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Cap. IV Bagliori metallici Parte II

La notizia di quanto era avvenuto raggiunse Edmund prima che lo facessi io.

Quando arrivai trafelata al suo cospetto in condizioni pietose – sporca, lacera, con la schiena e le ginocchia che perdevano sangue – lui mi fissò attentamente senza dire nulla.

Era seduto alla sua scrivania di massello di noce, di fronte a una cappelliera di cuoio in cui nascondeva i sigari. Sua moglie Edna, infatti, anche se tollerava le relazioni extra coniugali del marito e la mia presenza alla villa, non riusciva proprio ad accettare il suo vizio del fumo.

Il barone aveva appena chiuso il portasigari celato all'interno della cappelliera, quando entrai nella stanza. Mentre mi osservava poggiò la lama di un coltello affilato contro la testa del sigaro scelto e la recise con un colpo netto. Fu solo esercitando un grande controllo sul mio corpo che riuscii a non trasalire.

Edmund scaldò il piede del sigaro ruotandolo sopra il fuoco di un fiammifero e infine ne portò la testa alle labbra, accendendolo. Assaporò il fumo socchiudendo gli occhi, poi lo buttò lentamente fuori dalla bocca, con una specie di sospiro.

– Sei qui – mi salutò, in un tono un po' troppo pacato. – Mi hanno detto che le tue compere sono andate a buon fine. Sei soddisfatta del tuo acquisto di oggi?

Io mi portai una mano alla bocca, prendendo a tormentarmi il labbro inferiore con le unghie. – Edmund...

– E dimmi, mia dolcissima creatura, – m'interruppe lui – con quali soldi hai potuto comprare il magnifico esemplare che hai condotto nelle mie terre, a mia insaputa? Non con le irrisorie somme che ti lascio ogni mese per le tue spese personali, dico bene?

Se avessi provato a mentire, sapevo che non me la sarei cavata. – No, non quelle somme – ammisi.

Lui mi guardò piegando un po' la testa, come per guardarmi meglio da un'altra angolazione. – Con quali soldi, allora?

– Non ho rubato, se è questo che vuoi sapere. Non ti ho mai sottratto un centesimo di dinaro, lo giuro.

Il suo sguardo consapevole si soffermò sulla collana di grani azzurri che mi scendeva sul petto e mi resi conto che aveva capito.

Perché era dalla vendita di alcuni dei gioielli che mi aveva regalato che ero riuscita a ricavare la cifra importante pagata per Mizrael, di certo non dagli "spiccioli" che guadagnavo presso la Casa del Loto – e che pure servivano ad arrotondare.

– Edmund – ripetei, strizzando le palpebre subito dopo e inveendo mentalmente contro me stessa perché sembrava che il suo nome fosse una sorta di formula magica.

Le tende color porpora drappeggiate alle finestre davano al volto del barone un colorito bruno che rese il suo sguardo più scuro.

– Perché hai voluto comprare uno schiavo senza il mio consenso, Leda? – mi domandò tra uno sbuffo di fumo e l'altro, mentre faceva ruotare il sigaro tra le dita. – Perché proprio un Alato? Non mi sarei aspettato niente del genere da te.

Io alzai il mento con uno scatto, cominciando a perdere un po' della mia apparente calma. – Non l'avevo programmato! È... capitato...

Lui scoppiò improvvisamente a ridere. – Capitato, dici? Queste cose non capitano, mia cara! – Si alzò per venire verso di me, dopo aver poggiato il sigaro sul posacenere.

– Sai che cosa penso degli azrariani, Leda. Sono selvaggi che godono nel versare sangue umano. – Mi infilò le dita tra i capelli, tirandomi leggermente la testa all'indietro. – Cartago non è stata ancora toccata dalla guerra, ma gli umani delle altre città-Stato muoiono ogni giorno per mano di quelle creature senza Dio. E tu mi porti qui proprio uno di quei demoni alati?

Io trattenni il fiato per un attimo, poi mi liberai dolcemente dalla stretta delle sue mani scuotendo la testa. – Non so che cosa volessi dimostrare, Edmund – dissi, ritrovando un po' di sicurezza per guardarlo negli occhi. – Ho agito senza riflettere.

– Forse trovi eccitante l'idea di poter sottomettere un barbaro azrariano? Pensi di poter essere tanto forte da ridurlo in tuo potere?

Qualcosa nelle sue parole mi fece aggrottare le sopracciglia. Non sapevo se in parte fosse così, se anch'io, come Edmnd stesso, covassi dentro di me quell'assurdo desiderio di piegare un'altra persona al mio volere – no, non un'altra persona, un Alato. Ma sentivo che c'era più di una ragione se avevo fatto ciò che avevo fatto. Anche se ne conoscevo soltanto una, che non potevo rivelargli.

– Sono già forte – risposi in un moto d'orgoglio. – Malgrado la sofferenza che provo tutti i giorni e il corpo che cerca di tradirmi in ogni momento, sono più forte anche di te, lo sai.

Lui rise di nuovo, ma senza acrimonia, stavolta. Le sue labbra mi sfiorarono la fronte e io chiusi gli occhi nel sentire il profumo di cui era impregnato il colletto della sua giacca. – Hai ragione, lo sei più di me. E dei sorveglianti con i loro fucili e di una mezza dozzina di schiavi con le loro roncole!

Io riaprii gli occhi: gli avevano detto che ero stata io a fermare lo schiavo ribelle, dunque. Questo segnava un punto a mio favore.

– Allora va bene, mia bellissima Leda. Avrai ciò che vorrai – mi concesse, spingendomi indietro finché i miei polpacci non andarono a sbattere contro il divano di velluto verde alle mie spalle. – Sarà interessante vedere in che modo riesci a importi sulle taglienti penne affilate di un azrariano! E adesso potrei anche meritarmi un "grazie" da parte tua, non credi?

Io sbattei le ciglia, poi feci scivolare le mani sotto la sua giacca e gli accarezzai l'addome fino a scendere sulla patta dei pantaloni, ma quando cominciai a sbottonarli lui mi fermò. Mi diede di nuovo una leggera spinta per costringermi a sedermi sul divano, poi si sistemò al mio fianco.

Senza dire nulla mi prese per le spalle, facendomi sdraiare con la testa appoggiata al bracciolo imbottito. Poi le sue mani mi tirarono l'orlo della gonna sul ventre, scoprendomi completamente le gambe. Mi sfiorò con la punta della lingua un ginocchio che si era lacerato nel contatto con le ali di Mizrael, quando lo avevo bloccato a terra.

– La mia bambina si è fatta male, si è sbucciata il ginocchio – cantilenò, slacciandomi il primo gancio del reggicalze.

La mia bambina. Lo diceva ogni volta che andavamo a letto insieme. Ogni volta.

Solo quando si era preso la mia verginità mi aveva definito la sua piccola donna coraggiosa.

– Lo sai, Leda? Io so anche essere altruista – sussurrò, mentre mi baciava l'interno della coscia. – Anch'io posso darti ciò che meriti...

Io cercai di non sobbalzare al contatto delle sue labbra con la mia pelle. Non ero abituata a ricevere carezze né tantomeno baci tanto intimi e la mia mano sinistra si aggrappò al legno intagliato che incorniciava lo schienale del divano.

In cinque anni il barone non era mai stato tanto dolce e attento alle mie necessità e ai desideri del mio corpo. Il suo comportamento mi disorientò, mentre il piacere dilagava infuocandomi il basso ventre.

Gemendo, lo accolsi dentro di me quando, finito di stuzzicarmi con le labbra, mi penetrò dapprima delicatamente, poi con forza. E ogni movimento mi provocava sensazioni talmente gradevoli da subissare le scariche di dolore alla schiena.

Dopo avermi fatto quasi gridare, lui si accasciò su di me, ansante. Provò a baciarmi la bocca, ma dopo anni passati a cercare di sottrarmi ai suoi baci girai d'istinto il volto.

– Leda, Leda! – si lamentò. – Quando mi regalerai con gioia le tue labbra?

Io mi tersi con la mano le stille di sudore che mi bagnavano la fronte e lo abbracciai per tentare di compensare la delusione che avevo percepito nella sua voce.

– Se non eri intenzionata ad acquistare uno schiavo – mi domandò, facendomi scorrere un dito lungo il collo ed esaminando i grani della mia collana, – mi spieghi perché hai pensato di venderti parte dei gioielli che ti avevo regalato?

Gli accarezzai distrattamente la nuca, poi sospirai. – Io, un giorno... vorrei andare ad Agri.

Lui assunse un'espressione pensierosa continuando a giocherellare con la collana, per poi sfilarmela. – Ne abbiamo già parlato. Sai che ti darei qualsiasi cifra per renderti felice, ma non posso permetterti di fare una sciocchezza.

– Non è una sciocchezza – protestai, tuttavia subito dopo scossi la testa. Non era il momento opportuno per discutere della questione. Mi misi a sedere, mentre lui si alzava risistemandosi i pantaloni.

– L'Alato – dissi, abbassandomi le gonne dopo aver riagganciato il reggicalze. – Il mio schiavo... posso portarlo via dalla torre?

Il sorriso che esibì emergeva amaro dalla piega delle labbra. – Certo. Spero solo che tu arrivi in tempo.

Le mie mani s'immobilizzarono mentre stavano tirando indietro una ciocca di capelli che mi era finita sugli occhi. – Che intendi dire? – domandai, sentendo una repentina sensazione di vuoto nella pancia. – Non avrai già dato ordine ai tuoi uomini di...?

– Avevo detto loro di prendersi qualche soddisfazione con l'azrariano, prima di usare la garrota. Forse se corri riesci a impedire che avviino la procedura.

Una sensazione di freddo mi fece tremare la mandibola. – Ma... la garrota?! – Ero sconvolta. Dopo il primo secondo di smarrimento saltai giù dal divano e corsi alla porta. Non riuscivo ad accettare che, mentre godevo tra le braccia di Edmund, Mizrael...

– Leda? – mi chiamò il barone, costringendomi a girarmi quando già stavo per uscire dalla stanza. Si stava sistemando il panciotto, prima di riallacciare la giacca. – Tieniti pure il tuo nuovo animale da ammaestrare, o ciò che ne resta. Vedremo quanto sarai brava ad ammansirlo! Ma fai un unico passo falso, mia splendida creatura, e ti garantisco che le pene che sta provando lui in questo momento saranno niente rispetto a quelle che verranno riservate a te.

Mi voltò le spalle e io feci altrettanto, riprendendo a correre. Ero incredula e piena di rabbia, ma cercai solo di concentrarmi sul movimento delle mie gambe per costringermi a essere ancora più veloce. Non volevo pensare alle minacce terribili che il mio amante aveva pronunciato.

Raggiunsi la torre nell'ala più antica del palazzo; sorgeva dove un tempo era stato edificato un piccolo castello fortificato che dominava le valli circostanti. Nel corso del tempo era stato ricostruito più volte, ma la Torre Est era uno dei pochi elementi rimasti pressoché immutati.

Spalancai la porta di legno, precipitandomi dentro mentre tutto il mio corpo urlava dal dolore. L'edificio, piuttosto angusto, aveva la pianta circolare e i muri spessi rendevano l'aria fresca, rispetto a quella tiepida dell'esterno.

Fu una fortuna, perché cominciavo davvero a sentirmi male; la temperatura del mio corpo pareva essere salita vertiginosamente.

Mi gettai in ginocchio al centro del pavimento, ai margini di un inserto di vetro che lasciava vedere al di sotto una stanza piuttosto buia, rischiarata dalla luce che proveniva da quella sorta di finestra. Mentre tentavo di riprendere fiato guardai in basso, scorgendo le figure di due uomini che armeggiavano intorno a una grossa sedia di legno massiccio. E su quella specie di seggio maestoso, con le gambe e le braccia bloccati da cinghie, c'era Mizrael.

Un singhiozzo mi sfuggì dalla gola.

No, non poteva essere! Stavano già usando la garrota!

Mi rialzai in piedi, aggirando l'inserto di vetro dal quale i baroni di His avevano assistito nei secoli alle torture che avvenivano nei sotterranei. Raggiunsi una scala di pietra che conduceva laggiù e la percorsi più velocemente che potei.

Quando arrivai nei sotterranei mi investì il lezzo del sangue e un odore dolciastro che avevo sempre associato alla morte. I muri ne erano come impregnati.

Gli strumenti di tortura che venivano ancora usati per punire gli schiavi ribelli, di legno e, soprattutto, ferro, erano colpiti da un fascio di luce dorata proveniente dall'unica feritoia presente ed emettevano un baluginio metallico. Mi ricordò in modo sinistro quello delle lamine taglienti delle piume di Mizrael.

Passando davanti alla vergine di ferro e a un lungo tavolo sul quale si sarebbe potuta sdraiare una persona, anche molto alta, pensai a quello che doveva aver patito il mezzadro che aveva tentato di uccidere Edmund. Sicuramente l'avevano fatto soffrire molto, prima di lasciarlo marcire fino alla morte in una gabbia che si arroventava al sole.

Quel pensiero mi fece tremare il cuore. Anche se non riuscivo ancora a scorgere Mizrael né i suoi aguzzini, urlai con quanto fiato avevo in gola agli uomini del barone di non toccare lo schiavo.

E pregai l'Unico di essere ancora in tempo.

I tre si trovavano, lo sapevo, in una stanza attigua, posizionata proprio sotto la pianta della Torre Est.

Il suono dei miei passi che rimbombava contro l'alto soffitto doveva averli raggiunti, così come quello della mia voce, ma non ero certa che avrebbero ascoltato. Così gridai di nuovo, minacciando i due umani di utilizzare uno degli strumenti presenti in quel sotterraneo su di loro, se avessero osato ancora alzare un dito sul mio schiavo.

Mentre correvo zigzagando tra lame affilate e punteruoli sporgenti da tavolette di legno, m'impigliai con l'abito in una specie di tagliola dal bordo dentellato. Per la fretta di liberarmi strattonai talmente la gonna da strapparla, e ci mancò poco che finissi a terra per l'impeto con cui avevo tirato.

Quei pochi metri che mi separavano dalla stanza della garrota mi parvero centinaia; li percorsi con la terribile certezza che fosse già avvenuto l'irreparabile e gli occhi mi si inumidirono.

Mi sentivo in colpa per la sorte dell'Alato. Aveva tentato di ribellarsi, era vero, ma ero stata io a portarlo nella tenuta.

– Fermi, basta! – gridai, arrivando finalmente a pochi passi da Mizrael.

Troppo concentrata su di lui, quasi non mi accorsi degli uomini che mi osservavano stupiti.

– Lei non dovrebbe trovarsi qui, signorina – disse uno dei due, posizionato a gambe larghe dietro la spalliera della sedia su cui era stato legato lo schiavo. Piena d'orrore spostai lo sguardo sulla manovella stretta tra le sue dita, che sporgeva dalla parte posteriore dello schienale. Alla manovella era collegata una fascia di ferro, stretta al collo dell'Alato a tal punto che lui aveva preso a respirare in modo concitato per cercare di catturare l'aria, emettendo sibili disperati.

La manovella, quando veniva girata, oltre a stringere meccanicamente la fascia, faceva avanzare una lama acuminata, posizionata proprio contro la nuca della vittima. Si apriva lentamente un varco nella carne, fino a rompere le vertebre. A seconda di quanto andasse in profondità, poteva provocare una lesione che avrebbe causato la paralisi o la morte. Sempre che il malcapitato non fosse morto prima per strangolamento.

Mizrael era ancora vivo, ma se la lama fosse affondata tanto da non permettergli più di camminare o di volare...

Volare...

– Liberatelo immediatamente! – ordinai. – Adesso!

L'uomo che stringeva la manovella smise di girarla, ma non si spostò. – Il barone...

– Il barone mi ha dato il permesso di portare via lo schiavo dalla torre. Potrete chiederglielo personalmente, ma nel frattempo dovrete obbedire a me! – Tirai fuori da una tasca nascosta tra le pieghe della gonna un foglio di carta che sbandierai con furia: . – Quest'uomo mi appartiene! E se lo avrete danneggiato in qualche modo, dovrete risarcirmi corrispondendomi almeno la stessa somma che ho pagato io per averlo!

Visto che i due esitavano, pestai un piede per terra. – Slegatelo subito!

Stavolta mi obbedirono. Non appena liberarono il collo dell'Alato dalla morsa della fascia di ferro, Mizrael fu scosso da una tosse violenta mentre provava ad aspirare grandi boccate d'aria.

Prima che lo facessero gli uomini del barone, mi avvicinai a lui per slegargli i polsi, poi mi premetti la sua fronte contro il petto e mi sporsi oltre le sue spalle per controllargli la ferita sulla nuca. Sanguinava, ma non riuscii a comprendere quanto fosse profonda.

– Riesci a muoverti? – domandai, assecondando l'impulso ad accarezzargli i capelli con fare protettivo. Mi sentivo responsabile per lui, per qualcuno che sarebbe dipeso in tutto e per tutto da me. O almeno era così che la pensavo in quel momento. E, anche se non avrei dovuto, provai una specie di compiacimento al pensiero di essere davvero indispensabile per qualcuno.

Mentre stringevo a me lo schiavo, avvertii le sue spalle fremere e le mani salirmi lungo la schiena, in una sorta di carezza che mi spezzò il respiro. Poi, mentre rabbrividivo nel sentirgli pronunciare una lunga frase nella sua lingua gutturale e dura, mi staccai un po' da lui e gli sollevai il mento per guardare il suo viso.

Gli uomini del barone si erano davvero divertiti con lui. Gli occhi erano pesti, il sangue che scorreva da lacerazioni sulla fronte, sugli zigomi e sulla bocca gli imbrattava la pelle, rendendomi impossibile distinguerne il colore.

Lui smise di parlare per riprendere fiato, poi si aggrappò con le mani al tessuto del mio vestito e mi fece chinare su di sé. Quando le sue labbra mi toccarono l'orecchio, lo sentii sussurrare: – Io... io... – Intrecciai le mie dita ai suoi capelli, così meravigliosamente morbidi, attendendo il resto del discorso. – Vi ucciderò tutti.

Fu come se mi risvegliassi da un sogno nebbioso.

Dopo aver ricevuto le minacce del mio barone a causa dell'Alato, adesso era l'Alato stesso a minacciarmi.

D'un tratto mi resi conto di quanto ero stata avventata. Di quanto ero stata crudele e, nello stesso tempo, ingenua.

E collera, vergogna e amarezza intrecciarono dentro di me una danza frenetica che minacciava di frantumarmi il cuore.

Così le mie mani si tirarono bruscamente indietro, costringendo la testa dello schiavo a rovesciarsi mentre chiudevo i pugni tra i suoi capelli. – Ah, sì? – sbottai, guardandolo negli occhi gonfi. – Vedremo se sarai in grado di farlo!

Mi scostai da lui girandogli frettolosamente le spalle. Non volevo più averlo davanti agli occhi.

Se solo fossi riuscita ad allontanarmi anche da me stessa con la stessa facilità con cui potevo allontanarmi dalla sua figura!

– Signorina Leda – mi chiamò uno dei servitori di Edmund, quello che fino a quel momento non aveva detto una sola parola – dobbiamo riportare l'azrariano negli alloggi degli schiavi?

Mi parve chiara la sua perplessità.

– No – risposi, mentre mi tremavano le labbra. – Portatelo nella cella, dopo avergli dato una ripulita. Che si schiarisca un po' le idee e che mediti su ciò che ha fatto!

Me ne andai senza prestare attenzione alla risposta.

Non avrei mai potuto permettere a Mizrael di stare in mezzo agli altri schiavi, vista la sua pericolosità. Avrei dovuto accertarmi che non fosse più intenzionato ad aggredire nessuno, prima di concedergli la possibilità di muoversi nella tenuta senza i ceppi. E mi parve un'impresa titanica, soprattutto dopo la minaccia che mi aveva rivolto.

Lui marcirà in una cella fino a morire e sarà stata solo mia, la responsabilità!

I sensi di colpa mi chiusero dita di ghiaccio intorno alla gola e le lacrime mi salirono agli occhi con una tale violenza che non riuscii a trattenerle.

Stupido e arrogante di un Alato! Perché non poteva semplicemente accettare la sua sorte? O, almeno, perché non poteva fingere e provare a conquistare la mia fiducia?

Per ottenere quel po' di autonomia per tentare di nuovo la fuga o, peggio ancora, per uccidermi con quelle ali indomabili...

Avrei voluto urlare per la frustrazione.

Quando raggiunsi la mia stanza mi sentivo furente, in preda all'istinto di distruggere qualsiasi cosa mi fosse capitata a tiro, come quando avevo sentito le domestiche che avevo fatto licenziare definirmi "mostro deforme con quel viso d'angelo".

Mi trattenni, tuttavia, perché ormai nella camera restava solo il mobilio indispensabile. Mi accontentai di gettarmi sul letto per soffocare i singhiozzi mordendo il cuscino.

– Leda? Che cos'hai fatto?

Nel sentire quelle parole, sollevai la testa di scatto. Ero talmente angosciata che non mi ero neppure accorta della presenza della signora Kant, dritta davanti al mio scrittoio.

La donna fissava sgomenta i miei capelli arruffati, la gonna lacera e il sangue che macchiava la mia camicia di pizzo. Non mi aveva mai visto in quello stato.

– Quando mi hanno detto che avevi acquistato uno schiavo azrariano non volevo crederci – mi disse, con un filo di voce. – Hai buttato via i tuoi soldi e il sogno di andare ad Agri per cosa, mia cara?

Restando in silenzio osservai i suoi capelli grigi raccolti nella crocchia e l'abito scuro, severo, che rendeva il suo portamento ancora più rigido. Le mani bianche si torcevano leggermente all'altezza della vita.

Era... nervosa?

Mi raddrizzai asciugandomi gli occhi con la manica della camicia e guardai lo scrittoio alle sue spalle, un tavolo di media grandezza in legno di noce su cui era stata fissata una cassettiera con quattro vani.

Uno dei cassetti era leggermente aperto.

– Signora Kant – mormorai, avvertendo la sensazione di vuoto nella pancia farsi più pressante. – Signora Kant, perché uno dei cassetti del mio scrittoio è aperto? Sono sicura di averli lasciati tutti chiusi prima di uscire.

Lei fece un sospiro. – Mi dispiace, il barone...

Quando compresi, mi gettai giù dal letto con un salto e corsi al tavolo, mentre la governante si scansava per permettermi di esaminare la cassettiera.

– Sono vuoti! – esclamai, aprendo uno a uno i cassetti. – I miei gioielli non ci sono più!

Mancavano tutti, persino l'anello con lo zaffiro che Edmund mi aveva regalato solo pochissimo tempo prima.

– Il barone ha dato ordine che glieli consegnassi – mi spiegò la donna, mentre mi accasciavo sulla sedia davanti allo scrittoio, con la testa sul tavolo. Sentii a malapena la sua mano che mi sfiorava i capelli. – Però, Leda, ti consiglio di guardare bene nel tuo guardaroba, nella scatola di quel vestito demodé che non metti mai...

Trattenendo i singhiozzi la fissai per un istante, poi mi precipitai a fare ciò che mi aveva suggerito. Guardai tra le pieghe di un abito color porpora che era appartenuto alla defunta madre di Edmund e che lui aveva fatto sistemare per me. Lo avevo indossato solo una volta perché, malgrado le modifiche, si vedeva che era fuori moda: il busto appuntito sul davanti e il piccolo strascico della gonna erano chiaramente appartenenti a un'altra epoca. Così lo avevo riposto in una grossa scatola e lo avevo dimenticato nel guardaroba.

Fino a quel momento.

Tastai con le dita sotto il crespo di seta che scendeva sul bustino e tra le maniche piegate in modo ordinato e percepii sotto i polpastrelli la consistenza di qualcosa di duro.

Scansando il tessuto leggero, notai subito un bagliore che mi fece stringere gli occhi: alcuni dei miei gioielli, i più vecchi tra quelli che non avevo ancora venduto, occhieggiavano in mezzo allo chiffon. Ed erano tutti estremamente preziosi.

Scivolai a terra dopo aver riposto con cura la scatola nel guardaroba e stavolta piansi di sollievo. – La ringrazio tanto, signora Kant!

La donna annuì con un evanescente sorriso, poi mi si avvicinò per aiutarmi a rialzarmi. Quando fui in piedi mi tenne ancora per le braccia, senza decidersi a lasciarmi. – Leda, puoi dirmi una cosa? – mi domandò, con aria grave.

Io annuii, cogliendo la ruga inquieta che, tra le tante, segnava la sua fronte.

– Allora sii sincera con me: quell'Alato... è per Deneb che lo hai portato qui?

Mi bastò sentire quel nome per farmi divincolare con uno scatto. – No! – esclamai, immediatamente sulla difensiva. – Non è per lui!

La donna si strinse di nuovo le mani. – Io lo spero, mia cara. Ma, se è la verità, ti prego di fare moltissima attenzione: il barone potrebbe formulare lo stesso pensiero che ho fatto io. E sai quanto tale pensiero potrebbe disturbarlo...

Annuii di nuovo con la testa, sentendomi davvero stremata.

Acquistando Mizrael avevo compiuto un gesto sconsiderato, era vero, ma almeno di una cosa ero certa: Deneb non c'entrava niente con la mia decisione.

Non l'avevo fatto per lui: l'avevo fatto solo per me.


Non posso credere di aver già scritto quattro capitoli e 60 pagine di Word! Ebbene sì, questa storia sta spiccando il volo, soprattutto grazie a voi, che alimentate le mie idee semplicemente lasciando una traccia del vostro passaggio <3<3<3

Adesso devo proprio farvi una domanda: la storia la trovate un po' troppo cruda oppure la considerate nella norma? Una mia cara amica wattpadiana proprio ieri mi diceva in un messaggio privato che si aspettava di peggio, quindi da una parte mi sono sentita sollevata, dall'altra, trovandomi ancora agli inizi, mi sono interrogata su come gestire certi temi piuttosto seri come la dipendenza psicologica tra un "carnefice" e la sua "vittima" (si veda l'ambiguità del rapporto Leda/Edmund), lo schiavismo, le droghe o l'autolesionismo... Insomma, fatemi sapere come la pensate!

Detto ciò, gli sviluppi della trama stanno cominciando a prendere realmente forma. Immagino vi siate posti qualche domanda... Per esempio, perché Leda vuole andare a tutti i costi nella città-Stato chiamata Agri?

E, soprattutto, chi è il misterioso Deneb di cui si parla alla fine del capitolo?

Se non l'avete fatto, vi invito a dare un'occhiata all'ultimo post che ho pubblicato sulla mia pagina Instagram (tranquilli, anche chi non ha un account può andare a dare uno sguardo 😉) con il cast di "Bloody Wings", in cui si vedono anche personaggi che non hanno ancora fatto la loro comparsa, tra cui Deneb.

Io nel frattempo vi saluto. Al prossimo capitolo!


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