Sergey Hugos (I-1)
Anno 197
Ora, Sergey aveva l'età di ventitré anni. Non era né troppo alto, né troppo basso. Lunghe ciocche marrone scuro, spesso raccolte e spostate sopra la spalla sinistra, gli incorniciavano il viso, candido come la neve, nel quale spiccavano, sotto le scure, marcate sopracciglia, due brillanti occhi verdi come acini d'uva, inquieti, tremanti; come le esili mani, mai un attimo ferme. Il piccolo naso conferiva al viso una certa eleganza e la bocca, stretta e pallida, era fattrice di austerità. Sergey vestiva sempre con una vecchia casacca di un rosso piuttosto spento regalatagli da Radomir, un grande amico di lunga data. Quell'indumento era troppo largo per il giovane Ser, dato che era appartenuto da anni e anni alla famiglia dell'amico, inconfondibile per la stazza. Ma lui l'indossava lo stesso, forse in segno di riconoscenza o di ammirazione. Sotto la casacca, che ogni tanto teneva chiusa e ogni tanto aperta, portava spesso una maglietta bianca, che nascondeva, specie durante la fredda stagione, con una calda, vecchia sciarpa di lana, dal colore di un papavero. La spessa, rigida cintura sorreggeva un paio di vecchi, larghi, pesanti jeans blu, che coprivano in gran parte anche le scarpe, che se si fossero viste al primo colpo, non se ne sarebbe indovinata la sfumatura lattea, da quanto erano sporche. Sergey lavorava in una piccola bottega per la riparazione di oggetti usati, da lui comunemente chiamata «lo studio», poco distante da casa.
Se c'era una cosa di cui Sergey aveva una tremenda e incontrollabile paura, era la solitudine; quella, e perdere la posizione di leader che si era accollato in quanto primogenito.
Quel sentimento cozzava con l'autorità che Oskar esercitava sulla loro famiglia e su tutto il quartiere, come se fosse suo. Oskar... quella sorta di criminale sicuramente aveva in qualche modo spinto Ylenia al suicidio, senza dubbio, pensava Sergey, guardando il mondo dalla finestra aperta in camera sua e di Kiki, mentre si accendeva l'ultima sigaretta. Non ci voleva pensare. Chiuse gli occhi. La prima persona a balenargli in testa fu Rosalia, figlia di Radomir e più o meno sua coetanea: caspita, quanto l'amava e quanto era bella! Le sue lunghe, morbide ciocche bionde profumavano così tanto che Sergey se le sarebbe volute mangiare ogni volta che gli accarezzavano il viso, e quegli occhi così freddi e chiari da incutere timore; le mani, lisce e delicate, pronte quasi a graffiarlo... e dire che era una fortuna, che suo padre fosse il suo migliore amico! La cosa lo faceva sentire un raccomandato, ma in fondo, forse era naturale che andasse così. Gli uscì una lieve risata, che fece alzare una nuvola di fumo più densa delle altre.
Pensò poi, però, che non bisognava perdere tempo a gongolarsi. Si stavano avvicinando le cinque e di nuovo, il pensiero di Oskar tornò nella sua mente. Gettò la sigaretta dalla finestra, lasciando che si spegnesse da sola. Si guardò in giro, certo che nessuno lo stesse spiando. Il piccolo Kiki dormiva beatamente nel letto, come era solito fare dopo la scuola.
Sergey si avvicinò a lui.
«Kiki, svegliati. È l'ora di andare».
Niente: Kiki continuava a dormire.
«Kiki, non mi far urlare. Svegliati, o arriveremo troppo tardi. Dobbiamo andare».
A quel punto Kiki sbadigliò e si stiracchiò.
«Andare... dove?»
«Zitto! Fai piano! Lo sai che è un segreto!»
«Oh, sì! Giusto!»
«Bene. Ora preparati, mentre avviso gli altri».
Kiki annuì, alzandosi.
Dannazione, quei maledetti incontri. Una volta a settimana gli abitanti del loro quartiere si incontravano per discutere riguardo a Oskar. Compresi i sette Hugos – portavano il cognome della madre, per non fare confusione – erano in tutto sei famiglie ad abitare una zona della città prevalentemente campestre.
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