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Cap. IV Bagliori metallici Parte I

Probabilmente ero l'unica padrona a viaggiare nella stessa carrozza con lo schiavo appena acquistato. E per di più uno schiavo che sembrava la creatura più pericolosa esistente al mondo.

Oltre alla rete metallica che gli comprimeva le ali sulla schiena e i ceppi che gli stringevano i polsi, infatti, aveva anche catene alle caviglie e una sorta di cappuccio di cuoio con i soli fori in corrispondenza del naso, per consentirgli di respirare.

– Perché il cappuccio? – avevo domandato, costernata, al mercante di schiavi con l'anello di onice.

– Perché lo schiavo che ha appena acquistato è come un animale feroce. Potrebbe mordere il suo delicato collo fino a ucciderla. – Mi aveva osservata con attenzione mentre il mio sconcerto aumentava. – Ormai abbiamo concluso il nostro accordo e posso dirglielo onestamente: avrei visto questa creatura molto meglio in un serraglio di Nemea, ma non sta a me dispensare consigli. Gli affari sono affari, signorina!

Lo avevo assecondato finché mi aveva aiutato a raggiungere la mia carrozza insieme allo schiavo. Poi, dopo che c'eravamo congedati e Gideon si era preoccupato, tra mille imprecazioni, di far salire l'Alato all'interno della vettura, mi ero ripromessa di disfarmi di quell'orribile cappuccio.

Ma non mi ero ancora decisa a farlo.

– Leda, non mi sembra una buona idea che tu sieda sola con lui – mi aveva ammonita il giovane cocchiere. – Non credo sia prudente.

– E dove vorresti che lo mettessimo? A cassetta con te, esposto agli occhi della città intera? O magari legato sul predellino posteriore, come un enorme pacco?

Lui aveva scosso la testa davanti al mio tono irritato e si era limitato a chiudere lo sportello, sbuffando.

– Spero che tu sappia quello che stai facendo – lo avevo sentito borbottare.

Ma no, in realtà non lo sapevo. Mi ero buttata a capofitto in quella situazione da autentica sconsiderata. Forse l'eccessivo uso della morfina stava cominciando a ottenebrarmi permanentemente i sensi!

Con un sospiro mi passai le mani sulla faccia, coprendomi gli occhi. Non riuscivo a guardare l'uomo davanti a me, non in quelle condizioni.

Se ne stava leggermente scivolato in avanti e le lunghe gambe sfioravano le mie. Lo sentivo respirare in modo così concitato che temevo stesse per collassare.

Uno scossone della carrozza mi fece sobbalzare e cozzai con le ginocchia contro quelle dell'Alato, che a quel tocco si tirò indietro con uno scatto, sbattendo le ali contro lo schienale del sedile.

Percepivo in modo tangibile la sua angoscia, la sua paura. Minacciavano di divorare anche me.

Sembrava talmente inerme!

– Mizrael – lo chiamai, dopo aver fatto un respiro a pieni polmoni. – Adesso ti sfilerò via il cappuccio, mi hai sentito? Io... non credo alle parole di quello schiavista. Non sei un animale e sono sicura che non... che tu non...

Mi premetti ripetutamente le labbra con i denti, senza riuscire a completare la frase: come potevo dire a un uomo "sono sicura che non morderai"? Suonava talmente umiliante che non avevo il coraggio di pronunciare una simile frase.

– Insomma, adesso te lo tolgo – conclusi, tuttavia restai ferma qualche secondo a fissare il cappuccio che tremava al fremito del suo respiro. Là dove dovevano esserci le labbra vedevo il cuoio incavarsi e poi tendersi, come se lo schiavo stesse cercando di incamerare più aria possibile a bocca aperta.

Dio, doveva essere una sensazione terribile!

Eppure mi mancava ancora il coraggio di togliere il cappuccio. Quando l'azrariano mi avesse vista in faccia in che modo mi avrebbe guardata? Con rabbia? Con ferocia?

Temevo il momento in cui avrei rivisto i suoi occhi.

Oh, al diavolo!

Mi battei le mani sulle ginocchia con forza e mi sporsi un po' in avanti, prendendo tra le dita il bordo inferiore del cappuccio. Mandai giù una spina che mi si era conficcata in gola e, dopo aver contato mentalmente fino a tre, sfilai via l'indumento in un gesto rapido e deciso.

Mentre il sangue impazziva nelle mie vene, guardai la testa dell'Alato rovesciarsi all'indietro e gli occhi chiudersi nello sforzo di respirare profondamente. La sua pelle era imperlata di sudore, le guance arrossate.

Mi chiesi se stesse male, poi mi diedi della stupida: ma certo che stava male! Stava così male che provavo dolore anch'io, ma questa volta allo stomaco, non alla schiena.

Il tanto temuto momento in cui i nostri sguardi si sarebbero incrociati di nuovo sembrava non dover ancora arrivare. Così aspettai. Guardai le sue palpebre serrate, orlate dalle ciglia bionde, la gola esposta con le vene in rilievo che pulsavano in modo forsennato, lo spazio vuoto tra le clavicole, il tatuaggio sul pettorale sinistro, e aspettai.

Passata la paura di vedere l'espressione dei suoi occhi, restavano il nervosismo e... il desiderio.

Ignorando le fitte lungo la colonna vertebrale, provocate dalle asperità del terreno, cominciai a essere impaziente. Non sopportavo più quel silenzio immobile tra noi. Volevo che accadesse qualcosa, che potessi sentire il suono della sua voce, anche se si fosse trattato di insulti al mio indirizzo.

Desideravo che mi guardasse.

– Mizrael?

Adesso le labbra si erano accostate, pur senza chiudersi del tutto, e il petto si sollevava e si abbassava in modo più regolare. La testa era reclinata su una spalla e i capelli che stavano tornando al loro colore naturale ombreggiavano il viso.

Non capii se fosse addormentato o avesse perso i sensi. Sembrava comunque a pezzi.

Sapevo che gli schiavisti ricorrevano a molte tecniche per piegare un uomo o una donna, anche senza fare uso di strumenti che avrebbero potuto compromettere la fisicità della vittima. E non osavo immaginare quali di quei metodi fossero stati utilizzati sull'Alato.

Era stato già catturato e fatto schiavo una volta, eppure il suo corpo era privo di imperfezioni, eccetto i segni sull'avambraccio. Ciò significava che i sorveglianti della tenuta da cui proveniva non lo avevano mai frustato.

O era stato un lavoratore indefesso, bravo a non farsi mai cogliere in fallo e ad accettare senza ribellarsi la tracotanza dei padroni, o non aveva mai lavorato in una piantagione.

Mi morsi la punta del mignolo mentre avvertivo una piccola ruga pensosa scavarsi tra le mie sopracciglia.

Se non aveva mai lavorato in una piantagione, da dove veniva?

Spostando lo sguardo sul paesaggio oltre il finestrino, mi resi d'un tratto conto che stavamo attraversando già le proprietà del barone di His. Allora sporsi il braccio fuori per battere contro il tettuccio della carrozza. – Gideon! Non portarci alla villa, ma alle baracche! – gli ricordai.

Lui assentì con un piccolo grido e io mi rilassai sul sedile, respirando l'odore del cuoio misto a quello della mia cipria e a quello aspro, ma non sgradevole, che emanava la pelle dell'Alato.

Quando raggiungemmo i campi di papavero da oppio, il cocchiere fermò la vettura tirando le redini e accompagnando il movimento con un "oh" prolungato.

Ai margini dei campi sorgevano le casupole in cui alloggiavano gli schiavi. Alcune erano abbastanza spaziose, dotate di finestre e di un camino di mattoni, altre invece erano fatte di tronchi e dentro non c'erano mobili, ma un camino di fango e miserevoli stuoie sulle quali dormivano in assoluta promiscuità sia uomini che donne.

La differenza tra le strutture era dovuta alla volontà del barone di premiare gli schiavi fedeli e i migliori lavoratori, quelli che faticavano senza tregua, raggiungendo gli obiettivi produttivi nel minor tempo possibile.

Conoscevo quelle abitazioni perché quando ero una ragazzina a volte mi spingevo fin laggiù per trovare qualche compagno di giochi. Ma i figli più giovani degli schiavi guardavano i miei bei vestiti con sospetto e non capivano perché, pur vivendo con il barone e la baronessa, cercassi la loro compagnia.

Alla fine avevo trovato una mia coetanea con cui a volte passeggiavo, arrivando fin quasi al confine con le terre dei mezzadri. Era una fanciulla vivace, con neri capelli ricci e gli occhi scuri come l'ebano.

La nostra amicizia, se così potevo chiamarla, era durata un paio di mesi. Poi una mattina avevo scoperto che lei non c'era più: era stata venduta al proprietario di una piantagione a sud di Cartago.

Adesso non riuscivo a ricordare neppure il suo nome, ma a volte mi ero sorpresa a pensare che, anche se non avevo nessun marchio sull'avambraccio, se il barone si fosse stancato di me avrei potuto fare la sua stessa fine.

Se si fosse stancato o se fosse andato in collera a tal punto da non volermi più avere davanti agli occhi.

Guardando la figura inerte di Mizrael, fui attraversata da un brivido profondo che mi scivolò giù dalla nuca fino a solleticarmi le caviglie.

Come avrebbe reagito Edmund quando avesse saputo che io...?

Provando un improvviso senso di spossatezza chiusi un istante gli occhi portandomi una mano alla fronte, poi, quando lo sportello si aprì e comparve la testa bionda di Gideon, mi riscossi e scesi per potermi allontanare dall'abitacolo opprimente della carrozza.

– Ehi, Leda! – mi chiamò il ragazzo. – Il nostro amico, qui, sembra privo di sensi. Come pretendi che io, da solo, possa trasportare questo fascio di muscoli e ferro fino alle baracche?

– Non lo pretendo affatto – replicai mentre l'ossigeno mi mancava, malgrado mi trovassi all'aperto. – Cerca un sorvegliante o uno degli schiavi e fatti aiutare.

L'aria primaverile cominciava a essere irradiata dal calore del sole in modo intenso. Sotto il giacchino di lana e la camicia di pizzo, la mia pelle, schiacciata dal busto, aveva preso a prudere e a sudare.

Detestavo le stagioni calde per questa ragione.

Con la testa che mi girava leggermente barcollai fino a una quercia secolare sotto la cui ombra ero solita sdraiarmi anni prima, con la giovane schiava dagli occhi neri. Mi appoggiai al tronco slacciandomi i baveri della giacca e i primi bottoni della camicia.

Avrei bevuto volentieri un sorso d'acqua.

Dei passi pesanti attirarono la mia attenzione. Uno dei sorveglianti era smontato da cavallo e stava venendo verso di noi. Era un uomo giovane, sui trent'anni, dal fisico tarchiato e l'aria dura.

Non era una brava persona. Non si poteva esserlo se si usava la frusta quasi ogni giorno su altri esseri umani.

Era ciò che richiedeva il mestiere.

Mi lanciò un'occhiata portandosi due dita alla falda del cappello in cenno di saluto, poi si avvicinò alla carrozza, dove Gideon lo aspettava. Si girò con uno scatto a fissarmi dopo aver guardato all'interno della vettura.

– Signorina Leda! – mi gridò. – Cosa dobbiamo farne di questo... di questo schiavo?

– Portatelo dentro uno degli alloggi – dissi, distogliendo lo sguardo per premere la fronte contro la corteccia della quercia.

– Il barone è al corrente del suo... acquisto?

Il modo intermittente con cui mi pronunciava le sue inutili domande stava iniziando a infastidirmi. – Tu fa' come ti ho ordinato.

Premetti contro il tronco più forte, sentendo la pelle che si scorticava leggermente. – Fa' come ti ho ordinato – ripetei in un sussurro.

Non mi voltai quando sentii il suono del corpo di Mizrael che veniva trascinato di peso in mezzo all'erba fino a una delle casupole di legno. Restai immobile anche quando avvertii la presenza del sorvegliante alle mie spalle.

– L'Alato è dentro – m'informò. – Bisognerà fare in modo che si vesta: non può starsene mezzo nudo. E si dovrà togliergli i ceppi, ma dopo averlo marchiato...

– No! – gridai, girandomi di scatto verso di lui. – Niente marchi!

– È la procedura.

– Ho detto di no – insistetti. – Lo schiavo è mio, non del barone. C'è il mio nome sull'atto di acquisto.

– Però...

– È mio – ripetei. – E la decisione spetta a me.

Lui scosse la testa, poi mi porse un fagotto di stoffa di cui non mi ero accorta.

– Che cos'è? – domandai.

– I vestiti dello schiavo.

Li fissai confusa. – E cosa dovrei farmene?

– Glieli faccia indossare. Dovrà togliergli le catene e forse anche una parte della rete metallica per permettergli di vestirsi e io non ho intenzione di essere presente quando accadrà.

Nonostante gli ordinassi perentoria di entrare nella baracca o di chiamare degli schiavi che lo facessero al posto suo, mi voltò le spalle per allontanarsi.

Gideon, al mio fianco, sospirò contrariato. – Avere qui quell'Alato sembra che ti procurerà solo guai.

Non mi ero accorta della sua presenza, ma mi affrettai a tendergli i vestiti che sarebbero stati di Mizrael. – Dovremmo chiamare qualcuno che ci aiuti.

Ci aiuti?! – Il ragazzo scosse la testa. – Preferirei gettarmi in una fossa di leoni piuttosto che trovarmi a portata di ali azrariane! E comunque gli schiavi sono impegnati nei campi. C'è qualche vecchia nelle baracche, ma che tipo di aiuto ti potrebbe dare un'anziana schiava dal passo incerto e gli occhi velati dalla cataratta?

Io feci schioccare la lingua contro il palato, scuotendo a mia volta il capo. – Sei solo un codardo, Gideon! Dammi le chiavi, su!

Sospirando di nuovo, mi tese il mazzo di chiavi che avevo ricevuto dal mercante di schiavi e che poi avevo passato a lui. Io le afferrai con decisione e mi avviai verso la baracca in cui avevano portato Mizrael.

Era uno degli alloggi in cui vivevano come stipati diversi schiavi e l'odore acre di cui era impregnato mi fece lacrimare gli occhi. Poiché non erano presenti finestre, il sorvegliante aveva lasciato una lampada a olio accesa in un angolo e la luce prodotta si rifletteva sul volto pallido di Mizrael, che sembrava ancora incosciente.

Sdraiato su un fianco, aveva gli occhi socchiusi; da sotto le palpebre s'intravedeva solo il bianco della sclera.

Avanzai quasi in punta di piedi verso di lui, prima nervosa e poi terrorizzata all'idea che si svegliasse all'improvviso. Lo guardai dall'alto in basso stringendomi i suoi futuri vestiti al petto senza sapere che fare.

Non riuscivo ancora a credere di aver comprato un uomo. Un azrariano.

Pazza, pazza Leda!

Che cosa volevo dimostrare? Mi piaceva l'idea di poter disporre della vita di qualcuno? Potevo essere felice di avere tra le mani l'esile filo del destino di uno sconosciuto che non significava nulla per me?

Ma lui... lui significa qualcosa... Lui è speciale...

Lasciai cadere i vestiti a terra e feci oscillare le pesanti chiavi di ferro che avevo in mano, poi m'inginocchiai e, con le dita tremolanti come le vibrisse di un gatto, le infilai nella serratura di uno degli anelli che gli stringevano le caviglie. Il meccanismo scattò e l'anello si aprì. Ripetei l'operazione con l'altro, fino a liberargli anche l'altra gamba.

A quel punto avrei dovuto infilargli i pantaloni su quella specie di perizoma che gli avevano fatto indossare per esporlo alla casa d'aste.

Mi tolsi la giacca, restando in camicia, e mi passai una mano sulla faccia cercando di prendere fiato.

Non avevo mai toccato un uomo che non fosse il barone, ma in fondo dovevo vestirlo, non spogliarlo. Il mio improvviso pudore era assolutamente fuori luogo: non ero forse io che frequentavo il bordello chiamato Casa del Loto? Non ero io che giacevo ogni notte con il barone di His, assecondando qualsiasi suo desiderio, anche quelli che mi facevano sentire sudicia?

M'infilai le dita tra i boccoli, cominciando ad aprirli per poi intrecciare le ciocche di capelli nervosamente. Poi mi decisi.

Finché si trattò di far passare i piedi dell'azrariano nelle gambe dei pantaloni dalla forma comoda non ebbi grosse difficoltà. Immaginai di essere un'assistente del dottor Stheiner impegnata a occuparsi di un paziente e cercai di non pensare al rossore che mi era salito alle guance e alla pelle che sentivo liscia e tesa sotto le mie dita.

La situazione cambiò però notevolmente quando mi ritrovai a dover far salire l'indumento lungo le cosce e sotto le natiche.

Sentii il rossore che si allargava sul mio viso come una macchia d'olio e il fiato che accelerava in maniera incontrollabile. Le mie mani esitarono stringendo convulsamente il bordo dei calzoni, che ero riuscita a tirare su fin quasi all'inguine, poi lo lasciarono andare.

No, non posso! Dannazione!

Che il mio pudore fosse inappropriato o meno, c'era. E la sua ingombrante presenza mi spinse a tirarmi indietro e a voltarmi verso la porta per chiamare Gideon.

Quel pavido di un neococchiere mi aveva lasciata da sola a svolgere un lavoro che non spettava a me! Ero stata stupida a non insistere perché mi desse almeno una mano!

– Gid...

Il suo nome mi morì sulle labbra.

In un istante mi resi conto che il corpo di Mizrael si era irrigidito. Il busto aveva eseguito una torsione che aveva permesso a una gamba di disegnare un arco sopra la mia testa e subito dopo mi ritrovai con le sue caviglie incrociate dietro la schiena, all'altezza dei fianchi.

Abbassai lo sguardo, scorgendo le gambe dell'Alato che erano salite fino ad avvinghiarsi alla mia vita, facendomi curvare in avanti. Il tempo di trattenere il respiro e le braccia di Mizrael mi fecero scorrere dietro le spalle la catena che gli congiungeva i polsi. Quando tirò, caddi a pesantemente sul suo petto e i suoi occhi trasparenti mi fissarono per una frazione di secondo, poi, malgrado il peso della rete, mi rovesciò a terra, schiacciandomi sotto di sé.

Mi ritrovai premuta tra il suo corpo e la catena che aveva teso contro la mia schiena e, quando si mosse, provai un dolore tanto acuto che urlai come se mi stessero strappando la pelle.

Lui mi fissò sconcertato perché probabilmente non capiva il motivo di quel grido di dolore, ma non mollò la presa. Sentii tuttavia le sue mani che mi sollevavano leggermente e una specie di scintillio rese il colore acquamarina dei suoi occhi quasi liquido.

Mi disse qualcosa che non compresi; mentre scalciavo sotto di lui e m'inarcavo per tentare di sottrarmi inutilmente al dolore alla schiena, gemetti: – Non capisco la tua lingua...

In quel momento sentii qualcuno imprecare e vidi la figura di Gideon sulla soglia. Doveva essere accorso richiamato dalle mie urla.

– Di' al tuo amico di togliere la rete dalle mie ali – mi ingiunse l'azrariano. Aveva parlato in lingua generale, con un leggero accento straniero. Si schiacciò di più su di me e una scarica di dolore mi accecò sotto forma di lampo bianco. Urlai di nuovo, gettando la testa indietro e avvertendo il sangue scorrermi tra la schiena e il busto correttivo.

– Fa' come dice!

Gideon sussultò, poi cominciò ad avvicinarsi a noi con cautela. I suoi occhi scuri non si staccavano dalla figura dell'Alato, curvo su di me, né dalle sue ali imprigionate dalle maglie di ferro.

Si chinò lentamente per raccogliere le chiavi che avevo lasciato cadere e poi infilò la più corta nel meccanismo che chiudeva il catenaccio che univa i due margini della rete. Stava per allontanarsi, quando Mizrael gli intimò di fargli cadere tutta quella ferraglia dal corpo.

Sudando, il ragazzo obbedì e poi corse a ripararsi in un angolo quando le ali dell'azrariano si spiegarono con uno scatto, sibilando.

Mizrael si tirò su, lasciandomi finalmente a terra, libera di girarmi su un fianco.

– Le mani! – mi gridò. – Toglimi questi ceppi!

Ma le chiavi le aveva ancora Gideon e, quando se ne accorse, si levò in piedi puntando l'ala mutilata contro di me. Il trambusto proveniente dall'esterno, però, lo distrasse, così io potei alzarmi per correre verso il cocchiere, che mi prese per un braccio e mi trascinò fuori dalla baracca. Là s'era radunato un piccolo gruppo di persone: schiavi che brandivano roncole affilate e il sorvegliante che mi aveva dato i vestiti per l'Alato.

L'uomo puntava verso la porta della baracca un fucile.

– No, non sparare! – gridai, tendendo una mano verso di lui, ma l'uomo imprecò e dalla canna dell'arma partì un colpo.

Lo scoppio che si era udito dopo che aveva premuto il grilletto mi aveva fatto buttare in ginocchio, nell'erba. Percepii l'odore della terra e quello della polvere da sparo che impregnavano l'aria. Mi rialzai rapida, malgrado i morsi continui alla schiena, poi mi girai indietro, verso la baracca.

Mizrael era sulla soglia, con rughe di rabbia che gli raggrinzivano il ponte del naso e gli tiravano le labbra a scoprire i denti.

Mai come in quel momento le parole del mercante di schiavi dall'anello di onice mi parvero veritiere: "Lo schiavo che ha appena acquistato è come un animale feroce. Potrebbe mordere il suo delicato collo fino a ucciderla".

Eppure non volevo arrendermi.

Vedremo quant'è feroce un Alato!

L'azrariano era ferito, si teneva la spalla sinistra con la mano destra sporca di sangue, e respirava a fatica. Il volto arrossato come se avesse la febbre.

I suoi occhi caddero su di me, poi, quasi come se ci fossimo messi d'accordo, scattammo entrambi in avanti ma con obiettivi opposti.

Io raggiunsi il sorvegliante in pochi secondi, mentre Mizrael abbatteva con un rapido colpo d'ali il primo schiavo che gli si era parato di fronte. Mi voltai giusto in tempo per vedere l'uomo cadere a terra urlando, ancora con la roncola stretta in mano.

Il sorvegliante tentò di ricaricare il fucile, ma fu troppo lento.

Riuscii a tirarmi indietro proprio nel momento in cui le ali già striate di rosso dell'azrariano si abbattevano su di lui, aprendogli uno squarcio sul braccio.

Il fucile finì a terra mentre Mizrael si girava su se stesso, ferendo altri due schiavi che avevano cercato di colpirlo alle spalle.

Per una manciata di secondi restai immobile, a fissare il bagliore delle lamine esterne di quelle piume candide. Le vidi tingersi rapidamente di rosso e poi saettare di nuovo, rapidissime. Sembravano disegnare nell'aria scie metalliche che s'intrecciavano come i voli delle rondini.

Anche sporche di sangue, erano magnifiche. Magnifiche e letali.

Quando mi resi conto che stavano continuando a colpire, sollevando spruzzi scarlatti, un brivido mi scorse sotto il tessuto dei vestiti. Le mie dita strinsero con forza l'impugnatura della frusta di cuoio intrecciato che avevo sottratto al sorvegliante, poco prima che venisse ferito dall'Alato.

– Smettila! – gridai, sperando che lo schiavo ribelle mi ascoltasse. – Smettila subito o ti farai ammazzare!

Sentivo sulla schiena il sangue che intrideva la camicia di seta bianca e il respiro farsi più celere. L'immagine della torre che sorgeva nell'ala più antica del palazzo del barone prese forma davanti ai miei occhi, in modo tanto nitido da provocarmi quasi un conato di vomito.

Quello stolto si farà ammazzare e poi sarò punita per averlo portato io qui!

Non potevo permetterlo.

– Mizrael, basta!

Accarezzai la frusta, avvolta su se stessa nella mia mano come un serpente in letargo. Poi aprii leggermente le dita per srotolarla mentre portavo il braccio in alto.

Sentendo la fune di cuoio toccare l'erba, svolgendosi per formare un mezzo arco alle mie spalle, seppi che era il momento di distendere il braccio in avanti. Il movimento fu come un'onda delicata ma decisa, senza la frenesia che avrebbe potuto farmi sbagliare.

Il sibilo non sfuggì a Mizrael. Tentò di spostarsi, tuttavia la parte sottile della frusta fu troppo rapida: si avvolse intorno al suo polso, già imprigionato dall'anello di ferro, con uno schiocco.

Lui ringhiò di frustrazione. Tirò indietro entrambe le braccia per farmi sbilanciare, poi provò a liberarsi, tuttavia più strattonava, più la fune gli stringeva il polso.

Smettila di lottare, dannazione!

Recuperando la stabilità, tirai anch'io verso di me con tutta la forza che avevo. Lo colsi di sorpresa, riuscendo a farlo finire a terra.

Aveva perso sangue dalla ferita alla spalla, era stanco, provato, e non fu in grado di rialzarsi subito. Si mise in ginocchio poco prima che lo raggiungessi. Lo spinsi a terra premendogli un piede tra le scapole, subito dopo mi piegai su di lui. Mi misi a cavalcioni sulla sua schiena, inchiodandogli con le ginocchia le ali taglienti che sentivo lacerarmi la stoffa della gonna e raggiungermi la pelle.

Ignorando il dolore e la paura gli feci passare sotto il mento l'impugnatura della frusta, obbligandolo a tirare indietro la testa.

– Adesso basta – gli mormorai, chinandomi sul suo orecchio. – È finita...

Lui emise una sorta di rantolo, girando gli occhi per fissarli nei miei. Tentò di articolare suono, poi dovette desistere.

Spaventata, mi accorsi che il suo sguardo si stava appannando, così lasciai andare d'impulso la frusta.

– Leda, spostati! – Gideon torreggiava su di me. Aveva tra le mani la rete metallica che aveva imprigionato le ali di Mizrael e, non appena mi fui scansata, la gettò di nuovo sulla schiena dell'Alato, che non accennò alcuna reazione.

– Credo che stia davvero male! – esclamai, in preda al panico.

Il ragazzo mi fissò con aria grave. – Mai quanto le persone che hanno rischiato di finire tagliate a fette dalle sue ali. Guardati intorno!

Lo feci.

A terra c'erano una mezza dozzina di schiavi e il sorvegliante. Tutti perdevano sangue da vistose lacerazioni in diversi punti del corpo, anche se nessuno era privo di sensi.

Mentre deglutivo rumorosamente davanti a quello che avrebbe potuto essere un vero e proprio massacro, due uomini a cavallo ci raggiunsero: erano anch'essi sorveglianti. Restarono pietrificati a osservarci per qualche attimo, poi smontarono stringendo i loro fucili e si avvicinarono puntandoli contro l'azrariano.

– Che diavolo è successo qui?! – chiese uno dei due, senza smettere di tenere sotto tiro la testa di Mizrael.

Io avanzai verso di loro tendendo le mani. – Abbassate i fucili. L'Alato non è più in condizione di poter nuocere.

L'altro mi fissò da sotto le cespugliose sopracciglia grigie, poi scosse lentamente il capo. – Che adesso sia inoffensivo o meno non è così importante, signorina Leda. Quell'essere ha attaccato gli altri schiavi e un sorvegliante, a quanto vedo...

Il sangue mi montò d'improvviso alla testa, pulsandomi nelle tempie con la violenza di pugni scagliati ripetutamente. – Non dire altro! – l'interruppi, sapendo già come avrebbe concluso il discorso. – L'ho condotto io alla tenuta. Spetta a me decidere!

– Non a lei, signorina, ma al barone – ribatté l'uomo, senza perdere la calma. – È lui il padrone degli schiavi feriti e colui da cui dipende il sorvegliante a terra. A uno schiavo che si ribelli contro gli altri e contro i sorveglianti è destinata un'unica sorte. Conosce le nostre leggi, non è così?

– A-aspettate! – esclamai, mentre Gideon mi tirava indietro, prendendomi per la spalla. Ma i due sorveglianti stavano già mettendo in piedi l'Alato per poterlo caricare su uno dei loro cavalli. – Non potete portarlo alla torre!

– Leda – mi chiamò il cocchiere, al mio fianco. – Invece possono, e lo sai.

Mi girai verso il suo viso per fulminarlo con gli occhi, dimenandomi affinché mi lasciasse, tuttavia il ragazzo continuò a trattenermi con presa salda.

– C'è un'unica persona alla quale tu possa rivolgerti per ottenere ciò che vuoi – mi ricordò. – Ma dovrai essere estremamente brava a implorare. Prima che per quell'Alato, per te stessa.

Io mi coprii il volto con le mani, trattenendo il respiro. Poi abbassai le braccia e annuii.

– Portami dal barone, Gideon.


Ciao a tutti!

Grazie di aver letto anche questa prima parte del quarto capitolo di "Bloody Wings"! E grazie sempre per i commenti che mi lasciate e perché continuate a farlo malgrado spesso non riesca a rispondervi T.T

Le vostre parole mi aiutano sempre tantissimo!

Eh? Come? Sono ripetitiva? Dico sempre le stesse cose?

Sì, è vero, scusate X'D

Però dico solo la verità <3<3<3

Bene, allora adesso basta con le smancerie. Nei commenti allo scorso capitolo molte di voi hanno ipotizzato che Leda avrebbe regalato la libertà a Mizrael, ma, se anche fosse stato nei piani della ragazza (piani che non vi svelo ancora), la reazione inaspettata dell'Alato ha complicato ulteriormente le cose.

Mizrael sarà portato in una torre misteriosa che non promette niente di buono e Leda dovrà pregare il barone di essere compassionevole e di regalarle il perdono, visto il disastro che ha combinato.

Sarà perdonata? E il nostro angelo demoniaco che fine farà?

Lasciatemi qualche ipotesi, intanto vado a scrivere il seguito 😉


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