Cap. I Senz'anima
Il gioco a cui stavo giocando mi avrebbe condannata all'Inferno, lo sapevo. Prima o poi la mia anima si sarebbe persa... Anche se la signora Kant a volte metteva in dubbio che ne avessi una e faceva gli scongiuri quando le passavo davanti.
E il sospetto lo avevo anch'io mentre guardavo il sorriso dell'uomo di fronte a me, sorriso che sembrava potersi sciogliere come la cera di un lumino, consumato dalla sua stessa fiamma.
Avevo il fastidioso presentimento che quanto stavo facendo avrebbe tracciato una strada a senso unico, dalla quale non sarei riuscita a fare ritorno.
Se già non possedevo un'anima, tuttavia, le conseguenze non sarebbero state poi così disastrose. E quel pensiero aveva un che di confortante.
– Solleva l'orlo della veste – mi sussurrò lui, avvicinandosi di un passo.
Avrebbe potuto avere sì e no trent'anni e, a giudicare dall'uniforme, doveva appartenere al Terzo reggimento di cavalleria. Mi fronteggiava con gli occhi vacui, il labbro superiore luccicante di sudore sotto la peluria scura di una barba mal rasata.
Mentre stringevo nei pugni la stoffa della pesante gonna che mi scendeva ampia sui fianchi, fino a toccarmi le caviglie, lo guardai deglutire e perdere il sorriso un istante dopo, esattamente come avevo previsto. I suoi occhi seguirono il lento movimento delle mie dita che si avvitavano catturando il ruvido tessuto scuro della veste virginale. Nell'istante in cui l'orlo dell'abito si alzò a scoprire la sottogonna di mussola bianca, gli sfuggì una sorta di lamento soffocato, un singulto che mi spinse a immobilizzarmi.
– Non fermarti – protestò l'uomo, la voce roca che gli usciva a stento dalla gola.
Mi umettai nervosamente le labbra con la punta della lingua, bagnandomele di saliva. E non mi resi conto che quel semplice gesto istintivo non aveva fatto che eccitarlo di più. Mi piegai un po', sopportando l'ennesima fitta di dolore che mi correva dalle spalle e mi scendeva giù, lungo tutta la schiena. Afferrai l'orlo della sottogonna, tirandola fino a scoprirmi le ginocchia fasciate dalle calze in maglia di lana. Ancora un po' e sarebbero stati ben visibili i ganci del reggicalze e il lembo inferiore del corsetto.
– Tira su, più su... – La voce del militare, adesso, era tanto bassa che avrei potuto averla anche solo immaginata.
Lanciai un'occhiata al piccolo altare dell'Unico. La sua effigie nebulosa mi guardava severa da un trittico, dipinto da un ignoto artista di dubbio talento.
Mi conficcai i denti nel labbro. Sentii il merletto della sottogonna sfiorarmi il rettangolo di pelle della coscia sinistra, compreso tra l'orlo del busto e quello della calza. Mi accorsi trattenendo il fiato che l'uomo davanti a me non era più seduto, ma, piegatosi sulle ginocchia, aveva chiuso la sua mano sulla mia, costringendola a salire ancora.
Quando indietreggiai di un passo, facendomi nuovamente ricadere la gonna sulle caviglie con uno scatto, mi guardò quasi sconvolto.
– Non erano questi i patti – dissi, con il respiro leggermente irregolare. – Avevamo parlato di ginocchia. E nessun tipo di contatto fisico.
Lui mi fissò con gli occhi che mi sembrarono leggermente arrossati, poi si rimise lentamente in piedi, stringendo l'elsa della sciabola che spuntava fuori dal fodero appeso al cinturone.
– Ah, sì? Avevamo detto così?
Annuii, cercando di non indietreggiare ancora. Non volevo che capisse la mia repulsione e il desiderio di sputargli in faccia.
L'uomo si frugò in una tasca, poi ne tirò fuori una moneta e me la gettò ai piedi. – Comunque sia, resti sempre una sgualdrina. – Un sorriso sarcastico gli scoprì i denti in una sorta di ghigno derisorio. – Sgualdrina e storpia.
Mi passò davanti, sfiorando l'altare dell'Unico con il fodero della spada. Poi, girandosi indietro in un movimento talmente brusco da farmi quasi urlare, mi afferrò il viso con una mano, affondandomi i polpastrelli nelle guance. – Però! – sibilò, avvicinando la sua bocca alla mia, tanto che il suo fiato mi solleticò le labbra, sollevate in maniera innaturale dalla pressione delle sue dita. – Peccato per questo bel visino!
Poi mi spinse via facendomi sbattere la schiena contro il muro e uscì precipitosamente dalla stanza. Ignorando le fitte lancinanti che mi pungolavano tutto il corpo, mi staccai dalla parete e mi chinai a prendere la moneta da due dinari ai miei piedi, infilandomela nella tasca della gonna.
Strinsi i denti, trascinandomi pesantemente verso la porta. Ero abituata a convivere con il dolore da quando ero nata. Un dolore che a volte quasi non mi lasciava respirare. Che mi piegava in due, costringendomi a curvarmi e a zoppicare.
Uscii dalla stanza giusto in tempo per vedere il militare parlottare con la donna appoggiata al muro del corridoio; lei indossava un abito nero che le copriva ogni centimetro di pelle, portava i capelli scuri tirati severamente indietro e un lungo bocchino tra le labbra dipinte di rosso che odorava di tabacco.
– Com'è andata? – chiese all'uomo.
Lui la guardò tergendosi il sudore dalla fronte con il dorso della mano. – La prossima volta gradirei un'intrattenitrice che sia un po' meno piena di sé. E magari non storpia. – Le allungò una moneta, che la donna afferrò quasi con noncuranza, poi sbatté i tacchi degli stivali con ostentata galanteria e se ne andò di gran carriera, facendo svolazzare il mantello drappeggiato su una spalla.
Solo a quel punto la donna mi guardò e io abbassai gli occhi, ma solo un istante. Poi mi avvicinai a lei, lisciandomi le pieghe della veste. – Non ho mai capito perché tiene in ogni stanza un altare dell'Unico – le mormorai, appoggiandomi al muro anch'io e sperando che non notasse il mio sguardo disgustato.
– Perché sono molto religiosa. E anche molte delle mie ragazze lo sono, Leda.
Quando pronunciò il mio nome, mi girai per guardarla in faccia. Sebbene me lo fossi domandato spesso, non avrei saputo dire quanti anni avesse di preciso. Forse trenta, quaranta, chissà. Ma era una delle tenutarie di bordello più giovani e astute del Quartiere delle Catene e, come quelle delle altre case di piacere, era un'ex schiava riuscita a comprarsi la propria libertà.
Non conoscevo il suo luogo d'origine né il suo nome: si faceva chiamare semplicemente "Madam", come le altre proprietarie dei bordelli; quando parlava aveva un leggero accento straniero che la rendeva ancora più affascinante di quanto già non fosse, ma i suoi occhi grandi, scuri, rivelavano un'esistenza piena di sofferenza e di desiderio di rivalsa.
E sospettavo che somigliassero un po' ai miei.
– Dammi la mano – mi ordinò, soffiandomi sul viso il fumo biancastro del suo bocchino di pregiato osso intagliato.
Obbedii e lei mi fece scivolare nel palmo la moneta da cinque dinari appena ricevuta dal militare. – Per te – disse poi.
Aggrottai le sopracciglia, consapevole del rossore che aveva acceso le lentiggini sul mio naso e sulle guance. – Ho già ricevuto il mio... compenso, Madam.
Lei si allontanò il cannello d'osso dalle labbra e lo premette tra le dita affusolate della mano destra, mentre con la sinistra si teneva il fianco. – Anche se ti atteggi a puttana, non lo sei, Leda. Ti permetto di stare qui quando desideri, ma se il barone sapesse che prendo addirittura una percentuale sulle tue strane "prestazioni", penso che lo perderei come cliente e non posso permettermelo.
– Se il barone sapesse che vengo qui a fare quello che faccio – replicai, infilando la moneta da cinque dinari nella tasca, insieme all'altra – probabilmente mi chiuderebbe in casa per il resto dei miei giorni.
– E avrebbe ragione. – Madam mi scrutò assottigliando gli occhi, frangiati da lunghe ciglia ricurve. – Ti riempie di gioielli, eppure sembra che tu abbia un disperato bisogno di soldi.
Mi strinsi nelle spalle, cercando di raddrizzarle. – Me ne venderei qualcuno, ma il barone ha incaricato la signora Kant di verificare puntualmente che io li indossi tutti, uno diverso per ogni giorno della settimana o del mese.
Non le dissi che, a mano a mano che ne ricevevo di nuovi, avevo cominciato a vendere i più vecchi servendomi della collaborazione dei ricettatori più improbabili del Quartiere delle Catene. E avevo già messo da parte una discreta sommetta.
La donna si portò nuovamente il bocchino alle labbra. – La signora Kant? Sarebbe la tua governante?
– Sì – annuii. La donna che mi aveva visto crescere e che mi ripeteva che prima o poi avrei perso la mia anima, sempre che io non l'avessi già persa. Eppure fino a quel momento non aveva mai tradito il mio segreto... uno dei tanti che avevo e neanche il più importante. Mi permetteva di frequentare il Quartiere delle Catene e la Casa del Loto, in modo che io potessi guadagnare un po' di soldi all'insaputa del barone, soldi che fossero solo miei.
– Comunque, dolcezza, ricorda tutta la gentilezza che ti sto usando, quando un giorno ti chiederò di ricambiarmi il favore.
– Se sarò mai nella posizione di fare un favore alla potente Madam della Casa del Loto – mormorai, staccandomi dalla parete, e lei mi sollevò il mento con le dita della mano sinistra, guardandomi compiaciuta.
– Non dubito che lo sarai – dice, inclinando la testa da un lato. – E adesso va', torna a casa, o il barone si domanderà dove sei.
– Oh, no, non credo – ribattei, con un lieve sorriso amaro che mi spuntava sulle labbra. – Non oggi.
Madam cominciò a camminare, attraversando una serie di stanze comunicanti, e io la seguii. Cercai di non guardare le donne mezze svestite che intrattenevano i clienti nei salottini dagli eleganti divani di velluto color porpora. Non le guardavo non perché mi mettessero in imbarazzo, ma perché non volevo che si concentrassero su di me, invece che sugli uomini tra le loro braccia.
Coprii i miei appariscenti capelli rossi tirandomi il cappuccio del mantello sulla testa, di cui strinsi il bordo tra le dita. Cercai di camminare con la schiena dritta, senza trascinare troppo le gambe, malgrado il dolore mi facesse trattenere il fiato. I miei passi erano attutiti dai soffici tappeti che coprivano il pavimento.
– Allora, chi è la fortunata? – mi chiese Madam, una volta arrivata all'ingresso del bordello.
Io la fissai negli occhi senza riuscire a capire subito a cosa si riferisse, così lei precisò: – Hai detto che oggi il barone non noterà la tua assenza e ho immaginato che...
Lo scoppio di fuochi d'artificio, in lontananza, l'interruppe e io mandai giù un po' di saliva.
– Già – dissi. – I festeggiamenti hanno avuto inizio.
– Stavolta a chi tocca? – ripeté Madam, guardando oltre l'ampia finestra dagli infissi di legno laccati di bianco.
– Alla giovane sposa di uno dei mezzadri della tenuta del barone – risposi, abbassando la voce e la testa, mentre il cappuccio mi copriva il volto.
Un nuovo botto spezzò il silenzio della notte e una luce colorata rischiarò il cielo.
– Immagino che non sia facile da sopportare, per te. – Madam mi guardò mentre mi piegavo con un gemito per stringere i lacci dei miei stivaletti di vernice, ma io scossi la testa.
– Non vedo perché non dovrebbe essere facile da sopportare – risposi – se per la baronessa lo è. Lei è sua moglie, mentre io, invece...
Annodai i lacci con forza, poi mi raddrizzai, preparandomi a uscire dalla Casa del Loto.
Di me dicevano tante cose. Mi chiamavano in molti modi, ma quello che mi faceva meno male era "favorita del barone di His". Favorita, preferita. Una parola che sarebbe potuta apparire innocente.
Sempre meglio di "puttana del barone" o "storpia", "gobba". O di "viso d'angelo in quel corpo deforme", come mi avevano chiamata una volta due domestiche della tenuta, convinte che fossi troppo distante per sentirle.
Era stato il soprannome più orribile che potessero affibbiarmi, ma io avevo fatto finta di nulla per un po'. Poi, quando non ero riuscita più a tollerare la collera che mi divorava dentro, avevo preteso dal barone che quelle due giovani domestiche fossero licenziate, anche se erano state accuratamente selezionate e assunte direttamente dalla baronessa.
Avevo implorato, blandito, gridato e alla fine lui aveva ceduto. Perché ero la sua preferita e mi amava, a modo suo.
Quando le due giovani erano andate via, dopo aver restituito gli abiti scuri con i polsini bianchi rovesciati e le cuffiette inamidate, ero sulla porta della tenuta a fissarle. Le avevo guardate a testa alta, perché sapessero chi era stato a decretare la loro rovina, ma loro non mi avevano fissato con odio, come mi sarei aspettata.
Erano talmente disperate che non mi avevano guardato affatto e io ero andata a rinchiudermi nella mia stanza, in preda all'ira, spaccando ogni cosa che mi capitasse a tiro.
Prima di tutto avevo mandato in frantumi un prezioso specchio, così antico che la sua superficie riflettente deformava leggermente le immagini, e ne avevo distrutto la cornice intagliata, spargendo ovunque i frammenti di legno dorato.
Poi era stata la volta della poltrona di palissandro. Dopo averne spezzato le gambe, una a una, avevo strappato il velluto della seduta, tirandone fuori l'imbottitura per poi gettarla fuori dalla finestra, in una pioggia di cascami di filati e crine di cavallo.
Avevo urlato e pianto. In seguito, tremando, mi ero rannicchiata in un angolo con la fronte sulle ginocchia, cercando di ignorare il dolore alla schiena che mi incurvava costantemente le spalle.
E avevo odiato me stessa, così profondamente che per un attimo avevo pensato che non sarei più riuscita a guardarmi senza provare un profondo disgusto per la ragazza che ero. Così, quando alla fine mi ero calmata, avevo dato precise istruzioni che gli oggetti che avevo distrutto non venissero sostituiti.
Era per quello che nella mia stanza mancava la specchiera.
Erano gli occhi della signora Kant a sostituire qualsiasi tipo di specchio. Si occupava lei del mio aspetto: mi aiutava a vestirmi, mi acconciava i capelli, mi faceva fare lunghi respiri prima di stringermi il busto correttivo. Mi aveva insegnato a non urlare dal dolore quando sentivo la mia schiena schiacciata da quella gabbia rigida, costretta tra le stecche d'acciaio. A piangere in silenzio quando, durante alcune giornate particolarmente dure, stavo così male da non riuscire ad alzarmi dal letto per ore intere e maledicevo il dottor Stheiner per avermi costretta a portare quello strumento di tortura.
– Se lo togliesse, la schiena non tornerebbe più a posto – mi ripeteva l'uomo, ogni volta che veniva alla tenuta del barone per visitarmi. – E noi questo non lo vogliamo, vero?
Noi. Odiavo quando lo diceva, mostrandomi quel sorrisetto sotto i mustacchi ben curati.
– Fatti coraggio – mi sussurrava in un orecchio la signora Kant mentre il medico non sentiva, impegnato com'era a sistemarmi il busto bene aderente alle spalle, e io le conficcavo le unghie nella mano per il dolore. – La tua sofferenza un giorno verrà ripagata. Guarirai e potrai camminare a testa alta.
Ma sapevamo entrambe che sarebbe stato impossibile.
Nonostante i suoi modi bruschi, la signora Kant era quanto di più simile a una madre io potessi avere e cercava di consolarmi come poteva. Una volta, quando ero giunta da poco alla tenuta del barone ed ero solo una ragazzetta pelle e ossa che non aveva nemmeno cominciato a sanguinare, mi aveva accompagnata nel laboratorio di Stheiner; mostrandomi i feti deformi nei vasetti pieni di formaldeide, mentre attendevamo l'arrivo del medico, aveva sospirato: – A loro l'Unico non ha dato la possibilità di vedere il mondo, Leda. Tu invece sei viva, ed è questo che conta.
Avevo fissato a lungo, con gli occhi sbarrati, quelle figurine spaventose con le colonne vertebrali tanto contorte che la signora Kant diceva che le aveva toccate il diavolo in persona. Poi, quando il dottor Stheiner era arrivato e mi aveva teso la mano, dicendomi che era un piacere fare la mia conoscenza, avevo vomitato ai suoi piedi.
All'epoca ero ancora piuttosto sensibile.
– La prossima volta che capiterà da queste parti un cliente a cui piaccia solo guardare un po' te lo farò sapere, cara – mi congedò Madam, strappandomi ai miei pensieri, e io annuii.
– Ah, Leda! – mi richiamò un'ultima volta, prima che uscissi dall'edificio. – Ultimamente ti vedo davvero pallida e sofferente. Almeno... il barone è delicato quando vai a letto con lui?
– Oh, sì, mi tratta con tutta la delicatezza che merito! – sbottai, schernendomi.
La delicatezza di prendermi a faccia in giù. Ma almeno il dolore alla schiena, così, era sopportabile.
Lei scosse la testa, sbuffando una nuvola di fumo dall'odore penetrante. – Per qualunque problema o necessità, sai dove trovarmi.
Seguii con gli occhi la sua silhouette femminile che si allontanava ancheggiando, poi uscii dalla Casa del Loto respirando il tipico odore di sapone per bucato misto alla lisciva.
I fuochi d'artificio che provenivano, lo sapevo, dalle proprietà del barone di His continuavano a esplodere, riempiendo il cielo della sera di colori intensi. A ogni botto gli uccelli, spaventati, volavano come impazziti levandosi dai rami degli alberi o dai nidi sotto le grondaie delle case.
Attraversai i vicoli del Quartiere delle Catene osservando i panni che, malgrado il sole fosse già tramontato, qualcuno aveva lasciato stesi alle corde che andavano da un edificio all'altro, sui due lati opposti della strada. Erano allineati come denti bianchi nella bocca di un gigante, pronto a ingoiare quel peccaminoso pezzo di Cartago dove l'odore acre dei bordelli si mischiava a quello penetrante delle fumerie d'oppio e a quello di sudore e cuoio delle case d'aste dove si smistavano gli schiavi.
Il quartiere era uno dei tanti che, oltre ai postriboli, alle fumerie e alle case d'aste, ospitava anche la parte povera della popolazione della città: le casupole in cui vivevano braccianti, impagliatori e manovali sorgevano in maniera disordinata lungo vicoli a raggiera che parevano costituire uno dei centrini lavorati a filet della signora Kant, ma sudicio e irregolare.
Le finestre di edifici diversi a volte erano tanto vicine da toccarsi quasi e le pareti coperte di escrementi di piccioni sembravano poter crollare da un momento all'altro su chi si trovasse a passare per quelle strade più simili a budelli.
Le carrozze non avevano abbastanza spazio per attraversarle, per questo, malgrado non fosse raccomandabile girare a piedi in quei luoghi dopo il tramonto, ero costretta a farlo.
La signora Kant storceva il naso ogni volta che mi vedeva indossare l'unico abito scuro del mio guardaroba sulla migliore biancheria che avessi e il mantello, preparandomi a uscire.
– Leda, Leda... – mi richiamava, scuotendo la testa. – Dov'è la ragazzina innocente che arrivò qui con gli occhi che brillavano, nonostante le avversità?
Forse qualche brandello di quella bambina esisteva ancora, in qualche angolo sperduto della giovane amante del barone di His.
Ma la maggior parte di lei era svanito quando, già pochi giorni dopo che avevo urlato dal terrore nel ritrovarmi per la prima volta le cosce sporche di sangue, l'uomo che ai miei occhi era stato un benefattore mi aveva fatto scoprire, nel più brutale delle maniere, cosa significasse diventare una donna degna delle sue attenzioni.
Fino a quel momento avevo scioccamente creduto di poter un giorno chiamare padre quell'aristocratico dai modi eleganti che mi aveva sottratta alla vita in un monastero tra le colline di Cartago. Era là che avevo trascorso tutta la mia giovane esistenza di bambina esposta ad appena poche settimane dalla nascita.
In mezzo a tante ragazzine sane, il barone aveva scelto proprio me. Aveva ammirato il fuoco che accendeva i miei capelli, gli occhi grandi nel viso latteo, verdi come prati di montagna, e non aveva quasi fatto caso al modo in cui mi muovevo, trascinandomi faticosamente sotto il peso del dolore che mi schiacciava.
Non mi aveva chiamata "piccola storpia" come a volte facevano le monache o, peggio ancora, "mostriciattolo", come facevano le altre educande.
Mi aveva teso la mano e aveva sorriso dicendo che mi avrebbe fatto vivere per sempre negli agi, che non mi avrebbe fatto mai mancare nulla e, soprattutto, mi avrebbe aiutata a guarire.
Gli avevo creduto.
Benvenuti ufficialmente nel mondo di "Bloody Wings"!
Avete fatto la conoscenza della protagonista, giovanissima ma cresciuta in fretta in un mondo decisamente duro, che deve ancora svelarsi. Mm? Come dite? Che questa storia non vi sembra una storia fantasy? Beh, dovreste andare avanti con la lettura, però, se non avete mai letto niente di mio, il dubbio è lecito! Non mi sento portata per il fantasy con tutte le caratteristiche del genere bene in evidenza. Dovrete avere un po' di pazienza, perché anche se quello descritto è un mondo fantastico, popolato da due razze in guerra – umani e Alati – mi piace dargli una patina di realismo 😊
Come avrete potuto capire, Leda vive un'esistenza tragica e non appare come l'eroina senza macchia della situazione. Al contrario, si dibatte tra atteggiamenti di dubbia moralità e un desiderio di rivalsa nei confronti della sua condizione assai poco felice. Oltre a soffrire fisicamente, infatti, custodisce dentro di sé segreti e demoni che l'affliggono costantemente, spingendola ad agire in modo discutibile.
Nella seconda parte del capitolo emergerà ulteriormente il suo spirito tragico e forte insieme, quindi mentre aspetto i vostri commenti vi do appuntamento al prossimo aggiornamento (si spera domani).
P.S. Vi avevo detto sia su Instagram che nello spazio autrice del prologo che "Bloody Wings" sarebbe stata una storia dai toni un po' "crudi", ma so che c'è di peggio, quindi... Boh, fatemi sapere! Comunque siamo solo agli inizi 😉.
Spero di ritrovarvi per la seconda puntata XD
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