I
- Non è possibile Armand, la situazione ci sta sfuggendo di mano; è completamente fuori controllo. –
Seduta sulle scale, relegata nell'angolo più buio per non farsi notare, Katherine ascoltava la discussione tra i suoi genitori. Andavano avanti da più di un'ora ormai e l'argomento era piuttosto chiaro: lei.
Fin da quando si erano trasferiti in quella vecchia villa in stile coloniale, aveva cominciato ad avere incubi assurdi. Sogni che finivano con l'avverarsi sistematicamente. Aveva sempre brutte sensazioni di notte, specialmente quando si trovava a guardare fuori dalla finestra, in direzione della vecchia villa diroccata da cui erano separati da poco più di un ettaro di terreno. Anche ora, mentre ripensava a quella sinistra costruzione, un brivido freddo le corse lungo la schiena. Era assurdo, lei non era mai stata il tipo di ragazza che si spaventava per una stupidaggine del genere; fin da piccola era conosciuta per il suo sangue freddo e la capacità di affrontare le situazioni senza lasciarsi prendere dal panico. E adesso invece si ritrovava a tremare come una ragazzina spaurita; se non avesse distintamente percepito l'oscurità, il sentore di malvagità che veniva da quella casa, si sarebbe messa a ridere e avrebbe decretato di essere diventata completamente pazza.
- Lo so Selene, ma le passerà; hai sentito cosa ha detto il dottor Franklyn: è solo questione di tempo. –
Povero, ingenuo, papà.
Il dottor Franklyn era lo psicologo da cui i suoi genitori l'avevano spedita quando aveva confidato loro il senso d'angoscia che provava e gli incubi che le impedivano di dormire. Le avevano detto che era il miglior specialista della città, sarebbe sicuramente stato in grado di aiutarla. La diagnosi era stata: paranoia e una certa predisposizione agli attacchi di panico; le aveva prescritto delle pillole e un po' di riposo, vietandole persino di tornare a scuola finchè non fosse del tutto guarita. Fin qui sarebbe anche andato tutto bene, se non fosse che era ormai in cura da più di sei mesi e non si registrava alcun miglioramento. Katherine sapeva bene quale fosse il motivo: le medicine funzionavano con chi era davvero malata, ma lei stava bene. L'oscurità che percepiva era reale, doveva esserlo.
- Sono passati sei mesi, non credi che sarebbe il caso di mandarla da tua madre? –
Spedire una paranoica a Salem, la terra delle stranezze? Wow, certo che i suoi genitori avevano proprio uno strano modo di tranquillizzare le persone. Non udì la replica di suo padre, ma sentì il rumore della tastiera del cordless e dedusse che doveva star componendo il suo numero di telefono. Lo sentì parlottare sottovoce, finchè non chiuse la conversazione e aprì la porta della cucina.
- Kat, tesoro, potresti raggiungerci? –
Abbandonando il suo strategico punto d'ascolto, scese rapidamente la rampa di scale ed entrò in cucina, puntando gli occhi castano scuro in quelli chiari del padre.
- Allora, nonna Ursula ha deciso di ospitarmi? – domandò, sorridendo gelidamente davanti alle loro espressioni sorprese.
- Come... -
- Faccio a saperlo? Semplice, sapevo che prima o poi vi sareste sbarazzati della pazza... che poi, in effetti, sarei io – concluse, puntandosi un dito contro il petto con aria fintamente sorpresa.
Armand e Selene si scambiarono un'occhiata, evidentemente indecisi su come affrontare la questione.
- Noi non pensiamo che tu sia pazza, tesoro. –
Katherine alzò gli occhi al cielo, ridacchiando sarcasticamente. Credevano davvero che non sapesse cosa pensassero di lei? Glielo leggeva negli occhi, perché era toccata proprio a loro una figlia difettosa?
- Risparmiati la recita, papà, vado a fare la valigia. Partirò per Salem domani mattina, non disturbatevi ad accompagnarmi – decretò, uscendo dalla cucina e proseguendo a passo spedito verso la sua camera. Recuperò il piccolo set da viaggio e cominciò a riempirlo alla rinfusa. Non le importava di sgualcire gli abiti, avrebbe avuto tutto il tempo di stirarli una volta che fosse arrivata a destinazione. Dopo aver richiuso con più forza di quanta fosse necessaria l'ultimo trolley, lo sguardo le cadde sulla finestra, che affacciava sul lato del giardino che separava la loro abitazione dalla casa dei suoi incubi.
- Addio, stupida casa infernale – borbottò, chiudendo le tende con uno scatto e sedendosi sul bordo del letto. Non aveva neppure un po' di sonno, ma stare chiusa lì dentro era l'opzione migliore; non avrebbe sopportato di sentire per l'ennesima volta i suoi genitori che la esortavano a non avercela con loro. Come diavolo poteva non avercela con una coppia di adulti che invece di affrontare i problemi si limitavano ad allontanarli?
Recuperò il portatile e inviò una richiesta di videochiamata. Un ragazzo biondo, dagli occhi verdi e l'aria allegra, comparve sullo schermo. Era Axel Murter, suo migliore amico dai tempi dell'asilo.
- Ehy, Kitty Kat – l'apostrofò, chiamandola con il nomignolo che le aveva affibbiato la prima volta in cui si erano incontrati.
- Axel – salutò asciutta, scrutando con aria assorta la stanza alle sue spalle. Era una camera dalle pareti di un bianco immacolato, non c'era la minima ombra dei poster delle band rock che era solito ascoltare. - Sei ancora a casa di tuo zio? –
- Affermativo, una noia mortale. –
Il broncio con cui aveva dato la risposta le fece scappare un sorrisetto divertito. Quel ragazzo era un vero e proprio terremoto, sprizzava energia e buon umore da tutti i pori e sicuramente non aveva proprio nulla a che vedere con la grigia Seattle, né tantomeno con il "Generale" Murter.
- Sicuramente la tua estate sarà migliore della mia; i miei hanno deciso di spedirmi dalla "Señora". –
Axel gemette solidale. La nonna di Katherine, soprannominata la Señora per le sue origini latine e il suo atteggiamento dispotico, era quello che si sarebbe tranquillamente potuto definire come una versione femminile e messicana di Adolph Hitler.
- E pensano che basti la presenza di tua nonna per mettere in fuga i tuoi incubi? – scherzò.
Roteò gli occhi con l'aria di chi preferiva evitare di ripensare alla stupidità dei ragionamenti dei suoi genitori. Cielo, erano così ottusi!
- Suppongo che la demenza senile cominci a farsi sentire. –
Axel ridacchiò, per poi farsi improvvisamente silenzioso; sembrava in ascolto di qualcosa.
- Credo che il Generale stia venendo a controllare che me ne stia tranquillo e a letto. Chiamami appena arrivi a Salem e saluta quell'amorevole vecchina da parte mia – aggiunse, sogghignando con ironica malizia.
- Le dirò che l'hai chiamata così. –
Finse un'espressione terrorizzata, scuotendo la testa con vigore.
- Non oseresti mai. Ti prego, l'anziana signora sarebbe capace di fulminarmi con la forza del pensiero. –
Katherine ridacchiò, per poi mordicchiarsi il labbro, fingendo di essere indecisa sull'accontentarlo o meno.
- Non saprei, devo ancora decidere se graziarti o meno. Ad ogni modo ti lascio, non vorrei che il Generale ti appendesse a testa in giù fuori dalla finestra. –
Con un'ultima risata e un sospiro del ragazzo, la videochiamata venne chiusa e lo schermo del portatile tornò a mostrare lo sfondo del desktop, completo di tutte le decine di cartelle che aveva aperto nel corso degli anni. Lo spense, riponendolo nella custodia insieme all'alimentatore della batteria e depositando il tutto sul trolley più grande. Indossò la camicia da notte di Victoria's Secret e si accoccolò sotto le coperte, affondando la chioma nera come la notte nel cuscino. Cercò di rilassarsi e di imporsi di prendere sonno il prima possibile. Aveva deciso di partire per Salem intorno alle sette, in modo da essere sicura di non incontrare i suoi genitori, ragion per cui doveva essere più che riposata per percorrere le novanta miglia che separavano Orange dalla sua meta.
Finalmente, proprio mentre cominciava a prendere in considerazione l'idea di contare le pecore, il sonno vinse la rabbia e la frustrazione che provava nei confronti di quella situazione e fece il suo ingresso nel mondo dei sogni.
Stava correndo in un bosco, le foglie le si attaccavano ai piedi nudi e i rami le graffiavano le braccia, ma non le importava; l'unica cosa che contava era correre... sapeva che se si fosse fermata sarebbe stata la fine per lei. Saltò un tronco, tirando la camicia da notte che si era incastrata e aprendo un profondo spacco lungo un fianco.
- Da questa parte, è andata di là. –
- Presto, libera i cani, la fermeranno loro. -
Le urla dei suoi inseguitori la raggiunsero, spronandola ad allungare ancora di più la falcata. Sentiva i latrati dei cani... erano vicini, troppo vicini.
- Forza, forza, forza – mormorò, incitandosi a proseguire quella folle corsa.
D'un tratto si arrestò, fermandosi sul ciglio di un burrone. Non poteva crederci, aveva sbagliato strada ed ora era in trappola. Stava per voltarsi e cercare una via di fuga quando il passo le venne sbarrato da un massiccio cane da caccia. L'animale la fissava con aria gelida e ringhiava cupamente.
- Presto, sembra che Hunter l'abbia trovata. –
- Dannazione! –
- Isobel? Isobel, sei tu? –
Scandagliò la boscaglia alla ricerca di chi l'aveva chiamata; lo individuò dietro al tronco di un albero, perfettamente mimetizzato nell'oscurità grazie ai suoi abiti neri.
- Ah, sei tu – sospirò sollevata, raggiungendolo e lasciandosi trascinare con lui.
La condusse in una caverna poco distante, nascosta ad occhi estranei dalla vegetazione fitta.
- Hai trovato anche lei, bel lavoro Anton, ora mettila con le altre. –
Con le altre? Di che accidenti stavano parlando? Poi d'un tratto le vide, rannicchiate l'una accanto all'altra, le spalle appoggiate contro il muro in pietra e gli occhi carichi di paura e rancore: Vivien e Charlotte, le sue sorelline.
Cercò di ribellarsi, ma la presa di Anton era troppo forte e usare la magia era fuori questione, non avrebbe mai potuto niente contro gli stregoni che erano presenti in quel luogo.
- Anton, ti prego... Ti prego – afferrò la manica del ragazzo e lo guardò con aria implorante. Colse la scintilla colpevole nel suo sguardo e le sembrò che esitasse.
- Fatti da parte, ragazzo, ci penso io. –
Le mani del ragazzo vennero sostituite da un paio decisamente più familiari. Incontrò due occhi scuri e ardenti come tizzoni; non poteva crederci, non era possibile che proprio lui, tra tutti, la imprigionasse.
- Non puoi farlo sul serio. Sei nostro padre... siamo sangue del tuo sangue – gli strillò in pieno volto, dedicandogli la migliore delle sue occhiate sprezzanti.
A nulla valsero le sue grida, unite a quelle delle sorelle che lo esortavano a lasciarle andare. Venne spinta nell'incavo della grotta, accanto a Charlotte che piangeva sommessamente e a Vivien che sembrava sotto shock.
- Non mi avete dato altra scelta. Passerete il resto della vostra vita in questa caverna, private dei vostri poteri. –
Un singhiozzo più forte provenne dalla più piccola delle sorelle.
- Siamo le tue figlie, come puoi farci questo? –
- Vi avevo avvertito, bambine mie, questa è l'unica soluzione; non possiamo permettere che andiate in giro a causare altri guai. –
L'uomo si rivolse poi agli stregoni alle sue spalle, un uomo e una donna.
- Possiamo cominciare. –
- Sei sicuro di volerlo fare, Sabin? – s'informò lo stregone alla sua destra, guardandolo con espressione corrucciata.
- È l'unico modo, Salem. –
L'uomo annuì e, dopo aver preso per mano la donna e l'amico, diede inizio all'incantesimo di confinamento.
- Con la runa del Nord, chiamo l'Acqua a lavare i vostri corpi dalla magia; con la runa dell'Est chiamo l'Aria a spazzare via il ricordo della vostra esistenza. Con la runa del Sud chiamo il Fuoco a purificare i vostri corpi dall'Oscurità che avete scelto di seguire; con la runa della Terra vi vincolo in questo luogo. Infine, con il Sigillo dello Spirito, piego le vostre esistenze al volere degli Elementali. –
Isobel chiuse gli occhi, avvertendo la magia che mano a mano lasciava il suo corpo e cercò di appigliarsi ad essa, di impedirle di abbandonarla. Fu tutto inutile, una manciata di secondi e si ritrovò a terra, stremata per lo sforzo fatto e con la sensazione di essere completamente svuotata.
- È finita – annunciò Salem, allontanando la mano dall'apertura della caverna e rivelando una pietra circolare, sospesa per aria, su cui era inciso il Sigillo dello Spirito.
I tre uscirono dalla grotta senza degnare di un'altra occhiata le tre ragazze.
- Padre, padre ti prego... Padre, torna subito qui e tiraci fuori! – strillò Isobel, abbandonando il tono di supplica e tornando alla sua solita voce carica d'aspettativa, il tipo di chi era abituato a dare ordini e ad aspettarsi di vederli eseguiti.
- Sabin Deveraux, come osi ignorarmi! Torna immediatamente qui! –
- Lascia perdere, Isobel, è finita. Non riusciremo mai ad uscire di qui – mormorò Vivien, poggiando una mano sulla spalla della sorella, che se la scrollò di dosso con un gesto brusco.
- È finita quando lo decido io e credimi, Vivien, posso assicurarti che conosceranno la mia furia. –
Detto ciò individuò un tratto sporgente della parete rocciosa, vi passò sopra un polso dall'aspetto esile e lasciò che la pietra le aprisse un piccolo taglio. Prima che l'ultimo barlume di potere lasciasse il suo corpo, pronunciò la sua ultima maledizione.
- Che le colpe dei padri e il sangue versato ricadano sui figli e sulle generazioni future. –
- Questa non è la fine, sorelle mie, è solo l'inizio – annunciò, mentre un sorriso maligno le si dipingeva sul bel volto dai tratti lievemente affilati.
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