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57. spazio

STAZIONE SPAZIALE COLLINS - 12 LUGLIO 4574 DEL CALENDARIO TERRESTRE


Ian non ricordava di preciso quando avesse chiuso gli occhi l'ultima volta. Gli capitava spesso di sentirsi disorientato al suo risveglio, un effetto collaterale dei sedativi che gli venivano iniettati per spegnere i suoi poteri sin da quando era un infante. Riconobbe, tastandola, la divisa aderente in tessuto tecnico grigio scuro che gli era stata fatta indossare al di sotto della tuta spaziale. Era comoda come una seconda pelle, eppure al tocco aveva un che di ruvido.

Percepì vagamente il ronzio elettrico tipico dei dispositivi digitali, come anche il soffio a malapena udibile delle valvole per l'aria che regolavano il corretto afflusso di ossigeno nella stanza. Gli sovvenne all'improvviso di aver sentito quello stesso suono prima di addormentarsi, ancora su Nepher, subito dopo aver incrociato lo sguardo di Thomas Havel per l'ultima volta.

L'intorpidimento causato dai farmaci se ne stava lentamente andando, scivolandogli via di dosso come una miriade di formiche che gli percorrevano il corpo. Si rese conto in quell'istante che, nonostante il mercenario pel di carota non fosse con lui a cancellare i suoi poteri, c'era silenzio. Ma era un silenzio diverso da quello a cui era abituato: era più simile a una bolla, come stare sott'acqua. Anche le sensazioni che riusciva a percepire erano contenute, assurdamente normali nella loro semplicità. Si sentiva ovattato persino nei movimenti, ricordando solo dopo qualche attimo di confusione che quello strano effetto era dovuto alla diversa gravità.

Ancora rintronato, Ian si guardò attorno più attentamente registrando in un angolo del suo cervello che c'era qualcosa di sbagliato. La stanzetta in cui stava era poco più grande di uno sgabuzzino, fatta di freddo metallo lucido color antracite. In alto, al posto del lampadario, c'era una striscia di led nascosta nell'incavo tra le pareti e il soffitto. Ian se ne stupì più che di ogni altra cosa, rimanendo affascinato dal lento pulsare della luce verdognola che gli ricordava il battito di un cuore.

Provò a muovere i piedi, realizzando di essere steso su una brandina. Non se ne era accorto fino a quel momento, così si mise a sedere con un colpo di reni. Dimentico dell'addestramento ricevuto prima della partenza, il giovane si ritrovò a galleggiare a qualche centimetro dal letto, tenuto saldamente da alcune cinture di sicurezza che lo ancoravano a esso: si era dato troppa spinta. Le slacciò con cura, incuriosito dal fatto che le cinghie non producessero rumori forti, e con cautela si posizionò meglio sul materassino che, si accorse, sembrava fatto d'acqua o di un composto simile al gel.

Prese un respiro, lento e misurato, tentando di riacquistare il controllo del proprio corpo che pian piano si stava risvegliando. Dal mare di nebbia che gli rintronava la mente si fecero strada timidi ricordi e una vaga sensazione di déjà-vu, portandolo pian piano a riconoscere quel luogo che aveva un che di familiare e al contempo di alieno.

Era sulla COLLINS.

Ed era da solo.

"Ma-mamma?"

Si stupì di come la sua voce risuonasse all'interno della stanza: non fastidiosa, bensì atipica. Non c'era abituato. Persino nel laboratorio che gli faceva da casa, a Makt, non aveva mai sperimentato una cosa del genere, nonostante abitasse in una stanza isolata da qualsiasi rumore esterno.

Thomas cancellava le sue capacità spegnendo i suoi recettori ipersensibili. Lì, però, erano accesi: allora come mai non provava dolore?

"Ben svegliato, Ian."

La voce vagamente robotica di MINSKY attirò la sua attenzione. Ian sbatté le palpebre, preso in contropiede, e si girò a destra e sinistra cercando di localizzare il punto dal quale l'intelligenza artificiale doveva aver parlato. Si sentì un ingenuo quando realizzò che l'aveva fatto dall'interno del dispositivo che portava al polso, una semplice striscia di vetro trasparente che gli faceva da bracciale. Sembrava in tutto e per tutto fatto dello stesso materiale dei cellulari che conosceva, però invece di essere un rigido pezzo di vetro sembrava morbido, in grado di piegarsi e seguire i suoi movimenti senza dargli fastidio.

Sulla sua superficie era apparso il logo della stazione spaziale in caratteri olografici: quattro anelli, disposti uno di fianco all'altro con una porzione in comune tra loro e attraversati da una retta orizzontale.

"C-ciao."

"I tuoi parametri vitali sono stabili," continuò la AI imperterrita. "Nessun picco sensoriale rilevato. Recettori del dolore nella norma."

"Dove... dove sono tutti?"

"Dai miei registri, la persona assegnata alla tua supervisione è Monika Quicksilver. Al momento si trova nel laboratorio cinque del dipartimento di medicina."

Quella risposta non risolveva affatto i suoi dubbi, anzi. Non lo stupì sapere che sua madre non fosse nei paraggi: era abituato a immaginarsela impegnata a condurre ricerche anche a casa, intenta a studiare qualche nuova tecnologia o ad analizzare campioni biologici.

Non che sapesse davvero di cosa si occupasse nello specifico, in realtà, ma l'ammirava moltissimo. Era una scienziata, almeno da quanto aveva capito da Dietrich, e questo gli bastava per fidarsi di ogni cosa lei gli dicesse. Anche se non passavano molto tempo assieme, ora che si trovava tutto solo in una stanzetta angusta, grigia e metallica, sentiva il bisogno impellente di correre da lei. Probabilmente sua madre l'avrebbe sgridato per questo, magari sostenendo che era colpa di Dietrich se alla sua età era ancora così bisognoso di attenzioni, e il pensiero lo trattenne dallo scattare in piedi. Quello, e la consapevolezza che se l'avesse fatto sarebbe schizzato sul soffitto.

Ian sospirò. Tutti, nella sua famiglia, erano persone estremamente indipendenti e in qualche modo solitarie, abituate alla distanza sociale tra loro e di conseguenza poco avvezzi a stringere legami con chiunque. E, in fondo, da genitori come Alexei e Monika non ci si poteva aspettare una prole priva di difetti: il governatore era così gelido da sembrare un automa, atteggiamento che riservava in particolare alla famiglia, mentre la sua consorte passava più tempo con complessi macchinari di analisi che con i suoi figli. Non sorprendeva, quindi, scoprire che Dietrich facesse talmente pena a relazionarsi con gli altri da sembrare una bestia selvatica piena di spigoli e che Katrina vivesse chiusa nella sua camera rifuggendo ogni tipo di contatto fisico.

Lui, invece, pur essendo il superumano difettoso del casato, sotto sotto non si sentiva messo così male come i fratelli dal punto di vista sociale, timidezza a parte. Una spiegazione in merito Ian ce l'aveva: al contrario di loro, era cresciuto circondato da persone che si dovevano prendere cura di lui. Per Ian la solitudine non era un'opzione, visto che necessitava dell'aiuto di altri per sopravvivere.

Aveva sempre giustificato il comportamento della sua famiglia pensando che fossero semplicemente troppo abituati a stare soli, isolati nelle profondità di Makt a causa della sua particolare condizione. Anche se Dietrich l'aveva sempre negato, in cuor suo Ian si sentiva responsabile per la vita che li aveva costretti a vivere. Aveva visto nei ricordi del fratello il piccolo se stesso sotto esame, intubato, chiuso in stanze sempre più asettiche e sempre più profonde nel corso degli anni. Ma aveva visto anche il cielo, sprazzi di colore ed edifici magnifici che dovevano appartenere al fuori, alla città che non aveva mai visto con i propri occhi, ma solo con quelli degli altri.

Forse non l'avrebbe mai potuta visitare di persona, non senza una cura per tenere a bada i suoi sensi impazziti. Lo sapeva da sempre, da ancor prima di partire per lo spazio, eppure, ora che si trovava lì tutto solo, quella consapevolezza lo agitò.

"E dove... dove si trova il dipartimento?" chiese dopo qualche minuto di silenzio cercando di farsi coraggio.

Una mappa olografica apparve davanti ai suoi occhi proiettata dal bracciale. Sembrava un oggetto tridimensionale vero e proprio ma, passandoci la mano attraverso, Ian si rese conto che era solo un'immagine fluttuante. La figura animata era strana, quasi aliena per lui: si trattava di un grosso cilindro rotante, nel quale erano infilati quattro anelli. All'apparenza sembravano sconnessi dal corpo centrale, invece, osservando meglio, per ognuno di loro si potevano notare quattro ponti sottili disposti a raggiera.

I due più in alto si colorarono di verde e la scritta MED apparve sopra di essi accompagnata da due frecce sottili dello stesso colore. Subito dopo, un pallino rosso si illuminò all'altro capo del cilindro rotante.

"La tua attuale posizione è nei dormitori dell'equipaggio. Per raggiungere il dipartimento di medicina, segui il percorso evidenziato in rosso."

Una linea tratteggiata apparve al termine della frase, congiungendo il pallino pulsante al ponte più vicino del primo anello. Ian notò solo in quell'istante che i due corpi verdi, nonostante fossero entrambi sotto la targhetta MED, erano isolati tra loro.

"Come mai sono staccati?"

MINSKY rispose illuminando gli anelli uno alla volta, partendo da quello più in alto. "Laboratorio MED-01: laboratori di analisi microbiologiche e DNA. Laboratorio MED-02: area medica e infermeria."

Il superumano aggrottò le sopracciglia. Quei paroloni sembravano messi lì apposta per confonderlo, ma si sentiva in imbarazzo a chiedere all'AI cosa significassero di preciso, così annuì fingendo di aver compreso. La cosa importante era che MINSKY gli avesse indicato il laboratorio corretto: sua madre si trovava nel numero due.

"Oh. Ehm, gra-grazie, MINSKY."

"Prego."

Facendo molta attenzione, Ian scivolò giù dal letto ritrovandosi a galleggiare nella stanza. La differenza di gravità non era esagerata rispetto alla terra, permettendogli di fluttuare a pochi centimetri dal pavimento e muoversi come immerso in un liquido. Si diede la spinta usando come appiglio la struttura metallica della branda e quello che pareva essere un piccolo armadio dalla parte opposta, ricavato da lamiera piegata in modo artistico e illuminato in modo curioso da variopinte luci a led.

Quando raggiunse la porta quasi vi si schiantò contro, nonostante avesse preso le misure per non esagerare con la forza. Cercò la maniglia, ricordando parte dell'addestramento: erano a chiusura ermetica per isolare correttamente le varie camere della stazione; perciò, bisognava ruotare il meccanismo di apertura con cautela in senso orario. Quando ci provò, però, non riuscì a tirare correttamente a sé il portellone, che sembrava pesantissimo. Più tirava e peggio era, così capì che il problema era la mancanza di un contatto col terreno. Decise di puntellare i piedi contro la parete, aggrappandosi alla maniglia come una scimmietta e spingendo con le gambe. Il suo visetto magrolino si imperlò di sudore, ma il piano funzionò: una striscia di luce gli diede il benvenuto dal corridoio che congiungeva la sua stanza a quella del resto dello staff.

"Avresti potuto attivare gli scarponi magnetici," intervenne MINSKY con tono gentile. A quelle parole Ian divenne color aragosta, ricordando che ai piedi indossava dei dispositivi in grado di ancorarsi, grazie al magnetismo, alle superfici metalliche della nave.

"Volevo... beh, mi piace di più galleggiare," replicò, imbarazzato.

MINSKY non rispose, nemmeno quando il portello della camera di Ian si richiuse alle sue spalle con un sommesso tlack. Il Melnyk cercò di capire come spostarsi lungo il corridoio: qualche appiglio in giro c'era, ma erano disposti in modo da rendergli la vita difficile. Era cresciuto molto in quell'ultimo periodo; eppure, rispetto a un adulto normale era ancora troppo piccolo per raggiungere comodamente i corrimano che pendevano dal soffitto e fuoriuscivano dalle pareti. Si aggrappò a quello alla sua destra, ostinandosi a non attivare il dispositivo magnetico, e si diede la spinta con le braccia per lanciarsi in avanti.

Mentre volava in quel meandro di grigio e luci azzurrognole, Ian si accorse che su ogni portello c'era un'etichetta con il nome dell'occupante. C'era una striscia colorata vicino al tastierino numerico di ognuna e ricordò che serviva a identificare l'appartenenza del personale ai vari dipartimenti. Non sapeva di preciso quali fossero gli altri due, ma era sicuro che quello di medicina era contrassegnata dal verde. Anche i due cerchi concentrici ricamati sul suo petto all'altezza del cuore erano di quel colore, simbolo che era un membro del dipartimento soprannominato MED.

"Gira a sinistra," lo avvertì MINSKY un attimo prima che il bivio in fondo al corridoio entrasse nella sua visuale. Ian si diede un'altra spinta e seguì il suo consiglio, sbucando dopo poco in uno spiazzo luminosissimo.

"W-woah...!"

"Benvenuto sulla stazione spaziale COLLINS, Ian Melnyk."

Il grigio della lamiera non sembrava più così ostile, lì, grazie alla miriade di luci nella grande sala. Disegni colorati proiettati da display a ologrammi e faretti rallegravano alcune pareti spoglie, mentre delle strane strutture a forma di parallelepipedi trasparenti si ergevano qua e là. Ian le guardò meglio, realizzando che si trattava di contenitori per piante: al loro interno si potevano vedere piccoli alberelli e persino fiori, che con la loro umidità bagnavano i vetri di timide goccioline. Alcuni erano disposti in modo più artistico di altri e una sottile foschia li rendeva delle strutture davvero interessanti da ammirare.

Il ricordo non suo di Makt gli tornò alla mente, avvicinando a quelle costruzioni i container che si occupavano di ripulire l'aria della città. Ringraziò col pensiero suo fratello per averglieli mostrati, fornendogli la conoscenza sufficiente a capire che anche lì sulla COLLINS quelle scatole piene di piante non erano solo ornamentali: servivano soprattutto a rifornire la stazione di aria. Anche tutte quelle luci, ora lo ricordava, avevano la doppia funzione di garantire alle piante di crescere e proliferare, scaldandole e illuminandole a sufficienza.

La cosa più bella di tutte, però, era che quella grande sala non era affatto vuota. Diversi membri dello staff andavano avanti e indietro, indaffarati, alcuni muovendosi come lui e altri camminando con fatica. Beandosi di quel leggero brusio per niente fastidioso - e chiedendosi ancora una volta com'era possibile per lui non provare alcun dolore e non percepire le sensazioni di ogni persona su quella nave - Ian si ricordò di un avvertimento. Durante l'addestramento gli avevano consigliato di non abituarsi troppo alla gravità ridotta, pena un errato sviluppo del suo scheletro e un indebolimento dei suoi già scarsi muscoli. Gli scarponi erano d'aiuto in quel senso, obbligando chi li attivava a fare un po' più di sforzo e di conseguenza attività fisica, così da tenersi allenati anche senza frequentare assiduamente l'area palestra.

Si appuntò mentalmente di visitarla più tardi: per il momento preferiva nuotare nell'aria.

"L'accesso al ponte tre per l'area MED-02 è più avanti," lo avvisò MINSKY facendolo concentrare sulla sua missione. Guardò la mappa ancora una volta, proiettandola davanti a sé e cercando di trovare dei punti di riferimento... senza successo. Prima di gettare la spugna, notò con la coda dell'occhio la scritta luminosa PONTE 3 affiancata dai soliti cerchi verdi concentrici che rappresentavano il dipartimento di medicina, posta al di sopra di quello che sembrava un tunnel. Era lì dove doveva andare.

Il viaggio verso l'anello MED-02 fu più breve del previsto. Si era immaginato di impiegarci più tempo, stando alle dimensioni della stazione nella mappa olografica; invece, gli erano bastate una manciata di spinte ben assestate per lanciarsi a tutta velocità lungo il tunnel e sbucare di fronte all'ingresso del laboratorio.

Per un pelo quasi non si schiantò contro la parete esterna dell'anello, segno che era arrivato al capolinea.

Meglio se attivo gli scarponi, si disse, piegandosi per accendere il sistema di ancoraggio magnetico che illuminò i suoi stivali di un tenue verde luminoso e facendolo aderire al pavimento metallico senza un suono. Si sentì subito più pesante e al contempo più saldo. Con fatica, si avvicinò all'ingresso dell'area medica e osservò il portellone: era anonimo, tondo e un pochino spaventoso. Gli ricordava i denti di uno squalo disposti a raggiera.

"Come... come entro?" chiese, timido, avvicinando il bracciale alla bocca e bisbigliandoci dentro. Proprio in quel momento si accorse di un pezzo di vetro rettangolare che se ne stava di lato, sulla parete. Capì che doveva essere il dispositivo d'accesso ancor prima che glielo dicesse MINSKY.

"Avvicinati al display e appoggiaci la mano contro," rispose l'AI. Il ragazzino eseguì l'ordine e lo schermo di vetro si illuminò dello stesso verde dei cerchi sul suo petto. Il portello si spalancò senza emettere suono, cosa che fece spaventare il Melnyk: non era abituato a quel silenzio.

All'interno del laboratorio si era aspettato di vedere strutture all'avanguardia, macchinari enormi e un sacco di gente in camice; invece, notò solo un paio di persone bardate nella sua stessa tuta grigia dai bordi verdi e un lungo corridoio che separava a metà la sala. A destra si entrava nelle salette dell'infermeria, isolate le une dalle altre, mentre a sinistra c'erano gli uffici e le sale operatorie. Si chiese per un istante come facesse a saperlo: era la prima volta che entrava in quel luogo, come mai gli sembrava di averlo già visitato?

"Ah, Ian, ben svegliato!" Lo accolse una ragazza dai capelli rossicci raccolti in due piccole treccine laterali che le arrivavano appena sopra le spalle. Era alta e aveva un viso gentile, un paio di occhiali dalla montatura spessa e lilla ad ammorbidirle l'espressione. A Ian parve di riconoscerla, eppure non sapeva dire come mai.

"Uhm... cia-ciao?" rispose, frenando l'istinto di indietreggiare. Aveva sempre preso in giro Katrina per quel suo modo di fare schivo che la faceva somigliare a un animaletto spaventato; eppure, adesso era lui a comportarsi nello stesso modo, per niente in grado di ostentare la spavalderia e la sicurezza che tanto ammirava in suo fratello maggiore.

"Ti porto da tua madre. Sei stato bravissimo ad arrivare qui da solo!"

"Mi ha aiutato MINSKY, a dire il vero."

"Prego," si intromise l'AI, strappando un sorriso a entrambi.

La ragazza non si presentò, così Ian si convinse di averla già vista e di essersene dimenticato. Senza farsi notare, cercò di leggerne il nome appuntato sul taschino del camice lanciandole di tanto in tanto delle occhiate di sottecchi. Lo stava guidando attraverso la sala grigia e, sebbene avrebbe dovuto prestare forse più attenzione al percorso e ciò che gli stava attorno, la sua attenzione era tutta rivolta a quel maledetto nome.

E poi, lo lesse: Saskia Gabor.

Che nome strambo, pensò Ian, ripetendoselo nel cervello più e più volte per cercare di stimolare qualche ricordo ancora addormentato dai farmaci.

"Eccoci, siamo arrivati," annunciò Saskia arrestandosi di fronte a una porta grigia. Quella si aprì grazie a un suo tocco al display, rivelando l'interno di un piccolo ufficio ugualmente asettico. Una semplice scrivania metallica con una ordinata serie di cassetti magnetici se ne stava sulla destra, mentre dall'altra parte Ian notò una poltroncina reclinabile imbottita in morbido tessuto azzurro, attorno alla quale erano collegati una serie di vassoi e cavi dall'aria spaventosa. A guardarla meglio, però, il giovane si rese conto che erano solamente degli strumenti medici di vario tipo, messi lì a supporto delle varie operazioni che il chirurgo avrebbe potuto compiere al bisogno. Un piccolo flash gli illuminò la memoria: era come se fosse già stato seduto su quella sedia, ma non ricordava di aver subito interventi.

"Dottoressa Quicksilver, suo figlio è sveglio."

"Grazie, dottoressa Gabor," rispose Monika con un sorriso gioviale accogliendo i due all'interno della stanzetta con un cenno del capo. Era seduta alla scrivania, intenta a visionare alcuni documenti dall'aria difficile che scorrevano sul display traslucido del suo tablet. Ian ci lesse solo numeri e formule chimiche, del tutto incomprensibili per lui.

"Allora vi lascio, avrete sicuramente tanto da dirvi. A più tardi!"

Quando Saskia uscì dall'ufficio, Ian si sentì improvvisamente solo. Forse era troppo abituato a essere seguito da Thomas per rendersi conto che era del tutto normale trovarsi a tu per tu con sua madre.

"Mamma, perché non sento nulla?"

Monika sorrise a quella domanda. "Perché l'esperimento è riuscito, tesoro. Siamo nello spazio, lontani dalla moltitudine di persone che ti tormentavano su Nepher."

Ian corrugò le sopracciglia, confuso. Da quanto ne sapeva lui, sì, lo spazio era vuoto e di conseguenza i suoi poteri non avrebbero potuto rubare le sensazioni di altri esseri viventi, ma questo avrebbe funzionato solo se fosse stato solo soletto in mezzo al nulla. Invece, si trovava su una stazione spaziale in cui respirava senza bisogno di una maschera e, seppur con fatica a causa della diversa gravità, camminava come su Nepher. Cosa ancora più importante, poi, non era da solo, bensì circondato da persone che, come lui, non indossavano respiratori né dispositivi che proteggessero le loro menti dalla sua e viceversa. Com'era possibile che il solo trovarsi nello spazio riuscisse ad annullare le sue capacità di superumano?

"Non... non ho capito. L'esperimento era solo arrivare qui?"

"Oh, certo che no. Non è sufficiente isolarti, lo sappiamo già. Ma i nuovi farmaci che ti stiamo dando funzionano."

Monika sorrise avvicinandosi a lui con fare protettivo. Gli mise una mano sulla spalla, salendo poi ad accarezzargli con tenerezza una guancia. Ian si stupì ancora una volta di non essere bombardato da input sensoriali, proprio come se ci fosse il mercenario Harvel lì con lui a tenerli a bada.

"Sono dei soppressori, tesoro, che cancellano i tuoi poteri."

"Ma... quando me li hai dati? Non so nemmeno quando siamo arrivati, mi sono svegliato poco fa e..."

Monika lo guardò con aria interessata, quel genere di interesse da scienziato e non da genitore. Prima di rispondergli si voltò, appuntò qualcosa sul suo tablet con dei rapidi tocchi e solo quando ebbe finito tornò a guardare il figlio.

Ian lesse solo effetto collaterale #32: perdita di memoria prima che lei spegnesse il display.

Si agitò immediatamente e decise di non fingere di non averlo visto.

"Numero trentadue, mamma!? Che altri effetti hanno questi farmaci? Cosa mi stanno facendo?"

Sentì il suo cuore accelerare i battiti all'improvviso, le guance avvampare e le mani sudare ghiaccio. Dentro di sé la sensazione che qualcosa non andasse si era fatta prepotente, ma non credeva che sarebbe stato tradito da sua madre. Si chiese in un picco di lucidità se quel pensiero fosse suo o un frammento della memoria di Dietrich, del suo solito atteggiamento di scarsa fiducia verso il prossimo. O, ancora peggio, se fosse un ricordo di avvenimenti passati e dimenticati a causa del farmaco.

"Stai tranquillo, Ian, è tutto sotto controllo. Non ti stiamo nascondendo nulla, puoi chiedere ogni cosa a MINSKY: chiarirà ogni tuo dubbio," disse Monika cercando di calmarlo. Il suo tono di voce era dolce, controllato, eppure lui era spaventato. Per fortuna non stava cercando di toccarlo, non più: era indietreggiato senza nemmeno accorgersi, rifuggendo il contatto con lei come una bestiola impaurita.

"MINKSY, da quanto tempo sono sulla COLLINS?"

"Cinque mesi e ventitrè giorni."

Ian si sentì mancare a quella notizia: era lì da così tanto, eppure per lui era come se fosse passato solo un giorno o due da quando aveva chiuso gli occhi, ancora su Nepher, pronto per imbarcarsi sulla nave spaziale che l'avrebbe condotto lì.

Guardò sua madre, sconvolto. "Quando è stato l'ultimo giorno che ci siamo incontrati? Da quanto tempo non ricordo...?"

"Ci siamo visti tre giorni fa, in occasione della somministrazione di una nuova dose. Ma non è la prima volta che dimentichi qualcosa. Solo che non avevi mai scordato così tanto... qualche giorno, al massimo una settimana."

Monika si voltò, incurante del fatto che suo figlio fosse ancora sotto shock per quell'informazione. Digitò di nuovo qualcosa sul tablet, analizzando rapida la mole di dati che, ora Ian lo sapeva, riguardavano lui.

"Bisognerà cambiare il dosaggio di—"

"Torneranno?" chiese Ian, prepotente. "I miei ricordi. Torneranno?"

La madre lo guardò, sorpresa dalla sua interruzione. Cercò le parole in silenzio e Ian seppe che stava per dirgli qualcosa di spiacevole nel modo meno doloroso possibile.

"Credo di no, tesoro. Ma potrai fartene altri!"

"E se... e se dimenticassi tutto? Se dimenticassi te, Trina, Dietrich? Se dimenticassi chi sono?"

Aveva vissuto per anni in sonno chimico a causa dei suoi poteri senza potersi creare un'infanzia. Poi, era stato Dietrich a donargliela pian piano, a farlo uscire dal suo guscio farmacologico. Se avesse perso di nuovo tutto, sarebbe andato in pezzi.

Avrebbe preferito urlare dal dolore fino a squarciarsi la gola piuttosto che dimenticare quei pochi sprazzi di normalità che aveva vissuto fino a quel momento.

"Farò in modo che non succeda, tesoro. Fidati di me."

Quelle parole avrebbero dovuto tranquillizzarlo, invece lo agitarono. Perché Monika le aveva già dette, prima che dimenticasse tutto ancora una volta.

"Non ti credo!" sbraitò, indietreggiando ancora fino a toccare con la schiena l'inquietante poltroncina da operazione dietro di lui. "Nemmeno tu sai cosa state facendo, nemmeno tu puoi controllare questi effetti! Non è vero? Non è vero, mamma!?"

"Adesso calmati, Ian, vedrai che si risolverà tutto—"

"Stammi lontana!"

La stazione si paralizzò per un breve attimo. Richard Hook, che in quel momento era impegnato in una sessione di corsa in palestra, si accartocciò su se stesso in preda a un dolore lancinante in un angolo del cervello, tale da farlo gridare e rotolare giù dal tapis roulant in un tripudio di lividi. Yasmine Al-Said, ricercatrice dell'area bellica adibita allo sviluppo di nuove tecnologie, lanciò un grido nel versarsi addosso una tazza di cioccolata bollente a causa dello stesso stiletto pulsante nella mente, dicendo addio tra le lacrime allo schermo del computer su cui stava lavorando. Persino Saskia Gabor si accasciò sul pavimento, scossa da brividi mentre si teneva la testa dolorante, proprio come Monika Quicksilver e tutti gli altri abitanti della COLLINS, tutti nello stesso istante, tutti al grido di Ian.

Lui, però, non sapeva cosa fosse appena successo. Non sapeva che aveva appena gettato al di fuori il suo potere soppresso dai farmaci, in un'onda potentissima di energia che aveva toccato ogni individuo sulla stazione.

Non lo sapeva finché non irruppero nello studio due guardie bardate nella stessa tuta aderente grigia che indossavano tutti, stavolta decorata con delle righe gialle invece di verdi.

"Non fategli male!" li pregò Monika arrancando nel tentativo di rimettersi in piedi. "Se lo spaventate è peggio, vi ricordate l'ultima volta!?"

La scarica elettrica colpì Ian prima che potesse metabolizzare quell'ultima informazione correttamente. Quindi è già successo, si disse, realizzando di aver provocato lui quell'onda di dolore. Sono pericoloso, per questo mi stanno sedando.

Vide sua madre, la vista già offuscata dai sensi che pian piano si stavano addormentando a causa dell'elettricità, corrergli incontro spaventata. "Se danneggiate il soggetto, che ne sarà degli esperimenti!?"

Ah, è così, allora. Sono solo un esperimento...

Poi, la sua coscienza scivolò lentamente in un altro lungo sonno.

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