituita a un medico mi aveva provocato un turbamento fisico che non avrei potuto prevedere.
Per tutta la notte non avevo fatto altro che agitarmi nel letto in preda alla nausea, schiacciandomi il guanciale sulla testa sperando che quell'ingenuo gesto mi proteggesse dagli incubi.
Segretamente ammiravo la fierezza dell'azrariano, ma più spesso fremevo di rabbia quando risalivo dai sotterranei senza aver ottenuto da lui altro che atteggiamenti carichi d'odio.
Si rifiutava di parlarmi, minacciava con lo sguardo di farmi a pezzi se solo mi fossi avvicinata e, malgrado avesse le mani legate e le ali intrappolate dalla rete metallica, a volte temevo che ci sarebbe riuscito.
I giorni e le settimane passavano e cominciavo a stancarmi di tutto il fiele che mi vomitava addosso.
– Una volta mio padre ha comprato un puledro che non voleva saperne di essere montato – mi disse Debra Waltz, mentre passeggiavamo nei giardini della tenuta di His. La fissai schermandomi gli occhi con la mano: ormai il sole della piena primavera era diventato accecante e i miei occhi faticavano a tollerarlo.
Debra quel giorno era arrivata con i suoi genitori e le sorelle vestita in modo elegante, con un abito che faceva risaltare la sua femminilità e un'acconciatura elaborata. I capelli spartiti ai due lati della testa erano intrecciati a nastri dorati e raccolti dietro, mettendo in evidenza l'ovale del viso. Non aveva più l'aria di una dodicenne ma, al contrario, pareva una giovane donna sbocciata di colpo.
– Io non ho comprato un puledro, Debra.
Lei batté le mani emettendo una specie di singhiozzo. – Ma sì, lo so, lo so! – esclamò, mentre il profumo esotico che emanava la sua pelle si mischiava a quello intenso delle siepi di rose. – A questo proposito, Leda, ti prego... Portami nei sotterranei a vedere il tuo schiavo! Sono talmente curiosa di conoscerlo!
Conoscerlo?
Mi domandai se si rendesse conto di cosa significasse vedere un uomo in catene, chiuso all'interno di una cella. Era decisamente ingenua, per essere la figlia di un mercante di schiavi.
– Se hai voglia di farti rovinare il tuo bel vestito... – replicai, assottigliando gli occhi.
Quando, una settimana dopo aver salvato l'azrariano dalla garrota, avevo saputo da uno degli uomini del barone che fino a quel momento il mio schiavo aveva sempre rifiutato il cibo, avevo deciso di scendere nei sotterranei di persona.
– Perché diavolo non sei venuto a dirmelo prima?! – avevo rimproverato aspramente l'uomo, prima di correre a verificare le condizioni di Mizrael.
Non tornavo laggiù dal giorno in cui avevo pagato il sorvegliante per fargli curare la spalla dell'Alato.
Non appena ero entrata mi aveva investito un lezzo terribile di sangue, umori ed escrementi. Avevo dovuto premermi entrambe le mani sulla bocca e sul naso per potermi avvicinare al prigioniero.
Erano bastati solo pochi giorni per umiliare la sua bellezza: l'inedia e la sporcizia lo rendevano quasi irriconoscibile. Eppure i suoi occhi conservavano lo sguardo fiero che gli avevo sempre visto. Uno sguardo pieno di rabbia.
Ero scappata via senza riuscire a sostenere quello sguardo.
Avevo cercato disperatamente dei servitori che scendessero nei sotterranei e avevo ordinato loro, perentoria, di ripulire la cella e lavare lo schiavo.
Sapevo che nessuno voleva un contatto ravvicinato con lui: lo temevano, e a ragione. Ma avevo quasi finito i dinari, così li avevo minacciati di riservare loro la stessa fine delle due domestiche che avevo fatto licenziare tempo prima e alla fine avevano obbedito.
Solo quando mi era stato assicurato che l'azrariano era tornato perlomeno presentabile, avevo di nuovo messo piede nella cella. Avevo portato personalmente dello stufato avanzato dal pranzo e una brocca d'acqua, animata dalle migliori intenzioni.
Mizrael mi era apparso pallido, dal volto più affilato di quanto ricordassi, ma era pulito. I capelli avevano riacquistato le sfumature dorate naturali e i suoi occhi avevano uno sguardo meno duro.
Mi ero inginocchiata accanto a lui, sistemando la brocca per terra e la ciotola con lo stufato sulle mie gambe.
– Devi mangiare – gli avevo detto, cercando di essere persuasiva. – Non puoi lasciarti morire di fame.
I suoi occhi erano stati eloquenti: chi diavolo ero io per pensare di poterlo convincere ad accettare il suo destino di schiavo?
Ero la ragazzina viziata che lo aveva comprato, ecco chi ero. E giocavo a prendermi cura di lui così come le bambine accudivano le bambole.
– Per favore, Mizrael...
Avevo cercato di essere paziente. Gli avevo porto il cucchiaio, ma si era girato dall'altra parte senza emettere neppure un fiato.
Benché avesse i polsi legati, la catena tra i due anelli che li cingevano gli lasciava abbastanza libertà di movimento per consentirgli di usare un cucchiaio. O di sorbire lo stufato direttamente dalla ciotola.
Ma no, lui aveva deciso di non mangiare.
Ostinata, avevo rincorso le sue labbra con il cucchiaio ogniqualvolta aveva scostato il volto; alla fine mi ero talmente irritata che mi ero seduta a cavalcioni su di lui, riuscendo finalmente a spingergli in bocca un po' di stufato.
Prima che potessi cantare vittoria, tuttavia, mi aveva fissato assottigliando gli occhi e un secondo dopo mi aveva spruzzato in faccia tutto ciò che ero convinta di avergli fatto ingoiare.
Ero rimasta talmente sconcertata da quel gesto che avevo perso il respiro per diversi secondi. Poi, mentre mi ripulivo con le mani, ero stata travolta dalla rabbia e avevo scagliato la ciotola contro il muro, alzandomi precipitosamente.
– Sei un barbaro! – gli avevo urlato. – Meriteresti davvero di restare qui a morire senza cibo, in mezzo alla sporcizia!
Avevo tirato un calcio alla brocca, che era finita a terra in cocci, spargendo il suo contenuto sul pavimento di pietra.
– Se non vuoi mangiare, non farlo! Ma vedremo quanto resisterai senza bere!
In quel momento era cominciata una lotta senza quartiere tra me e lui. Una lotta che aveva rischiato di diventare un'ossessione finché non avevo capito che gli stavo infliggendo proprio il tormento che invece avrei voluto risparmiargli.
Quando ero tornata nei sotterranei con una nuova brocca piena d'acqua, il suo istinto di sopravvivenza aveva avuto la meglio sull'orgoglio. Mi aveva strappato il recipiente dalle mani prima ancora che mi inginocchiassi al suo fianco, bevendo avidamente fin quasi a svuotarlo. Si era poi piegato su se stesso, scosso da una tosse feroce.
Il pensiero di essere stata io a causargli quella sofferenza era stato un lampo luminoso nella mia testa. Mi aveva dapprima offuscato la vista, poi me l'aveva restituita in un modo repentino, mostrandomi l'essere orribile in cui mi stavo trasformando.
E, prima che potessi evitarlo, ero scoppiata a piangere. Non era il pianto nervoso che accompagnava i miei scatti d'ira, o quello di dolore durante le visite del dott. Stheiner, ma quello che a volte aveva minacciato di soffocarmi quando ero piccola.
Era un pianto alimentato dalla consapevolezza di essere completamente sola, in mezzo a persone che non mi avrebbero mai compresa davvero. Persone alle quali non avrei mai potuto aprire il mio cuore, confessare le mie paure o chiedere rassicurazioni e conforto.
Alzando gli occhi, avevo incontrato quelli di Mizrael.
L'Alato fissava perplesso le mie lacrime e a me era parso di cogliere lo stesso turbamento con cui mi aveva guardata al circo, il giorno in cui ero andata ad assistere al suo spettacolo.
Aveva raccolto al petto le ginocchia, chinando la testa e borbottando qualcosa nella sua lingua.
Era rimasto in quella posizione per tutto il tempo, mentre io continuavo a piangere coprendomi il viso. Mi vergognavo di quelle lacrime: mi rendevano debole.
Dopo essermi asciugata gli occhi con un fazzolettino che profumava di sapone da bucato, avevo tirato su col naso e avevo allungato una mano a toccargli una caviglia.
Lui aveva alzato lentamente lo sguardo, fissando la pesante chiave di ferro che stringevo tra le dita.
– Non posso restituirti la libertà, Mizrael – avevo detto, in tono determinato. – Ma posso fare in modo che la tua vita migliori decisamente. Adesso ti libererò le gambe... Dimostrami che posso fidarmi di te e libererò le tue mani e, un giorno, le tue ali. Dimostramelo!
Avevo aperto gli anelli che gli stringevano le caviglie e lui aveva steso d'istinto le gambe, sfiorandosi con le dita la pelle escoriata al di sopra dei malleoli.
La luce che gli avevo visto negli occhi mi aveva trasmesso un minuscolo brandello di qualcosa che avrei potuto chiamare felicità. Se avessi mai conosciuto un concetto simile.
Ma, proprio mentre cominciavo a sperare di potermi alleggerire la coscienza, l'Alato aveva sputato per terra rabbiosamente, vicino alle mie ginocchia. Quando mi ero ritratta in modo brusco, aveva strattonato con disprezzo le catene che ancora gli bloccavano i polsi. Poi, mentre mi rialzavo dal pavimento e cominciavo a indietreggiare, aveva afferrato la brocca ormai quasi vuota per poi scagliarla contro il muro, ricordandomi ciò che avevo fatto io pochissimo tempo prima.
A quel punto ero uscita precipitosamente dalla cella prendendo atto dell'ennesimo fallimento.
Le lacrime che avevo versato erano diventate un ricordo lontano e avevano ceduto il passo alla collera e alla frustrazione.
Avevo maledetto Mizrael e il suo stupido orgoglio. Poi avevo maledetto me stessa, perché non riuscivo a comprendere nemmeno io che cosa avrei mai potuto ottenere dalla prigionia dell'Alato.
Eppure, contro ogni aspettativa, quella sera uno dei servitori era venuto a comunicarmi che lo schiavo aveva cominciato a mangiare.
Mi aveva anche detto che, dopo aver consumato il pasto che era stato lasciato su un vassoio accanto ai suoi piedi, l'azrariano aveva fatto a pezzi le stoviglie di terracotta usandole per il tiro al bersaglio contro il muro. Ma a me non era importato.
Con un sorriso vittorioso stampato sulle labbra avevo dato ordine di servire i pasti successivi in recipienti fatti di legno, più resistente agli urti di quanto non fosse la terracotta.
Adesso che la salute di Mizrael non era più a rischio a causa del suo rifiuto del cibo, ero tornata nei sotterranei con uno scopo diverso dal costringerlo a nutrirsi: volevo strappargli qualche parola nella mia lingua che non fosse un insulto.
E naturalmente avevo preteso troppo.
Lui non mi voleva davanti agli occhi, era chiaro. Faceva in modo che mi tenessi a distanza urlandomi contro, ma il più delle volte si limitava a sibilare parole gutturali in azrariano o taceva, per poi sorprendermi quando meno me lo aspettavo lanciandomi contro i rimasugli di cibo dei suoi piatti.
Così avevo preso l'abitudine di andare a fargli visita solo dopo che i servitori avevano ritirato il vassoio con i resti – pochi, per la verità – del suo pasto.
Se Debra Waltz avesse anche solo provato a immaginare che cosa significava scendere in quella cella per vedere il mio esotico schiavo, penso che il suo stomaco delicato ne sarebbe rimasto alquanto provato.
Mentre ci avvicinavamo all'ingresso principale della tenuta, la guardai sospirando ancora una volta di fronte alla sua ingenuità, poi mi fermai all'improvviso sentendo degli schiamazzi provenire da non molto distante.
– Che succede? – domandò la ragazza, fermandosi a sua volta e stringendosi contro il mio braccio.
In fondo alla lunga scalinata di pietra bianca, che portava alla terrazza panoramica su cui dava l'ingresso principale del palazzo, un paio di servitori stavano cercando di spingere via qualcuno che tentava con ostinazione di salire i gradini.
– Devo entrare! Lasciatemi passare! – stava gridando un ragazzo di una ventina d'anni. I ricci bruni si agitavano al muoversi concitato di tutto il suo corpo. Immaginai che, se non si fosse calmato entro pochi secondi, i due uomini avrebbero finito per malmenarlo. – Devo vedere quella ragazza! La ragazza con i capelli rossi! So che è qui!
Io sussultai mentre Debra mi lanciava un'occhiata significativa. – Sta parlando di te, Leda?
In quel momento il giovane sconosciuto si voltò, scorgendoci. – Eccola, è lei! – gridò, dimenandosi furiosamente. – La ragazza con i capelli rossi!
Mi stupii del fatto che mi avesse identificato come la "ragazza con i capelli rossi", quando la caratteristica che di me saltava più all'occhio era la schiena che mi sforzavo, a volte inutilmente, di tenere dritta.
– Che cosa vuoi? – domandai, facendo cenno ai servitori di lasciarlo andare.
Il giovane si sistemò la giacca a quadri che uno dei due uomini, nella foga di allontanarlo, aveva strattonato fin quasi a strappargliela di dosso. Poi si passò una mano tra i ricci scuri con un sospiro e, dopo aver lanciato uno sguardo minaccioso alle proprie spalle, s'incamminò nella mia direzione mentre Debra indietreggiava di un passo.
Si fermò quando fu a circa un metro da noi. Indossava un completo di panno con un panciotto scuro e un paio di pantaloni leggermente svasati alla caviglia che sembravano troppo corti per le sue gambe lunghe e magre.
– La ragazza della Locanda dei Bastardi – mi salutò, facendo sobbalzare la mia amica.
Avrei preferito che non cambiasse tanto repentinamente il modo di chiamarmi.
– Il ragazzo del circo – ribattei. – Alec.
Lui annuì. – Vedo che ricordi il mio nome, malgrado sia passato diverso tempo dal nostro ultimo incontro.
Mi portai un dito sotto il mento, inclinando la testa. – Molto tempo – precisai.
Non comprendevo cosa ci facesse nella tenuta del barone, soprattutto quasi un mese dopo il nostro incontro nella locanda.
– Che cosa vuoi? – ripetei freddamente.
– Vedere Mizrael.
Lo aveva detto in un tono che non ammetteva altre possibilità.
D'un tratto sollevò la testa a fissare il cielo, socchiudendo gli occhi. Incuriosita, alzai anch'io lo sguardo, ma scorsi solo il volo delle rondini che inseguivano insetti invisibili.
– Posso? – domandò, tirando fuori dalla tasca un mezzo di carte. Senza che rispondessi, arretrò fino a toccare i primi gradini della scalinata con i talloni, poi sedette con noncuranza, prendendo a mischiare le carte.
Il palazzo del barone pareva incombere dietro di lui con le due torri, la Torre Est e quella Ovest, e la facciata curvilinea di mattoni, sormontata da quella rettilinea che individuava il piano nobile. Mi chiesi dove si trovasse in quel momento Edmund, insieme ai marchesi Waltz.
Debra allungò il collo per guardare meglio, malgrado un po' di diffidenza, poi emise un gridolino di comprensione. – Quelli sono tarocchi! Lei sa leggere le carte?
Alec le rivolse un sorriso ammaliatore, lo stesso che usava per catturare l'attenzione del pubblico al circo. – Esattamente, signorina. Qui davanti a lei c'è un autentico cartomante!
Ancora una volta guardai nervosamente alle sue spalle, domandandomi cosa avrebbe pensato Edmund della presenza del giovane nella sua proprietà.
– Come sei riuscito ad arrivare fin qui? – chiesi, mentre Debra si avvicinava di qualche altro passo.
Intento a dividere il mazzo di carte in due per poi ricomporlo, non mi guardò, mostrandomi tuttavia un sorriso storto. – Le carte mi dicono sempre cosa fare per evitare i problemi.
– Peccato che non ti abbiano detto nulla quando il mercante di schiavi è venuto a portarsi via il tuo amico.
Le sue dita si bloccarono all'istante. Mi parve di scorgere una goccia di sudore scorrergli lungo una guancia ben rasata, mentre il pomo d'Adamo andava su e giù.
– Non... le avevo consultate, quella volta. – I suoi occhi si levarono a guardarmi con una luce minacciosa che fino a quel momento aveva celato con maestria.
Il livore che provava verso di me mi raggiunse in modo estremamente chiaro, tanto che dovetti resistere alla tentazione di indietreggiare. Strinse il mazzo nella mano fin quasi a tagliarsi il palmo, poi parve riprendere tutto d'un tratto il controllo di sé, estraendo una carta.
La sventolò sotto il naso di Debra, tornando a sorridere. – Prego! Per lei.
La ragazza la prese per osservarla con cura, poi i suoi occhi si sgranarono mentre Alec diceva: – Gli Amanti.
Lei arrossì all'improvviso, portandosi la carta alle labbra, e io la fissai un po' stupita. – Debra?
– Sì, è vero! – esclamò con voce stridula per l'emozione. – Mi sono fidanzata da poco!
– Non me lo avevi detto! – esclamai a mia volta, sbigottita, comprendendo in quell'istante perché l'avevo trovata tanto cambiata.
Quando la ragazza restituì "Gli Amanti", tornai a guardare Alec con sospetto. Non ne sapevo molto di cartomanzia, ma mi sembrava troppo semplice il modo in cui interpretava i tarocchi. Insomma, non dava alcuna spiegazione, limitandosi a leggere il nome della carta pescata tra tutte le altre.
– Estrai una carta per me – dissi allora, con aria di sfida. Di nuovo colsi quella luce malevola nei suoi occhi.
– Certo – acconsentì, ciò nonostante, mettendo mano al mazzo.
I garriti delle rondini divennero a un tratto fortissimi e lui ne sembrò disturbato. Strinse le labbra in un moto di rabbia, poi torse il busto per poggiare sulle scale una decina di carte, una dopo l'altra.
– L'Appeso. L'Imperatrice. La Morte. – Furono le ultime tre estratte le uniche che lo soddisfacessero.
La sua schiena sfiorò i pilastrini di cemento della balaustra.
Mi guardò restando in attesa di una mia risposta, poi, mentre lo fissavo senza capire, aggiunse: – Mizrael. Tu. Un destino ineluttabile. – Si alzò, recuperando i tarocchi e riposizionandoli nel mazzo, che fece sparire nella tasca della giacca. – Fammi vedere Mizrael o succederà qualcosa di molto brutto.
Non riuscii a decidermi se mi stesse rivolgendo una minaccia o un'implorazione. Restai là dov'ero per qualche istante, spostando con la punta del mio stivaletto i minuscoli sassi bianchi che scricchiolavano sotto i piedi.
Sentivo lo sguardo di Debra fisso su di me. La tensione svolgeva i suoi fili vibranti tra me e il ragazzo del circo, immobile sulle scale con i tarocchi in mano.
D'un tratto mi porse una carta, restando con il braccio allungato verso di me finché non la presi tra le dita.
– L'Imperatrice? – chiesi, dubbiosa.
– In questo momento tu domini. – Gli occhi azzurri del ragazzo del circo scesero lentamente lungo la mia figura, come se avesse voluto memorizzarne ogni particolare. Poi tornarono a guardare i miei. – Disponi della vita di un uomo. È una responsabilità enorme.
Non dissi nulla, riflettendo tra me e me. Quando, indirizzando lo sguardo verso la cima delle scale, fui certa che i servitori che avevano impedito il passaggio ad Alec si fossero ritirati all'interno del palazzo, annuii con la testa. Restituii il tarocco al ragazzo, invitandolo ad alzarsi. – Seguimi.
Mi avviai verso un ingresso secondario che consentiva di accedere ai sotterranei senza passare dalla Torre Est.
– Tu torna dai tuoi genitori – ordinai a un certo punto a Debra, che mi seguiva con passo sicuro.
– Perché? Io...
– Per favore – cercai di congedarla. – Vai.
– E se Edmund mi chiede di te?
Ci pensai un attimo, poi mi strinsi nelle spalle. – Digli la verità.
Immaginavo che il barone avrebbe saputo comunque di Alec e mi avrebbe sottoposta a un interrogatorio serrato non appena fossero andati via i marchesi Waltz e le loro figlie. Mi sarei dovuta aspettare una notte movimentata.
Quando arrivammo sotto il lato orientale della terrazza panoramica, i cespugli di rose si erano ormai diradati fino a sparire, sostituiti da una vegetazione più incolta e dall'aspetto meno artefatto. Lecci e cipressi formavano un boschetto in cui solo le siepi di bosso perfettamente potate denotavano l'intervento della mano dell'uomo. Gli alberi erano cresciuti in modo irregolare, interrompendo il viottolo di ghiaia che avevamo percorso e in parte nascondendo una porta di legno chiusa con un catenaccio.
Io tirai fuori da una tasca un mazzo di chiavi, soppesandolo per qualche secondo. Me lo ero fatto dare da uno dei servi incaricati di tenere sotto controllo lo schiavo azrariano, così potevo andare e venire quando e come volevo.
Usai una delle chiavi per togliere il catenaccio, poi spinsi la porta in avanti, esortando Alec a entrare per primo. Lui mi lanciò un'occhiata in tralice prima di varcare la soglia.
Le scale che conducevano ai sotterranei erano scivolose di umidità e immerse nel buio, ma, prima che potessi avvisarlo di fare attenzione, il ragazzo del circo mise un piede in fallo, scivolando su un gradino.
Non cadde solo perché ero riuscita ad agguantarlo dalla giacca, così riuscii a guadagnarmi uno sguardo un po' meno ostile.
– Non si vede niente, quaggiù – sbottò, distogliendo gli occhi e sistemandosi il bavero della giacca.
– Fra poco ti abituerai a quest'oscurità e vedrai meglio.
Lui riprese a scendere, con la mano poggiata contro la parete. Era strano, eppure, guardando la sua schiena, provai una sensazione fino a quel momento sconosciuta. Un misto di repulsione e attrazione che non riuscii a spiegarmi.
– Dimmi una cosa, Alec...
Forse sorpreso dal tono confidenziale con cui gli avevo parlato, slittò di nuovo con il piede sulla superficie irregolare dello scalino, ma stavolta si riprese in tempo. – Che c'è? – domandò brusco, facendomi rimpiangere il modo sarcastico con cui si era rivolto a me quando c'eravamo incontrati per la prima volta.
– Per quale ragione parli l'azrariano?
Il suo stupore adesso era tangibile. Era evidente che non si aspettava una domanda del genere, tuttavia pensai che la mia fosse una perplessità naturale, visto che non era un Alato e che non ci trovavamo ad Azra.
– Dove l'hai imparato? – insistetti.
– Nella Città Bianca.
Fu come se lo sconcerto che aveva provato lui poco prima si trasmettesse a me in modo dieci volte più intenso.
La Città Bianca!
La capitale di Azra.
– Impossibile! – scattai, quando mi ripresi dalla sorpresa. – Non ci sono umani nell'Oltreconfine!
Lui accelerò il passo, diventato più sicuro. Non si voltò verso di me, ma compresi che stava sorridendo. – "Oltreconfine"... Mi è sempre piaciuto questo modo di chiamare Azra! Peccato che gli ottusi umani delle città-Stato non sappiano cosa ci sia, oltre il confine!
Mi fermai di colpo, turbata da quell'affermazione. Cosa c'era nella Terra della Gente Alata? Be', sembrava che lui lo sapesse fin troppo bene.
Anche se non era mia intenzione, pensai d'un tratto a Deneb. Al suo viso dolce dai lineamenti delicati, all'espressione emozionata che trapelava dal dagherrotipo che lo aveva immortalato.
Conservavo gelosamente quel dagherrotipo in una custodia di vetro e velluto, lontano dagli occhi di Edmund.
Una volta avevo avuto l'impulso di gettarla via, di scagliarla contro lo spigolo del camino di marmo della mia camera per mandarla in frantumi, ma alla fine non ne avevo avuto il coraggio. Ed era rimasta al suo posto, nascosta in una scatola legata alla rete del materasso.
– Oltre che nella Città Bianca sei mai stato... nell'Ovest? – domandai come in trance, accorgendomi solo dopo un istante che Alec era già arrivato in fondo alle scale.
Scrollando la testa mi affrettai a raggiungerlo, trovandolo con le mani agganciate alle sbarre della cella di Mizrael. Stava sussurrando qualcosa in azrariano all'Alato, in piedi di fronte a lui. Il tono era pacato, tuttavia lo schiavo pareva sconvolto, come se stesse ascoltando una dichiarazione di guerra. Era sconvolto e arrabbiato.
Scosse il capo ripetutamente, colpendo le sbarre con gli anelli di ferro che aveva ai polsi. Anche se non comprendevo la sua lingua, era chiaro che stesse gridando "no". E lo gridava di continuo: – Ylaa! Ylaa!
Alec tentava chiaramente di placarlo, ma Mizrael sembrava non volerne sapere di calmarsi.
– Adesso smettila! – intimai al ragazzo del circo, avvicinandomi alle sbarre. – Si può sapere che cosa gli stai dicendo?
In quel momento Mizrael si fermò, piantandomi in faccia due occhi che sembravano d'argento fuso. Il suo petto ansante si alzava e si abbassava in modo irregolare, mentre un respiro denso gli fluiva via dalle labbra umide di saliva.
In quel momento non riuscii a non pensare che fosse comunque bellissimo, malgrado la collera che gli sconvolgeva i lineamenti e il volto scavato.
– Adesso vado via, amico mio – si accomiatò il ragazzo del circo, scostandosi dalle sbarre. – Ricorda ciò che ti ho detto.
Quando gli voltò le spalle, mi passò davanti con uno sguardo criptico. – I miei ossequi, Imperatrice – mi salutò, portandosi due dita a un immaginario cappello calcato sulla fronte. – Tornerò presto a farvi visita.
– Aspetta!
Non avevo alcuna intenzione di farlo andare via così, senza avere neppure una spiegazione. Ma, mentre avanzavo di un passo per inseguirlo, mi accorsi di aver calpestato qualcosa. Sollevai il piede e subito dopo, con un piccolo sforzo, mi chinai per raccogliere il tarocco che doveva essere caduto dal mazzo del cartomante.
Mi guardai intorno, pensando che avrei trovato per terra qualche altra carta, invece non ce n'era nessun'altra.
La osservai con attenzione: il retro era blu, con dei puntini dorati che dovevano rappresentare le stelle. Quando la girai scorsi tre figure, due donne e un giovane uomo al centro, sovrastate da un angelo. Mentre leggevo la scritta stampata sotto i piedi dei personaggi disegnati, avvertii lo sguardo intenso di Mizrael sul mio viso.
Sollevai lentamente gli occhi per incontrare i suoi e il tarocco mi sfuggì dalle dita, cadendo nuovamente a terra.
Anche senza leggere la scritta, l'avrei riconosciuto perché lo avevo visto poco prima tra le mani di Debra.
Gli Amanti.
Buongiorno! Mi siete mancati in questa lunghissima settimana (dico settimana, ma in realtà non so con precisione quanti giorni siano passati... forse di più, magari di meno... Ho perso la cognizione del tempo!) in cui non ho aggiornato. Spero che anche a voi siano mancati Leda (lo so che in fondo in fondo non la odiate ^.^') e Mizrael!
Visto che ho finito di scrivere il capitolo tre secondi fa non me ne vogliate se doveste trovare imperfezioni: piuttosto segnalatemele! È che, una volta deciso di concluderlo e di pubblicarlo, non ho avuto voglia di stare a rileggerlo con attenzione...
Insomma, abbiamo visto che il nostro Mizrael ha un bel caratterino, eh? Soprattutto in queste circostanze. Leda è decisa a renderlo piano piano una docile colombella da poter liberare dalla gabbia, ma l'Alato non pare essere d'accordo.
Inoltre l'improvvisa comparsa di Alec, invece di tranquillizzare l'angelo demoniaco, lo ha fatto ulteriormente agitare. Che cosa gli avrà detto?
Chissà se lo scopriremo nella seconda parte del capitolo...
Io aspetto i vostri incoraggianti commenti.
Vi auguro una splendida domenica <3<3<3
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