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XVI: Il suicida e il comunista


«Dim... Dimitrij..» sussurro, quando sento le sue dita spostarsi dalle mie labbra al mio petto, disegnando la silhouette del mio corpo da sopra alla giacca jeans e alla felpa. Le sue mani fredde scivolano sotto all'indumento, direttamente sulla pelle nuda, scorrendo dalla pancia allo sterno. Ogni movimento delle sue dita mi infiamma la carne.

«Dimka.» mormora, inclinandosi all'altezza del mio volto, le nostre labbra separate solo da un filo di vento e una canzone proveniente dal film in sottofondo a coprire parzialmente le nostre voci. «Così è meglio.»

Ho la faccia infuocata, quando le sue labbra trovano le mie e deliziosi brividi scivolano dal petto al cavallo dei pantaloni: le sue dita mi stanno accarezzando e pizzicando i capezzoli e la sua lingua non fa altro che punzecchiare la mia, attraendola prima di lasciarla andare, separando le nostre bocche, per poi farle incontrare di nuovo. Il bombardamento di sensazioni improvvise mi spinge a chiudere il pugno, finendo per strizzare fra le dita la terra sotto cui sono steso, mentre l'altra mano si solleva per afferrargli il bavero della giacca di pelle.

«Dimka.» chiamo, ad occhi chiusi, la fronte leggermente aggrottata e il fiato sospeso, quando i nostri bacini si sfiorano. Un fulmine a ciel sereno. Sento la sua durezza contro la mia attraverso strati di tessuti. Ho il fiatone, come se avessi appena corso una maratona nella palestra scolastica, e non è nemmeno la cosa peggiore. Devo aver assunto un colorito rossastro, i miei capelli devono essere un disastro. Siamo all'aperto. E... non me ne importa niente. Vorrei solo poterlo sentire un po' più vicino.

«Noah.» risponde a sua volta e il modo in cui pronuncia il mio nome con l'accento slavo - come se fosse una spezia sconosciuta, un po' piccante, sotto al palato - mi fa arricciare le dita dei piedi dentro alle scarpe. Poi avverto la sua mano sul bottone dei pantaloni e prima che me ne accorga gli stringo il polso, fermandolo un attimo prima che violi quell'ingresso.

«Asp..aspetta... io.. N-non sono una ragazza..» deglutisco, cercando di respirare piano anche se il cuore galoppa a tutta forza. «Se.. se è uno scherzo...» Dovresti fermarti qui. Lo penso, ma non riesco a dirlo. Posso realmente definirla una burla? Lo era quando ci siamo ritrovati chiusi nello stanzino a casa di Helen. Quel giorno, diversamente da ora, volevo fuggire il più velocemente possibile. E poi, l'anello che mi aveva infilato al dito e succhiato via perché non riuscivo a toglierlo... Ma soprattutto, c'era quello che aveva fatto a casa sua. Prima che Leo mi chiamasse e le cose precipitassero in maniera inevitabile.

Se non ci avesse fermato la chiamata, fin dove ci saremmo spinti? Fino a che punto gli avrei permesso di toccarmi? "... iniziavi a piacermi sul serio, Lentiggini" Quanto delle intenzioni di Dimitrij è falso e quanto è vero? Non riesco a capirlo in nessun modo. E non so nemmeno come dovrei comportarmi di conseguenza. Non mi sono mai piaciuti i ragazzi, prima d'ora. Né le ragazze. Nessuno si era mai avvicinato tanto.

«Ti sembra uno scherzo?» soffia vicino alle mie labbra, spostando la mano con cui l'ho fermato fino ai suoi pantaloni, premendola contro di sé. Sgrano gli occhi, avvampando: allora non ho sentito male, quando i nostri fianchi si sono toccati... E' eccitato.

Deve aver compreso ciò che penso attraverso la mia espressione, perché ora sorride come un criminale davanti ad un banca, con tutte le cattive intenzioni di questo mondo. Mi lascia il polso, usando le dita libere per raggiungermi i jeans. Invece che fermarlo, inarco leggermente la schiena, spingendomi contro le sue dita, che abbassano la zip e armeggiano con l'elastico bianco dei boxer.

«Ah!» I brividi mi sconquassano tutto il corpo quando la sua mano sfiora la mia durezza, torturandone la punta. Corro a tapparmi le labbra, socchiudendo gli occhi per osservarlo fra una tenda di ciglia fitte e castane. Mi guarda con un tale ardore che mi inturgidisco ulteriormente fra le sue dita, senza rendermi conto che si sta sbottonando i jeans a sua volta: il contatto umido e caldo fra le nostre virilità mi fa sgranare gli occhi, stritolare la manciata di terra che ho dentro al pugno. «Qualcuno.. potrebbe-»

«Nessuno.» Spazza via l'ultimo granello del mio pudore quando accompagna il mio palmo verso le erezioni pulsanti che si toccano, unendo le nostre dita intrecciate a cerchio intorno ai sessi. Gorgoglio un verso disarticolato, soffocandolo con la bocca che continuo a mordere con l'incisivo.

Lo sento muoversi e la foga mi spinge a muovermi a mia volta, inarcando un po' il bacino, le ginocchia piegate che sfiorano le sue e il braccio che si agita per strofinarci insieme in un contatto più approfondito. Sarebbe patetico venire adesso, ma sono davvero sul punto di raggiungere l'orgasmo, per colpa di tutta l'eccitazione accumulata e trattenuta.

«Aah... Dimka... Dimka..» ansimo, implorando il suo nome mentre stringo forte con l'altra mano il bavero della sua giacca, tanto da farmi sbiancare le nocche. «No.. Non...» gemo, quando lo sento aumentare la velocità, cercando di imporre il mio tocco per rallentare. Ma sento il polso così maledettamente debole, come tutto il corpo, cedevole come burro fuso.

«Non ti trattenere... Lasciati andare, Vesnushki.» Ha la voce affannata anche lui, graffiante, l'accento russo ancora più invasivo del normale, come se avesse messo in pratica per primo il consiglio di lasciarsi andare.

Non gli chiedo cosa abbia detto, ho la mente troppo offuscata, obnubilata dal piacere, al punto che getto la testa all'indietro e con un'impennata improvvisa dei fianchi raggiungo il picco. «Aaah!» vengo copiosamente, con un lungo sospiro di goduria e sollievo, anche se lui non si ferma: mentre io sfarfallo le palpebre cercando di riacquistare lucidità, continua a frizionare la propria eccitazione.

«Venushki... nmmh..» sibila, aggrottando la fronte, prima di venire anche lui, il suo sospiro che si fonde ai titoli di coda che scorrono oltre il burrone, verso il parcheggio semivuoto. Ho ancora il respiro affannato, ma pian piano recupero lucidità. Quando si scosta dalla posizione dominante sopra di me, lentamente mi rimetto a sedere.

«Oh, merda!» esclamo, non appena mi accorgo che la mia felpa si è sporcata di... be', di...

«Pensami quando la nasconderai sul fondo dei panni sporchi.» risponde Dimitrij, con uno sguardo sornione verso la felpa sporca degli effluvi di entrambi. Avvampo violentemente, colpendolo ad una spalla proprio mentre si alza la zip dei pantaloni.

«Brutto idiota...» borbotto, rosso come un semaforo, affrettandomi a chiudere la giacca per nascondere il misfatto, prima di abbottonarmi frettolosamente i jeans, un gesto che mi fa ripercorrere in pochissimi istanti quello che abbiamo appena concluso. Mio Dio.

«Tieni.» allunga il casco verso di me e sono ben felice di indossarlo per nascondere la mia espressione stravolta dall'imbarazzo. «Ti ci riporterò uno di questi giorni, magari la prossima volta lo vedremo il film.» ridacchia, facendomi un cenno con due dita per invitarmi a seguirlo sulla moto.

«Come se fosse colpa mia...» bofonchio, sentendomi ribollire sotto alla visiera scura. Poi monto dietro di lui e torno ad allacciare le braccia intorno alla sua vita, intrecciando le dita sui suoi addominali mentre accende i fari, fa la retromarcia e parte a razzo lungo l'asfalto. Vorrei che la strada non finisse mai, invece arriviamo davanti al portico dei miei nonni davvero troppo presto, col boato della Harley Davidson che fa accendere qualche finestra nelle case vicine, davanti a cui spuntano vecchiette ficcanaso. Restano a fissarmi come se fossi Satana e poi chiudono le persiane.

Dal canto mio, lancio uno sguardo mesto verso l'abitazione della famiglia di Leo. Riesco a vedere la sua finestra anche adesso, ma è chiusa e nemmeno un filo di luce artificiale penetra verso l'esterno: sarebbe impossibile capire se sia lì o meno. E forse, come mi hanno detto di fare Joil ed Amy per conto di Charlie, non dovrei disturbarlo.

La moto s'inclina di lato poggiando sul cavalletto e, mentre scendo, riesco immediatamente a slacciare quella cinghia infame, che stavolta avrebbe dovuto incepparsi davvero, solo per permettermi di guadagnare tempo. «Allora...» inizio, infilandomi le mani nelle tasche, dopo avergli consegnato il casco. Abbasso gli occhi per qualche istante, osservando le nostre ombre sul marciapiede, illuminate dai lampioni che si sono accesi solo qualche momento fa. «Grazie.» Detta così sembra quasi che lo stia ringraziando per il lavoretto di prima. Mi schiarisco la voce, arrossendo, scompigliandomi i capelli con una manata. «Per... il passaggio. E avermi fatto conoscere quel posto.»

I suoi occhi sembrano gialli per via del bagliore vicino del lampione che si riproietta sul suo viso. «E' stato un piacere, Lentiggini.» Mi fa scorrere una mano fra i capelli, prima di attirarmi a sé per il bavero della giacca, coinvolgendomi in un bacio improvviso ostentato in pieno quartiere. Come se non si preoccupasse affatto di essere visto. Altrettanto improvvisamente mi lascia andare, si abbassa con uno scatto la visiera del casco e poi parte a tutta velocità con l'ennesimo rombo di motore. Resto a guardare il punto dove scompare, imbambolato per qualche secondo, prima di scuotere la testa.

Sto per voltarmi verso le scalette del portico, poi però noto una bmw blu notte parcheggiata al marciapiede di fronte a casa. Ho subito l'impressione di averla già vista nel parcheggio dell'ospedale, perciò affilo le palpebre, rimanendo a guardarla per qualche breve attimo. «Ptf...» Scuoto la testa, salendo verso l'ingresso. Quando chiudo la porta, l'auto misteriosa mette in moto e si allontana.


***


Mia nonna sta iniziando a diventare inquietante: l'idea collettiva che mi sia quasi ammazzato, sostenuta anche dai giornali, per lei è certezza. Sforna compulsivamente biscotti e viene a bussare alla mia porta più volte, anche di notte, spesso entrando senza che io le risponda, fissandomi per un po' in silenzio mentre fingo di dormire. Assolutamente spaventosa.

L'idea di trasferirmi davanti alla sua paranoia inizia a diventare quasi piacevole, se non ricordo dove e con chi dovrei andare a convivere. Tanto che, la mattina dopo, prima di raccogliere tutto il mio coraggio e tornare a scuola, prima ancora di scendere a fare colazione, do uno sguardo all'armadio, cercando di capire da che punto iniziare a fare le valigie e con quale strategia dovrei dirlo ai miei nonni. Sono sicuro che a mio nonno non importerà un fico secco, ma la signorotta con la permanente bionda a panettone non credo sarà contenta.

Non assomiglio per niente a mio padre, né nell'aspetto né nel carattere, nemmeno nelle aspirazioni, ma si aggrappa al colore dei miei occhi per cercare di rivedere in me suo figlio. Non mi sento molto suo nipote, più un estraneo che cerca di diventare un surrogato. E non ci riesce nemmeno bene.

«Ehm..» esordisco, seduto a tavola davanti all'ennesima teglia di biscotti, la fronte corrucciata e il rospo in mezzo alla gola. «Ascolta, nonna.» Mi mordicchio il labbro inferiore, tagliando lentamente la fetta di bacon come se volessi separare le porzioni di carne abbrustolita dal grasso semi-sciolto, impresa impossibile.

«Sì?» incalza, continuando a riempirmi il piatto di uova strapazzate anche sopra alle posate, senza farci molto caso. Deglutisco.

«Penso che sarebbe meglio se mi trasferissi da un amico.» caccio fuori la notizia, a bruciapelo, umettandomi le labbra mentre fisso ostinatamente il bicchiere pieno di succo all'ace. Resta con la spatola piena di uova per aria, il tuorlo che gocciola nel piatto come sangue da una ferita. «Con tutto quello che sta succedendo in città, non voglio darvi ulteriori problemi!» mi affretto a rispondere, alzando lo sguardo su di lei.

La vedo lentamente razionalizzare la cosa, muovendo le pupille da un lato all'altro del tavolo, in cerca dell'opinione del marito, che ha la faccia coperta da un quotidiano aperto. Completamente disinteressato. Per lui non sono decisamente un surrogato: sono semplicemente un intruso, un elemento di disturbo forse, completamente privo di attrattiva, dal momento che non ho alcuna intenzione di entrare nel mondo dello sport. «Chi ti ha messo in testa questa idea? Certamente non ci dai problemi!» esclama, appoggiando la teglia di uova sul tavolo un po' troppo forte.

«Lo so, ma...» mi blocco, cercando altre argomentazioni. «Vorrei che tu lo accettassi, nonna.» abbasso leggermente la voce, come se temessi di farmi sentire dal diretto interessato. «Se c'è davvero un pazzo in città, mi sento piu tranquillo a lasciarvi in pace.» Perché sono il bambino di Halloween e forse sono nel suo mirino. E' questa l'idea che voglio dare e non è neanche troppo lontana dalla realtà. «Mio padre è d'accordo con me.» aggiungo infine.

Dallo sguardo che mostra, capisco subito che cosa pensa: quello non è il mio vero padre, non ha voce in capitolo, diversamente da lei. Ma poi si massaggia la radice del naso e sotto al trucco, all'abbronzatura finta e alla permanente, sembra diventare più vecchia. «Chi è questo amico?»

«Oh, uno di scuola.» minimizzo con un movimento liquidatore della forchetta, ficcandomi fra le labbra un boccone di bacon avvolto nell'uovo, che mastico molto lentamente, nauseato dalla grandezza della mia bugia.

«Ne sei proprio sicuro?» chiede, intrecciando le mani sopra al tavolo. Vorrei dirle che no, non sono affatto sicuro, nemmeno lontanamente. Che l'idea di andare a vivere con l'uomo che mi ha rapito e cresciuto fino ai cinque anni mi terrorizza, che non mi sento per niente coraggioso, che vorrei nuovamente provare a scappare via. Ma riesco ad annuire, ingoiando il groppo in gola con una lunga sorsata di succo.

«Ovviamente verrò a trovarvi.» Abbandono quel che resta della colazione nel piatto e mi alzo in fretta, raccattando lo zaino e sorridendo davanti allo schermo del cellulare, controllando ancora una volta - l'ennesima - il messaggio arrivato mezz'ora prima.

"Non hai ancora ritirato il pick-up dal meccanico, vero? Fatti trovare pronto fra mezz'ora"


***


Arrivare a scuola sedendo sul retro della moto di Dimitrij Jones è un atto temerario che non credevo avrei mai osato commettere. Attualmente, però, è il mio unico alleato e non me ne lamento di certo. La gente ci fissa, l'uno accanto all'altro, come se fossimo alieni venuti da marte per colonizzare il loro territorio: la scuola.

«Oggi pomeriggio cerco di recuperare la macchina. Ma grazie di nuovo per il passaggio.» ammetto, aprendo e chiudendo i pugni dentro alle tasche della giacca, sempre in imbarazzo quando lui mi fissa. Con gli occhi grigi per via del cielo nuvoloso, sfumacchia indolente una sigaretta, il bacino mollemente appoggiato alla moto e i capelli platino scompigliati intorno alla faccia. Pare non importargli assolutamente nulla del fatto che ci osservino tutti, anzi, a giudicare dalla sua espressione sembra spassarsela un mondo.

In un certo senso sono felice: le persone stanno trovando qualcosa di nuovo di cui parlare e forse - spero immensamente - hanno dimenticato quello che è successo alla veglia funebre di Matt. Forse non sparleranno della frattura creatasi fra me e Leo. Forse non cacceranno fuori il mio "tentato suicidio". Capisco che mi sbaglio quando, vedendo passare Helen, la sento sogghignare: «Guarda, il suicida e il comunista hanno fatto amicizia!»

Strizzo le labbra in una smorfia, abbassando gli occhi sulle mie scarpe - gli stivaletti tanto amati da Leo - ma poi sento Dimitrij ridere dietro di me e il senso di pesantezza bloccato sullo stomaco si allevia un po', quando capisco che non sta ridendo di me, ma di lei.

«Guarda che ci sto prendendo gusto.» risponde, in ritardo, parlando ancora del passaggio in moto. Il problema è che ci sto prendendo gusto anche io. Prima di formulare una risposta adeguata, non riuscendo a soffocare un sorrisino, il suono della campanella mi fa voltare di scatto verso l'edificio scolastico.

«Allora io... vado.» indico l'ingresso e lui scrolla le spalle, facendo cadere un po' di cenere verso terra.

«Ci vediamo.» snocciola, prendendosela comoda, mentre io mi sistemo meglio lo zaino sulle spalle correndo all'interno. Con tutta la faccenda di Matt e dell'ospedale, sembra essere passato un secolo dall'ultima volta che ho messo piede qui dentro.

I ceri e i ricordini lasciati al cancello per Carter, l'idiota bulletto che giocava a football, hanno lasciato il posto a una miriade di bigliettini e peluche attaccati all'armadietto di Matt. Non avrei mai voluto passarci davanti, ma è un percorso necessario per raggiungere l'aula di letteratura. Cerco di non guardarlo, cerco di velocizzare, allungando il passo, eppure le mie gambe si bloccano. La mia coda dell'occhio capta una fotografia con lui e Leo che si abbracciano, sorridenti e sudati dopo una partita, e così tutto il mondo inizia a rallentare.

Il mio campo visivo si fa minuscolo e il resto della scuola scompare. Rimaniamo solo io e l'anta di metallo di quell'armadietto. "Ci manchi <3" e "sorridi anche da lassù, campione!" sono solo due delle tante frasi che lo tempestano. Matt non c'è più ed è colpa mia. Colpa mia. Mia.

Sento le lacrime premere agli angoli degli occhi, anche se ho smesso di guardare l'armadietto perché le mie pupille stanno vedendo di nuovo la trebbiatrice e la mia testa sta rivivendo quel preciso momento. Di carne trita e sangue che schizza a fiotti. E gambe che roteano come carote che non riescono a passare oltre le lamelle del frullatore.

Sento il fiato venire meno, un dolore pesante schiacciarmi il petto mentre il corridoio prende a roteare così furiosamente da farmi cadere ginocchia a terra. Mi porto le mani sulle orecchie, tappandomele per soffocare il suono del suo corpo che viene triturato lentamente.

«No no no no no...» soffoco quell'unica sillaba dentro all'affanno. Non riesco a respirare, perché all'improvviso ho l'impressione di essermi dimenticato com'è che si fa. Non riesco a respirare.

Non respiro. Non respiro.

Sposto una mano dall'orecchio per strattonare la felpa in un pugno, sentendola troppo stretta addosso, costrittiva come una camicia di forza. Mi manca l'aria e non riesco a... «Noah?» Una voce familiare e lontana, stento a riconoscerla, non ce la faccio proprio a togliermi dalla testa il ronzio della trebbiatrice. Mi sento cadere, precipitare, come se si fosse aperto un buco dentro al pavimento. Tutto gira, tutto è nero ed è come caracollare verso il fondo di un pozzo, consumandosi la pelle fra le pareti strette.

Sento il tocco di qualcuno sollevarmi, mani salde che mi stringono le spalle, un braccio che mi avvolge la schiena e lentamente mi accompagna lungo il corridoio, che sembra vorticare su se stesso come un film surreale sul coma, di quelli che si domandano cosa ci sia in fondo al tunnel.

Nel mio, il bagno degli uomini. Il suono del rubinetto aperto e l'acqua fredda sul viso mi aiutano a riprendere conoscenza. Pian piano gli elementi della realtà circostante tornano ad avere una loro solidità, una consistenza. Il senso di alienazione fa a pugni con la tangibilità delle mani che mi accarezzano il viso e mi tamponano le guance con l'acqua gelida.

«Noah, va tutto bene... Guardami.» mi chiama, chiunque egli sia, e riesco con estrema lentezza a mettere a fuoco il colletto di una camicia e un paio di labbra circondate da una barba corta e perfettamente curata. «Prendi un bel respiro, come faccio io.» raccoglie aria dal naso fino a riempirsi i polmoni, poi la butta fuori chiudendo le labbra a cerchio. Inizio ad imitarlo e, pian piano, il mio campo visivo si ingrandisce, fino a mettere a fuoco tutto lo spazio circostante, compreso l'uomo venuto in mio soccorso.

Gli occhi verdi mi fissano preoccupati dietro ad un paio di occhiali dorati. L'ultima volta che l'ho visto è stato alla veglia funebre di Matt. Mi aveva aiutato anche in quell'occasione. «P-pro-professor Lewis...» balbetto, riconoscendo il mio professore di letteratura. Era esattamente la lezione a cui mi stavo recando, prima di... Crollare. «G-grazie.»

Deglutisco, abbassando gli occhi prima di ritrarre le mani, che sono state fino ad ora strette sul suo gilet color antracite. Mi accarezza le spalle - e siamo tanto vicini che ormai non mi preoccupo più di aver violato lo spazio privato di un professore - poi mi lascia andare, ancora coi fianchi appoggiati al lavandino. «E mi dispiace.» aggiungo, asciugandomi il viso bagnato d'acqua fredda con i polsini della felpa. Scuote il capo.

«Non c'è motivo di dispiacersi.» risponde gentilmente, sfilandosi gli occhiali dal naso per appoggiare la punta di un'asticella contro al mento, pensieroso nell'osservarmi. Dev'essere uno di quei movimenti capaci di far lanciare urletti a molte delle sue alunne, ma io non ci faccio caso, pur non del tutto invulnerabile al suo fascino. Sono ancora troppo scosso. «Non è un periodo facile per nessuno, questo. Specialmente per te.» sospira, pazientemente. «Vorrei che ti fermassi per un po' dopo le lezioni nella mia aula.»

Alzo le sopracciglia, irrigidendomi un poco. Ho l'impressione che quel "vorrei" sia un "devi". «Ho fatto qualcosa di sbagliato?» Ci mancava solo questa. «Lo so, non ho completato il compito sulla Phantasmagoriana, ma...»

«Ma certo che no, tranquillo!» si affretta a dire, tornando ad accarezzarmi la spalla per risultare rassicurante, anche se quel gesto mi mette stranamente a disagio. «Ho sospeso quel compito per tutti. Con quello che sta succedendo, è comprensibile.» Scioglie la palpabile tensione che si è creata con un sorriso tirato. «Voglio che vieni nella mia aula perché posso aiutarti a recuperare le lezioni perse.» Si rimette gli occhiali sul viso, allisciandosi la camicia contro al petto, mentre continua. «E, ovviamente, possiamo parlare un po' di quello che è successo.»

Torco le labbra in una smorfia impercettibile, non riuscendo a nasconderla molto bene. «Non ti sto costringendo. Solo se avrai voglia di aprirti con qualcuno.» Mi sorride cortesemente ed io deglutisco, annuendo. «Adesso, prenditi l'ora libera. Non ti segnerò l'assenza.» Mi fa l'occhiolino. «Sarà il nostro segreto.» Indietreggia verso la porta prima di uscire, probabilmente diretto alla sua aula, iniziando in ritardo la lezione, per la gioia degli alunni presenti.

Mi volto a guardare il mio riflesso nello specchio: sono pallido e ho gli occhi iniettati di sangue, ma per il resto posso ancora affrontare la giornata. Posso farcela, se non penso all'armadietto o al banco vuoto, dove solitamente siede Leo alle lezioni che condividiamo. Lui sta molto peggio di me, in questo momento. Sento di non avere il diritto di soffrire, rispetto a ciò che prova lui.

Anzi, forse è meglio che cacci fuori un po' di coraggio e che prenda in mano la mia vita. In fondo, prima scopro il mistero intorno alla morte dei miei genitori, prima posso andarmene da questa città, lasciandomi tutto alle spalle.

Prendo il cellulare dalla tasca dei pantaloni e, dopo aver scritto un breve messaggio a mio fratello Josh in cui mento e lo assicuro del mio perfetto stato di salute, recupero il contatto che mi ha passato mio padre. Non saprei come salvarlo, perciò lascio che sia un numero sterile dentro alla mia rubrica.

Quando vorrai, saprai dove trovarmi. E' quello che mi ha detto e non l'ho più sentito da allora, quasi rispettasse il mio silenzio, pur sapendo che abbiamo una promessa in sospeso e che mi sta aspettando.

Perciò scrivo frettolosamente l'sms, prima di pentirmene: "Sono pronto per il trasferimento". Ed invio a Miguel Hebrew, non potendo più ritornare sui miei passi. 

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