XVII: Litigioso trasferimento
"Ti tengo il letto caldo" Rileggo ancora un'ultima volta l'sms di Miguel, arrivato in tarda mattinata, proprio all'ora di pranzo. Rosso e corrucciato, lascio passare almeno una decina di minuti prima di replicare.
"Ho già iniziato a mettere via la mia roba. Dove e quando ci vediamo?" Ormai il messaggio è già inviato, perciò mi affretto a specificare: "Non a casa dei nonni".
Il suo messaggio è immediato. "Dove e quando vuoi, io ci sarò."
"Verso le sei. Ti invio la posizione."
"Ok" Poi spengo il cellulare e quasi col fiato sospeso attendo che l'ora X arrivi.
Non ho molto con me, perché sono partito leggero anche prima di trasferirmi a Sunset Lane: il mio armadio è una modesta raccolta di qualche felpa, una manciata maglioni e due paia di pantaloni. Tutto entra in un borsone a tracolla, che mi fa sbandare e inclinare il corpo a destra quando cammino.
Con le cuffiette nelle orecchie e Wonderwall degli Oasis sparata in testa, l'idea di starmi per infilare nella tana del lupo non sembra nemmeno tanto tremenda. Alzo la testa verso il cielo, inspirando il profumo di pioggia che ancora deve arrivare, poi attraverso la strada e mi ritrovo in una piccola piazzetta nel centro del vicinato, non molto lontana da casa dei nonni, ma abbastanza perché non notino con chi sto davvero andando a vivere. E' proprio questa la posizione che ho inviato a Miguel Hebrew. Mentre osservo la cronologia dei messaggi e aspetto il suo arrivo avverto un nugolo di sensazioni - prima di tutte l'ansia - che mi scuotono lo stomaco. Ah, la paura. Vecchia, odiosa amica.
Ed eccola che arriva: una BMW blu notte. La stessa che ho visto ieri sera, accostata alla strada di fronte al portico dei nonni. La stessa che ricordo di aver visto nel parcheggio dell'ospedale. Era lui, allora! Mi azzanno l'interno della guancia, sforzandomi di non arrossire nel ricordare che deve aver notato le effusioni fra me e Dimitrij. Purtroppo non posso ritornare indietro nel tempo. Mi tolgo una cuffietta e mi avvicino al bordo del marciapiede quando il finestrino si abbassa, inclinandomi in avanti per scambiare con lui un'occhiata, quasi ad assicurarmi che si tratti dello stesso uomo che ho visto in ospedale e, prima ancora, in carcere.
Dall'interno arriva un buon profumo di pulito amalgamato a quello del fumo. Il conducente si sporge, dopo essersi accostato al marciapiede, e solo pochi metri ci dividono. Nella bocca carnosa gli pende una sigaretta stretta, di quelle sottili e lunghe, e gli occhi azzurro mare spiccano sulla pelle abbronzata mentre mi osserva, con le sopracciglia appena inarcate. "Tutto lì ciò che hai?"
Glielo si legge in quello sguardo celeste intenso, leggermente socchiuso per scrutarmi meglio, scomparendo dietro una nube di fumo per il breve momento che servirà all'aria per circolare. Corruccio leggermente le labbra, quasi a dirgli "Sì, allora? Non sono un tipo alla moda!" Poi mi raddrizzo, inalando l'odore della sigaretta. Non mi aspettavo fumasse anche lui. Fa spallucce, una risposta secca e accondiscendente, come se non servissero parole per comunicare, nonostante tutti gli anni passati.
«Serve un passaggio?» esordisce infine, con labbra piene e invitanti piegate in un mezzo sorriso, come rubini incastonati nel bronzo di quel viso perfetto e rude.
«Direi di sì...» mormoro e mi sento un po' timido, mentre giro intorno alla macchina e mi siedo al posto a fianco del guidatore, posizionando il borsone ai miei piedi. "Cosa dovresti capire? Forse che ti amo?" Mi ritornano in mente quelle parole e fisso con insistenza l'airbag, senza riuscire a guardarlo negli occhi.
«Su, andiamo a casa An- Noah.» La voce si spezza e il secondo nome scivola fuori quasi con forza. Con la coda dell'occhio, noto che il suo sguardo scivola via nello stesso istante, si posa sull'orizzonte, il tramonto sempre più prossimo a scandire la fine di un'altra giornata.
Casa, eh? Mi azzanno il labbro inferiore, gonfio e carnoso a furia di mordicchiarlo sotto alla pressione degli incisivi. Le mani nelle tasche della giacca jeans, una a stringere il cellulare, non indosso altro che una delle mie solite felpe sformate che nascondono il mio fisico fin troppo esile. Non so nemmeno io come dovrei sentirmi, mentre mi infilo dentro alla macchina lussuosa e con le dita accarezzo gli inserti di pelle del sedile. Cerco di non guardarlo troppo, anche se con la coda dell'occhio noto il suo abbigliamento, i muscoli gonfi nella maglietta - non è difficile capire come abbia passato il tempo in galera - e il pantalone della tuta che nasconde ben poco di... Oh Dio. Ma che accidenti sto andando a pensare?
«Allora» riprende, con un tono che - forse lo sto solo immaginando - pare felice, mentre il mozzicone viene buttato al di fuori del finestrino. «Come stai?» Una mano sul volante mentre si piega verso di me e allunga la mancina.
«Oh.» Per un attimo mi immobilizzo, quando vedo la mancina avvicinarsi, ma non mi ritraggo, mi limito a fissare ogni suo movimento come un animale un po' sospettoso, un po' timido e al tempo stesso anche un po' curioso. E' difficile vedere Miguel come una persona comune che fa cose normali come allacciarti la cintura, dopo tutti gli anni passati ad immaginartelo come il grande antagonista della storia.
«È un po' dura.» sfiata, strattonando la cintura fino a che essa non molla, un mezzo sorriso ancora, un paio di fossette stampate sulle guance.
«Be'...» inizio, distogliendo lo sguardo per fissare fuori dal finestrino, insistendo ad ignorare quei gesti, le sue dita che mi scorrono vicino al petto, che si fermano proprio accanto al mio fianco. Tremendamente vicino, ma il contatto dura un attimo: un breve, eterno, attimo. La mia mano invece, posata accanto alla chiusura della cintura, sfiora la sua. Avvampo, spostandola rapidamente sulla coscia.
«Ecco qua.» termina, quando la cinghia scatta nella chiusura, così come i suoi occhi nei miei, tanto vicini da poter sentire il suo fresco respiro sulle gote calde. «Ora possiamo andare.»
«Grazie.» pigolo, con un filo di voce. «E comunque... diciamo che me la cavo.» Mento e da come stropiccio le labbra è una bugia evidente. Se non ci fosse stato il professor Lewis sarei svenuto per colpa dell'attacco di panico di stamattina. Vorrei che Matt non fosse mai morto. Vorrei che Leo fosse ancora mio amico. Forse dovrei ricambiare la domanda, per mera cortesia, ma non lo faccio.
«Te la cavi, mmh.» L'ironia è quasi tangibile nella voce, eppure cela un pizzico di divertimento, se solo non durasse che un istante. Sento il peso dei suoi occhi addosso, intenti ad osservarmi il profilo, studiare ogni curva del mio volto, silenzioso, quasi memorizzasse il colore della mia pelle. E' imperscrutabile mentre mi analizza e poi, mordendosi il labbro inferiore, mette in moto.
Ho provato per almeno un paio di secondi a ricambiare il suo sguardo, prima di non riuscire a sostenerlo oltre. Torno a guardare fuori dal finestrino. «Già...» mugugno, ficcando la testa in mezzo alle spalle come un passerotto impaurito, cercando di non far capire quanto in realtà sia disastrata la mia situazione. L'unica cosa buona, attualmente, è la complicità di Dimitrij. E non so nemmeno quanto ancora durerà: quel ragazzo è imprevedibile, almeno quanto Miguel. Che ora mi rivolge l'ombra di un sorriso rassicurante. Di sicuro le notizie le ha lette anche lui.
Rimiro quell'espressione di sottecchi: il mio rapitore che cerca di rassicurarmi con un'espressione così gentile e cortese da essere paradossale. Che penserebbe il mondo guardandoci dall'esterno? Distolgo lo sguardo, azzannando ancora di più il labbro inferiore. «Dove si trova casa tua?» domando, cercando di stemperare quel silenzio, ma anche per mera curiosità. Non ho idea di che luogo aspettarmi.
«Appena dopo la fine della zona urbana, vicino al lago.» risponde, la destra che si allunga ad alzare appena il volume della radio, da cui viene il brusio di una partita di rugby.
Mi mancherà essere il vicino di casa di Leo. Se avevo ancora una possibilità per sistemare le cose con lui, adesso è del tutto scomparsa. Tuttavia, sono contento di sapere che la casa è fuori dall'area cittadina: sia perché così non si verrà a sapere da chi mi sono trasferito tanto facilmente, sia perché spero che il pazzo assassino non mi lasci altri ricordini sul portico.
«Oh. Dev'essere un luogo tranquillo...» mi sforzo di proseguire la conversazione, piuttosto che chiudermi nel mio mondo rimettendomi la cuffietta sinistra nell'orecchio. Abbasso gli occhi sulla radio, non troppo sorpreso dai suoi interessi. Sembra un tipo parecchio sportivo. Da quello che mi sembra di capire si tratta di una partita nazionale, gioca la squadra di Roanoke contro quella di Charlottesville.
«Molto.» concorda, nonostante i ricordi che si annidano tra quelle pareti siano tutto fuorché sereni. «Sulla riva opposta alla casa, i tuoi colleghi spesso fanno un'uscita didattica o di allenamento.» Sbuffa una risata a labbra chiuse, che prorompe dalle narici. «O almeno era così ai miei tempi» Trovo la sua guida inaspettatamente scorrevole, non troppo veloce, anzi pacata. Forse, dopo il mio incidente in macchina, ci tiene a farmi sentire al sicuro. Ma scommetto sia solo una mia impressione.
«Credo che sia un'usanza passata di moda.» Allungo le labbra in un fugace, leggerissimo sorriso. «Fanno tutto in palestra, ormai.» Con quel coach odioso che continua a storpiare i nomi della gente che non gli piace. Se continua a chiamarmi Noel Summers...
«Un peccato, le lezioni di canoa erano divertenti.» Lascia andare un lieve sospiro. «In ogni caso, non ci sentiremo soli.» Il suo sguardo scivola appena su di me, senza distoglierlo del tutto dalla strada. «Tre volte a settimana avremo il piacere di fare colazione con Smith e Smitty, i due agenti che si assicurano non scappi in Nevada.» cerca di buttarla sul ridere, evidentemente storpiandone pure i nomi, seppur il tono risuoni comunque serio.
«Mh?» Per un attimo ho pensato a degli animali domestici, senza rendermi conto che sarebbe impossibile per lui averne, dal momento che è appena uscito dal carcere. Poi però sgrano gli occhi alla parola "poliziotti". «Come-cosa? M-ma... Pensavo fossi del tutto libero, ormai.» dico, sorpreso e un po' turbato dalla notizia.
«Diciamo che è una sicurezza in più, in fin dei conti non ho nulla da nascondere. E visti gli ultimi tempi... Devo dire di essere contento di avere qualcuno che passi a controllare che vada tutto bene.» ammette.
«Mhh.. Questo è vero...» sembra quasi che mi abbia letto nella mente. Forse è meglio che vengano spesso dei poliziotti, anche per assicurarsi che lui non mi faccia niente. Non ci ho pensato, all'inizio, ma potrebbe avermi chiesto di vivere da lui solo per finire il lavoro che ha lasciato in sospeso dopo aver ucciso i miei genitori. Sempre che sia effettivamente lui il colpevole di allora. Ma deve essere lui, altrimenti, perché mi avrebbe rapito?
Finalmente la destinazione diventa chiara quando la macchina rallenta. «Patatine e hamburger ti piacciono?» La vettura sosta davanti allo sportello di un fast food, da cui spunta un omino cicciottello, pronto a segnare i nostri ordini.
«Sì, mi piacciono.» annuisco, cacciandomi una mano nelle tasche dei jeans per recuperare gli spiccioli necessari.
«Due menù grandi, per favore.» ordina dal finestrino abbassato, incurvato in direzione dell'addetto, pagando la somma e poi attendendo qualche minuto che il cestino venga preparato.
«Tieni...» dico, con le monete alla mano e il palmo rivolto verso di lui. Non voglio certo pesare sull'uomo, anche se è un'idea paradossale, visto che sto per condividere la sua casa e non vuole nemmeno che gli paghi la metà delle bollette. Qual è la situazione finanziaria di un tizio appena uscito di prigione? Immagino non rosea, ma non credo che finirà sotto un ponte solo per una cena offerta dal fast food. Nonostante ciò, preferirei pesare su Miguel il meno possibile.
«Ah, grazie.» Le sue dita non si fanno problemi a prendere qualche moneta, nonostante ne lasci la maggior parte lì sul mio palmo. Prende il sacchetto con il cibo che gli viene consegnato e me lo porge, lasciandomelo sistemare sulle ginocchia.
«Prego.» La mia mano formicola quando la sua tocca il mio palmo, per prendere le monete. Mordo così forte l'interno della guancia che inizio a sentire il sapore del sangue: perché mi torna in mente quel sogno fatto in ospedale? Arrossisco, distogliendo lo sguardo, i pugni che si ficcano velocemente dentro alla giacca.
Rivolto all'ometto e con i soldi che gli ho dato, prosegue con un gran sorriso: «Tutte le caramelle che riesci a darmi con questi.» Una manciata di lunghe Twizzlers gli vengono offerte in cambio. Le lascia piovere nel sacchettino poco dopo, sulle mie gambe. Sfarfallo le palpebre, sorpreso da tutte quelle caramelle, vedendo luccicare la plastica colorata dentro al sacchetto. «Grazie, buona serata.» Il finestrino torna a sollevarsi, la macchina piomba nel buio rendendo più nitido lo spazio circostante, illuminato ormai dai lampioni. La cittadina lascia rapidamente spazio alla campagna durante il percorso verso casa sua.
«Sappi che la tua camera ha un bagno personale, questo significa che lì pulisci tu.» esordisce, con le sopracciglia appena alzate, quasi fosse chissà quale punizione severa, ammettendo però di avermi riservato uno spazio personale, diversamente da quanto proposto all'inizio.
«Ah...» Non riesco a nascondere la mia sorpresa ma, soprattutto, il mio sollievo. Ricordo bene quando ha detto che avrei condiviso ogni cosa con lui, perfino il suo letto: adesso spunta fuori che ho una camera e perfino un bagno tutto per me. Certo, era ovvio. Perché mai me ne preoccupavo? «Lo facevo anche a casa mia.» Faccio presente, stringendomi nelle spalle: vivere con un padre single significa barcamenarsi con le faccende domestiche più di lui.
«Com'era?» Le dita stringono più forte il volante, è solo un attimo, un istante in cui i muscoli si irrigidiscono, per poi semplicemente sciogliersi. Un attimo di cui non mi rendo conto, notando solo le sue labbra che si allungano in un sorriso.
E non me ne accorgo semplicemente perché cerco di non fissarlo, osservando fuori dalla finestra il tramonto che screzia l'orizzonte oltre le montagne e mi punteggia le gote d'arancio, non riuscendo tuttavia a nascondere il rossore che realmente si fa strada sulla faccia. «Ecco... Eravamo felici.» ammetto, abbassando gli occhi sul sacchetto del McDonald, cercando di controllare la mestizia improvvisa che mi investe e mi spinge a stringere le labbra. «Poi non so cosa sia andato storto fra mio padre e sua moglie.» Mi schiarisco la voce. «La sua ex moglie.»
Non me la sento di chiamarla madre, non dopo come ci ha abbandonati. Ero stato adottato dalla famiglia idilliaca: una coppia di sposi perfetta con un bambino più piccolo di me di qualche anno. Poi, quando avevo dieci anni, lei se n'è semplicemente andata. Non si è mai più fatta sentire da allora e per me e Josh ha smesso di essere una madre esattamente da quel giorno. A volte ho l'impressione di essere stata io la causa della loro separazione, quasi avessi trascinato con me l'infelicità che mi è rimasta incollata addosso dal giorno in cui i miei genitori biologici sono stati uccisi.
«Trovo quasi ironico aver conosciuto Aaron Sanders... Insomma un altro papà, tutti papà.» Lo sguardo salta dal mio viso lentigginoso alla strada. Considerato che il mio padre biologico - secondo le prime teorie - l'ha ucciso lui... La sua ironia ha qualcosa di abbastanza sinistro.
«Tutti papà...?» Gli lancio un'occhiata interrogativa, un po' corrucciata forse, perché l'unico che io ritenga come tale al momento è proprio Aaron Sanders. Non c'è nessun tutti.
Scuote la testa, non rispondendo. «Mi spiace per la sua ex moglie, lui sembra una brava persona. Lei invece non ti piaceva?» Dispiacere, rimorso, preoccupazioni, persino un po' di curiosità, questo è quello che mi sembra di leggere velocemente sul suo viso abbronzato e che tuttavia scaccia con una scrollata delle ampie spalle, il tessuto aderisce ancora di più, contorna e modella ogni minimo centimetro di muscoli.
«Lo è infatti.» Mi metto subito sulla difensiva, quasi timoroso che possa insultare mio padre dopo averlo sentito parlare tanto aspramente dei miei genitori biologici. Sorpreso invece dalla domanda seguente, mi mordicchio il labbro inferiore. «Non mi va di parlarne.» liquido la cosa, quasi incollando il naso al finestrino, senza però far combaciare la mia faccia al vetro, per quanto la vicinanza col mio respiro lo faccia appannare. Perché dovrei aprire il mio cuore e parlare della mia vita privata con lui? Ingoio il groppo in mezzo alla gola.
Non risponde subito, ma posso vedere dal riflesso nel finestrino un piccolo sorriso che piega un angolo delle sue labbra, con delle fossette che paiono non veder l'ora di spuntare, standosene sulle gote squadrate per dargli un che di sensuale e dolce lungo i duri lineamenti. «Va bene.» appena un sussurro gentile, solo per poi cambiare argomento. «La tua macchina invece come sta?»
«E' stata aggiustata, devo ancora andarla a recuperare dall'officina a cui mio padre l'ha portata.» spiego, sistemandomi meglio il sacchetto del fast food sulle ginocchia.
«E a scuola ti accompagna il motociclista?»
«!!!» Sgrano gli occhi, fissando il vuoto oltre l'auto come pietrificato. «Uhm.. Ehm..» Mi sento arrossire fino alla punta delle orecchie. «Forse... Finché non la recupero...» Deglutisco, imbarazzato. Allora l'ha visto davvero!
«Sarò sincero, non voglio quel tipo dalle mie parti, soprattutto con la polizia che viene a controllare che vada tutto bene.» La lingua schiocca seccamente contro il palato, sembra che non voglia ascoltare nessuna mozione in proposito. Argomento chiuso, sembra. «Ti presto la macchina finché non recuperi la tua.»
Poi strabuzzo gli occhi, i miei occhi saettano velocemente verso il guidatore. «Come scusa?!» Schiocco la lingua contro al palato. "Quel tipo". Non mi piace il tono che usa per chiamarlo, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in Dimitrij, quando è lui quello appena uscito di galera. «Non ci vado a scuola con la tua macchina. Le persone sono già abbastanza pettegole così come stanno le cose.» rimbrotto, con le sopracciglia gravemente corrugate e i pugni stretti sulle ginocchia.
«Senti, non penso che qui tutti conoscano la targa della mia macchina e se anche fosse c'è una jeep che non ho ancora usato, è vecchia e ci mette un po' ad accendersi magari, ma sono sicuro potremo venirci incontro non trovi?» Di tanto in tanto l'occhio salta su di me, mi studia per un breve attimo, la voce ferma, come fosse sottinteso che io debba attenermi a queste "piccole" regole, nessun se o ma ammessi. Nessun Dimitrij sotto il portico, magari all'alba con una tazza di caffè latte fumante. Dal canto mio, scelgo di tacere e tenere a bada la rabbia, almeno peril momento.
Il buio è ormai completamente calato, per cui il bagliore dei lampioni saetta sul volto dell'ispanico ad intermittenza, come se ci trovassimo in una discoteca dalle luci stinte e retrò. Il paesaggio si costella di abeti ed infiniti boschi, di sentieri più stretti ed una salita un po' più ripida. Sarebbe meglio che non continuasse l'argomento, invece sceglie di proseguire su questo terreno incerto.
«Il tuo ragazzo potrai vederlo a scuola, dove non posso certo impedirlo e non perché sia contro a quello che ti piace, insomma, sono... Sono affari tuoi Noah, sono dalla tua parte davvero... Ma lui... Lui non mi piace e nemmeno la sua banda del cazzo, non è gente che Papà Aaron approverebbe. Quindi pensaci, tutto qui.» La macchina si ferma un attimo dopo davanti ad una grande, imponente casa a due piani dallo stile vittoriano. Pareti esterne tinteggiate d'azzurro, tetti spioventi grigi, portico con colonne elaborate e balconate merlate come pizzo. E' evidente che sia una casa d'epoca e c'è da restare a bocca aperta, ma sono troppo arrabbiato ed indignato per fare considerazioni di alcun tipo.
«Non è il mio ragazzo...» mugugno, arrossendo, prima di detestarmi per ciò che ho appena fatto e scuotere forte la testa. Non è questo il punto. «Ma che cazzo hai contro di lui? La sua banda? Di che parli?!» Dardeggio al suo indirizzo un'occhiata furente.
«Ah ah non guardarmi così, quel tipo finirà di certo in gabbia prima o poi e ho già i miei di problemi, non ne vorrei altri.»
Non posso evitare di girarmi a guardarlo con un'aria accigliata, la fronte accartocciata come la carta stagnola. «Che cazzo stai dicendo? In gabbia? Sei tu quello che è appena uscito da una gabbia!» sibilo, sbattendogli in faccia la verità, tanto collerico che ormai ho cestinato la questione della macchina: preferirei andare a piedi piuttosto che usare la sua maledetta auto. Sento i miei pugni stringersi sulle ginocchia al punto che sto graffiando il tessuto dei miei pantaloni.
Devo avere la faccia paonazza dalla rabbia, per cui prendo un bel respiro, uscendo velocemente fuori dall'auto col desiderio di riprendere fiato e mettere distanza fra il bel trentenne e me. Il fatto che parli come se conoscesse Dimitrij meglio di me mi fa infuriare. Non che io lo conosca poi tanto, ma Miguel non sa niente. Niente di niente.
«Mphf...» sbuffo, lanciando un'occhiata sfuggente alla mastodontica casa - su un altro pianeta rispetto alle comuni villette a schiera americane - prima di iniziare a salire le scalette del portico, fermandomi davanti alle doppie porte a vetri, in attesa di lui, con la borsa a tracolla e il sacchetto del fast food in una mano. Lo vedo arrivare perché il suo riflesso massiccio sui vetri delle porte ingloba il mio.
«Ben tornato a casa Angel.» mi sussurra nell'orecchio, ancora sulla soglia, incurvato sopra di me. Il braccio destro oltre le mie spalle del minore per recuperare la cena dalle mie braccia e la mano sinistra intenta ad aprire la porta. Io, incastrato nel mezzo, mi ritrovo senza volerlo quasi... Abbracciato da lui. Trattengo a fatica l'imbarazzo, tant'è che non correggo il nome. Solo, corro a coprirmi l'orecchio con una mano, incapace di nascondere i brividi che mi assalgono quando la voce di lui mi scivola nell'orecchio. Il cuore sobbalza, nel sentirlo tanto vicino, non so se per paura o per cos'altro.
Lui mi lascia andare appena apre la porta, le scarpe lasciate all'ingresso, in una scarpiera in legno con quattro file, ognuna dipinta in modo diverso e nominata dai vari familiari. Vuota, se non per le calzature di Miguel. Lo seguo, entrando timidamente all'interno, mentre prende le redini del ruolo di padrone di casa ed inizia a spiegare: «Il lunedì passa la signora delle pulizie e vorrei aver più tempo per scopare a letto che per terra, quindi niente scarpe sporche all'interno.»
«...» Per un istante aggrotto la fronte, come se non avessi capito bene. Poi mi rendo conto che le mie orecchie funzionano ancora e strabuzzo gli occhi, avvampando di colpo. Non posso credere che l'abbia detto davvero. «Ahh-ha.» annuisco, levandomi frettolosamente gli stivaletti con uno scatto del tallone, mentre mi strofino una guancia per togliermi quell'espressione scioccata dalla faccia. Operazione difficile, visto che si è messo ai piedi un buffo paio di pantofole imbottite... Rappresentano un coccodrillo, forse la testa di un dinosauro, difficile a dirsi.
«Fa come se fossi a casa tua, se ti serve qualcosa lo prendi, se non c'è me lo dici, la spesa preferisco farla di lunedì, c'è meno gente.» continua, dirigendosi oltre il grande ingresso con la rampa di scale di legno, verso destra, in cucina. Dato che non l'avevamo ancora accantonato, per lo meno secondo lui, riprende l'argomento precedente. «Ma... Il motociclista ti piace?» Il tono si abbassa, come fosse un qualche segreto, qualcosa da condividere tra amici o fratelli.
Digrigno i denti, arrossendo così violentemente che potrei fischiare dalle orecchie come un treno a vapore, indeciso se essere arrabbiato o anche mortificato dalla vergogna. «Di sicuro non sono cazzi tuoi!» sbotto, sentendo le imprecazioni bruciare sulla lingua come mais appena tostato che ancora non si è raffreddato nella scatola dei pop-corn.
Il suo sorriso si assottiglia, sprezzante e un po' divertito. «Oh oh, ma allora non hai perso quel brutto caratterino, pulce.» Un borbottio, con un tono fin troppo vicino a quello che si userebbe con un bambino. «Mphf, probabilmente so più cose io sul suo conto di te.» Sbuffa, assottigliando appena lo sguardo.
«E che cosa pensi di sapere, sentiamo.» Mi sento particolarmente coraggioso all'improvviso, girandomi a fronteggiarlo sprezzante mentre Miguel appoggia il sacchetto della cena sul tavolo al centro della cucina e va ad aprire i pensili di legno a muro per apparecchiare.
«So di sapere il significato del suo tatuaggio tanto per cominciare.» La lingua schiocca contro il palato con estrema decisione, come fosse il rumore di uno sparo, un colpo andato a segno e un punto guadagnato. So di essere a bocca aperta, anche se non volevo dargliela vinta. «E ammetto di sperare che tu non usciresti con una persona simile se sapessi tutto di lui.» Sulle labbra gli si dipinge un sorriso amaro. «O forse ti piace metterti nelle brutte situazioni, in fin dei conti, peggio di vivere nella casa del tuo rapitore, cosa ci potrebbe mai essere?» Non è aggressivo o irritato nel dirlo, anzi, c'è un certo dispiacere che persiste nello sguardo, per via di una dura consapevolezza ammessa senza tanti giri di parole.
Ciò che dice è il miglior pugno nello stomaco che avrebbe potuto infliggermi anche senza toccarmi. Mi spezza il fiato e mi toglie le parole di bocca. Tutta la mia rabbia e la mia voglia di litigare si sgonfia come un palloncino bucato. Mi piace mettermi nelle brutte situazioni? Ho forse chiesto io di essere ricattato con quella convivenza pur di conoscere la verità? Ho chiesto io che l'assassino mi stalkerasse e mi facesse scegliere fra Matt e Leo? Ho chiesto io di essere rapito, o che i miei genitori venissero uccisi? E da lui, dall'uomo che mi ha detto una frase simile.
Devo avere un'espressione davvero terribile in faccia, perché all'improvviso mi chiudo come un riccio, incrociando le braccia sul petto, curvato sul tavolo ma ancora in piedi e muto come una tomba. Quasi non reagisco alle parole che mi vengono dette, ancora con la sacca in spalla mentre seguo meccanicamente con gli occhi l'uomo che apparecchia la tavola.
«Scusami, immagino di aver iniziato con gli argomenti sbagliati.» La sua saliva viene rumorosamente ingoiata, ne sento il suono, seguito da quello delle due birre che vengono poste sul tavolo insieme ad una bottiglia d'acqua. Scosta la sedia, che emette un debole cigolio sul parquet, prima di sedersi. «Su, posa la borsa e mangiamo. Questo fine settimana passiamo a fare un po' di compere, hai un armadio da riempire no?»
«Non ho fame.» sfiato, asciutto, la voce un po' stanca e lo sguardo basso. «E... non ho bisogno di vestiti. Ho già tutto quello che mi serve.» Stringo le labbra. «Dimmi solo qual è la mia stanza.» Ho solo voglia di nascondere la mia faccia sotto al cuscino.
«Noah.» Stappa una delle due birre in lattina, di marca artigianale, una rossa e l'altra bionda. «Non sei in hotel, non sono un fattorino e a dirla tutta, non so nemmeno quanto la nostra convivenza potrà durare.» Il tono serio, ma non arrabbiato, piuttosto chiaro, sincero. «Ti preoccupi di guidare la mia macchina, ma pensi davvero che la notizia che abiti a casa mia non verrà fuori?» Le spalle si scrollano appena, allunga un debole sorriso. «Puoi non mangiare se non hai fame, ma fammi compagnia per favore.» La destra sposta la sedia proprio al suo fianco «E poi non vorrai sprecare l'opportunità di farmi le domande per cui sei qui no?»
Dopo un lungo attimo di silenzio, lascio cadere la borsa a terra. Ingessato come un pezzo di legno, mi metto a sedere al suo fianco e con la fronte corrucciata afferro un hamburger, scartandolo dal suo involucro. Ne tiro un bel morso, masticando rumorosamente nel silenzio, a sfregio, mentre lui mi studia e attende. Inghiotto. «Allora dimmi, che cosa significa il tatuaggio del mio amico motociclista?»
Storce le labbra, abbassando la lattina di birra da cui ha appena preso un sorso. «Vuoi davvero continuare a parlare di lui?»
«E di cosa allora?» incalzo, arraffando una manciata di patatine fritte per gettarmele in bocca. «Di come hai ucciso i miei genitori?» sibilo un po' a bocca piena, inghiottendo quasi senza masticare. «O di come fingi di non aver ucciso i miei genitori?» Abbassa leggermente le palpebre, affilando lo sguardo. «Oppure della ragione che ti ha spinto a rapirmi?» Schiocco la lingua e stavolta il colpo che va a segno è il mio. «Sì. In fondo un neonato deve proprio essersela andata a cercare.»
Mi alzo in piedi, aggirando il tavolo senza dire un'altra parola. «Grazie tante per la compagnia.» Sollevo la tracolla dal pavimento. «A questo punto, la stanza vado a cercarmela da solo.» concludo e lui non mi ferma: sento solo un botto sul tavolo. Il suo pugno? La lattina? Non mi volto a guardare. Anzi, a passo svelto salgo di corsa i gradini di quella immensa casa, che è stata la tomba di mio padre.
Chissà se finirò a dormire in quella dov'è stato ammazzato. Cerco solo di scacciare questo pensiero cupo, mentre dentro di me inizio a chiedermi come farà ad andare bene quest'assurda convivenza.
E' stata un'idea tanto pessima? Forse. E forse è proprio vero che mi piace infilarmi nelle brutte situazioni. Ma almeno, adesso, posso incominciare a mettere la parola fine al passato.
***
*NDA*
Hola!
E niente, avevo scritto un nda lunghissimo e sto maledetto di wattpad mi ha cancellato tutto per via di un'immagine che nemmeno mi ha inserito :') che odio. Dirò in breve quello che ho detto prima: questo capitolo è stato un parto da rimettere in ordine! La sua scrittura a quattro mani risale ad un paio di mesi fa ma solo ora ho trovato il tempo per risistemarlo tutto, vi lascio immaginare quanto l'operazione sia ostica. A tal proposito, vi avviso che la mia strada si è temporaneamente divisa da quella della ragazza che scriveva Miguel, perciò per un po' me ne occuperò io. Non preoccupatevi, non cambierà niente e farò del mio meglio finché non tornerà <3
Vi lascio con le foto della casa di Miguel:
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