XV: Piccole consolazioni
Sto iniziando ad abituarmi ai ritmi dell'ospedale: fanno sempre tutto alla stessa ora. Pranzi, cene, visite. Il cibo fa schifo, ma considerata la mia poca voglia di mangiare e la mia abitudine di inghiottire mandando tutto giù, senza né masticare né sentire il sapore, riesco ad adattarmi facilmente. Se mi soffermassi troppo su ciò che le mie papille gustative incontrano, finirei per vomitare.
Liberarsi dal solito chiodo fisso è difficile. Il senso di colpa è così pesante che è come avere un macigno invisibile schiacciato sulla bocca dello stomaco: a volte non riesco a respirare, altre volte sento le membra rivoltarsi come durante un vuoto d'aria in un aereo in procinto di precipitare. Le immagini scioccanti della morte di Matt si riversano nei miei incubi, mentre i sogni su ingannevoli baci, ora di Miguel, ora di Dimitrij, si affollano in superficie. Dovrò realmente andare a vivere con l'ex-carcerato che mi ha rapito quando ero piccolo?
Se serve per scoprire ciò che è successo veramente ai miei genitori, se serve a ricordare il mio passato e poi andarmene da qui, devo accettare di farlo. Devo.
Eppure, vorrei fuggire subito, specie dopo l'incidente che ho avuto. Ricordo perfettamente l'accaduto. C'era un furgone che mi aspettava, sbarrandomi la strada, come se sapesse tanto quanto me che stavo scappando. E' riuscito ad impedirmelo, chiunque sia stato. Se facessi un secondo tentativo, cosa accadrebbe? E se mi sottraessi alla promessa fatta a Miguel Hebrew, cosa mi farebbe? Non voglio nemmeno immaginare ciò che potranno pensare i nonni o la stampa della sventurata, scandalosa notizia. Rapitore e vittima che si ricongiungono. I giornali ci andranno a nozze.
L'uragano di pensieri si acquieta quando bussano, annunciandosi alla mia porta un attimo prima di aprirla, senza neanche aspettare il mio consenso. E' un'infermiera, che accompagna - non riesco a nascondere un moto di sorpresa - Charlie. E' l'ultima persona che mi aspetterei di vedere adesso.
Mentre si chiude la porta alle spalle offrendo un timido sguardo di ringraziamento alla donna, resto in silenzio a studiarlo. Il fisico magrolino e allampanato, un po' curvo, come a farlo sembrare un palo della luce ai bordi dell'autostrada, è avvolto in una camicia di flanella nera e verde, con una kefiah abbinata, jeans scuri e converse. Il solito ciuffo basso e nero gli copre un po' gli occhi, penzolando sugli occhialoni tartarugati. Ha portato con sé un orsetto di pezza bianco, che tiene fra le zampe pelose un sacchetto di cioccolatini.
Per un attimo mi torna in mente il sapore della cioccolata calda dentro all'incubo, il bicchiere che cadeva a terra sporcando il pavimento del corridoio mentre il killer avanzava verso di me. E' un'immagine lampo che mi attraversa gli occhi insieme alla vista di corpi mutilati, cadaveri insanguinati, devastati. Ho un brivido tanto forte che sono tentato di nascondermi sotto alle coperte e non uscirne più, ma mi costringo a rimanere immobile, guardando verso la porta come in attesa di veder comparire la solita allegra compagnia: Leo, Joil, Amy... E Matt.
So bene che nessuno di loro si farà vivo. Sicuramente non Leo, che starà ancora cercando di raccogliere i cocci rotti della sua anima e del suo cuore. Per colpa mia.
«Ciao Noah...» inizia, accomodandosi sulla sedia al fianco del letto, le gote leggermente imporporate e le braccia tese a consegnarmi il peluche. «Per te.»
Un po' a disagio, raccolgo il peluche fra le sue mani, stringendo l'orso panciuto e sorprendentemente morbido. «Grazie. E' un pensiero gentile da parte tua.» Non avrei mai immaginato nemmeno che mi facesse visita. Allungo il braccio per appoggiare il dono sul comodino al fianco del letto, sistemando al meglio la schiena contro i cuscini per raddrizzare la postura. «Non mi aspettavo di vederti, in realtà.» Speravo in Leo. Speravo in Dimitrij. Nessuno dei due però si è presentato.
«E-ecco... sì...» si fissa le dita per qualche secondo, prima di iniziare a mangiucchiarsi le cuticole. «Avevo pensato...» si interrompe, appoggiando le mani sulle ginocchia, che tuttavia continuano a muoversi senza trovare pace.
«Che cosa?» Qualcosa in me dice che avrei fatto meglio a non chiedere, ma lo faccio lo stesso.
«Che avessi.. Sì, che avessi bisogno di compagnia. Visto che hai tentato... di-» alza le spalle, incassa la testa fra di esse come una tartaruga che cerca di nascondersi nel carapace. Stringo i pugni sotto alle lenzuola.
«Dillo.» Affilo gli occhi scuri.
«Di.. Di suicidarti.» completa la frase. Oh, sapevo che l'avrebbe detto! Non so se alzare gli occhi al cielo o massaggiarmi la radice del naso, fra l'esasperazione e la sconfitta.
«Io non ho affatto tentato di uccidermi! Ma che razza di idea... Ma perché cazzo ne sono tutti convinti??» sbotto, sbattendo i pugni sul materasso, mentre tubicini e flebo sussultano insieme alle mie braccia.
«Ma.. l'hanno scritto in un articolo! E-e l'ho sentito dire dai poliziotti!» incespica nelle sue parole, alzando appena gli occhi dietro alla zazzera scura di capelli. Chiudo gli occhi, prendendo un profondo respiro. Hanno scritto un articolo in cui affermano che ho cercato di ammazzarmi. Bene. Fantastico. Meraviglioso.
«Quali poliziotti?» chiedo, mentre valuto l'idea di mangiarmi qualche cioccolatino, giusto per non sentire la bile corrodermi lo stomaco dalla rabbia. Considerata la nausea che mi sta assalendo, potrebbe essere controproducente.
«Erano qui fuori... prima.» risponde. Davanti alla mia espressione perplessa, continua: «Li ho sentiti dire... ad un'infermiera, sì. Ecco, li ho sentiti dire che non c'erano segni di pneumatici... Nel luogo dell'incidente... Perciò erano sicuro che tu avessi tentato di... Sai... Infatti chiedevano le tue condizioni.» Non si scolla via quella faccia contrita, piena di desolazione e disagio, che mi chiude lo stomaco come una trappola per orsi. Non si rendono conto che stanno accadendo troppi finti incidenti, ultimamente? Sto per esternare il mio fastidio, ma poi assimilo il significato di ciò che Charlie ha appena detto.
«Nessun segno di pneumatici??» Aggrotto la fronte. «E' impossibile. C'era un furgone nero che mi ha appositamente tagliato la strada. Mi avrebbe travolto, se non l'avessi evitato.» spiego, mentre lui mi fissa con gli occhi sgranati, colpito da quella rivelazione - e dalla fonte diretta del fattaccio. «Devono aver cancellato i segni dalla strada. Per forza...»
Si morde il labbro inferiore, un po' confuso. «Io non credo che sia molto facile...» Gli lancio uno sguardo storto. Non capisco se è venuto qui per consolarmi o per mettere in dubbio la mia realtà dei fatti. Si irrigidisce, davanti alla domanda muta che trasmettono i miei occhi. «... E' che.. Ti hanno trovato poco dopo l'incidente! Non avrebbero avuto il tempo!» corre a giustificarsi, mentre si raddrizza la kefiah, continuando a spelacchiarsi i drappi appesi alle estremità.
«Capisco...» Stringo le labbra, abbassando lo sguardo sulle lenzuola linde del mio letto d'ospedale. Sono sinceramente stanco di tutto questo bianco.
«S-scusami.» balbetta e, nell'istante in cui io alzo gli occhi su di lui, Charlie li abbassa, sconsolato. All'improvviso mi rendo conto che me la sto prendendo con l'unica persona della scuola che ha avuto il pensiero gentile di venirmi a trovare.
«Non è colpa tua... Non devi scusarti.» sospiro, allungando una mano verso di lui per dargli qualche colpetto consolatorio contro il ginocchio, prima di ritrarre il braccio. Basta questo gesto per farlo sorridere, portandolo ad osservarmi per qualche secondo senza dirmi niente.
«Mi dispiace... Mi dispiace tanto.» aggiunge alla fine. «Per quello che è successo. Per come ti hanno trattato gli altri... Tu non c'entri niente...» Il senso di colpa, buon vecchio amico, torna a pungolarmi il petto con un dolore basso e sordo. Non c'entro niente? Non ne ha la minima idea. «Non è giusto che se la siano presa con te!»
Scuoto la testa, deglutendo il groppo che tuttavia non va giù, resta lì, bloccato, come una cucchiaiata di vetri rotti che ti dilania la gola e resta impigliata a metà strada. «Va bene così.» Lo accetto. E' il giusto prezzo da pagare per aver scelto Leo e non Matt. Riflessione che tengo saggiamente per me.
«Ecco, vedi... Joil ed Amy mi hanno detto di riferirti che» Serro la mascella, preparandomi a sentire qualcosa che sento non mi piacerà. «è meglio se stai lontano da Leo. Anche se siete vicini, non vuole vederti. E nemmeno loro...» pigola, a voce bassa, stringendosi sulla sedia quasi volesse sprofondarci dentro e sparire. Vorrei potermi arrabbiare, vorrei poter sbraitare contro le dirette interessate e dire loro che farò proprio come mi pare... Invece rimango in silenzio, a fissare un punto imprecisato della parete bianca in fondo alla stanza, in uno stato di apparente quiete. Molto più che falsa. Percepisco una specie di vuoto, in fondo al petto, che mi fa sentire piccolo. Una cosa piccola precipitata sul fondo di un pozzo, che per quanto gridi, non riesce a farsi sentire.
«Lui...» inizio, incerto se continuare a fare quella domanda. Se ne ho il diritto. «come sta?»
Continua a strapparsi altri peletti dai pennacchi della kefiah, compulsivamente e spasmodicamente. «Non so. Non viene più a scuola.» Ci riflette su. «Chissà se continuerà l'anno...»
«Capirei se non lo facesse.» Capirei se non lo facessi anche io. Il solo ripensare a quello che ho visto... Non posso. Non voglio, non devo. E comunque devo andare in fondo a questa storia: scappare, ormai, non è fra le opzioni. Se ci riprovassi, quel furgone tornerebbe a sbarrare la strada? Com'è possibile tenermi sempre gli occhi addosso? Scommetterei tutto quello che ho che c'è dietro lo stesso pazzo che mi manda gli SMS. L'assassino di Matt, di Carter. Chissà di chi altro.
La visita si conclude poco dopo, con Charlie che spera di rivedermi presto a scuola e io che lo ringrazio per essere venuto a trovarmi e per l'orsetto. Lo guardo uscire e, invece di sentirmi meglio, il vuoto dentro al petto si è allargato. Non ci sono prove che quel che dico è vero, che non ho provato a suicidarmi. I pochi amici che avevo a scuola non vogliono più vedermi. Dovrò andare a vivere a casa di un criminale. Non so dove trovare il coraggio per dirlo a mia nonna. E mi sento complice di aver ucciso Matt.
***
Quando pensavo che non potesse andar peggio di così, la lieta notizia delle mie dimissioni ha contribuito a migliorare il mio umore. Ma non è stato solo quello. Avrei dovuto aspettarmi di rivederlo, presto o tardi. Anzi, lo speravo. Ma non immaginavo che sarebbe accaduto in questo modo.
Esco dalle porte dell'ospedale con una mano sul maniglione e una spallata contro l'anta pesante, sgusciando fra lo spazio creatosi anche se la mia giacca jeans ci rimane impigliata non appena la porta si chiude dietro di me. Incespico, tirandomi via con un brusco movimento di spalle che quasi mi fa inciampare in avanti, ma poi mi raddrizzo, arrossendo, nella speranza che nessuno abbia visto la scena.
La prima impressione che ho del mondo fuori da quel posto, è che sia molto meno bianco e molto meno puzzolente di malato e di disinfettante. E' stranamente piacevole. Specialmente con le cuffiette nelle orecchie e il sound di The Suburbs degli Arcade Fire. Aver tenuto per tanto tempo le fasciature non ha donato alla mia capigliatura folta e la permanenza in un letto non ha giovato al mio colorito. Ma riprendere in mano la mia vita è già qualcosa.
E poi lo vedo.
Sentire il cuore fare una capriola dentro al petto, non per l'angoscia, per la paura o per il senso di colpa, ma per qualcosa di positivo, è una piccola consolazione da quando le sventure hanno iniziato ad abbattersi su questa città. Guardarlo lì, mentre mi aspetta nel parcheggio a poca distanza dall'ingresso, come se temesse di non farsi notare, appoggiato coi fianchi alla moto, è un'altra piccola, meravigliosa consolazione.
Anche da lontano riesco a notare come la luce plumbea del pomeriggio gli colori gli occhi di grigio. Anfibi ai piedi, jeans dal lavaggio scuro a fasciargli le gambe slanciate, una maglietta nera e una giacca di pelle lunga che raggiunge le ginocchia. L'intrico di rose tatuate spicca violentemente sul collo, mentre una sigaretta sbuffa rivoli di fumo verso l'alto, accarezzandogli i lineamenti duri del viso ed infilandosi nella chioma di un biondo chiarissimo.
Mi chiedo se si sia accorto del mio incontro ravvicinato con la porta... E dal modo in cui mi sta fissando - un misto di divertimento e compiacimento - direi proprio di sì. Cammino verso di lui, incerto se guardarlo fisso o se incollare gli occhi sull'asfalto, finendo per fare avanti ed indietro con lo sguardo come se giocassi a ping pong e una pallina invisibile si scontrasse fra il suolo e la faccia del russo. Quasi a controllare che sia ancora lì, che non sia un miraggio dopo giornate di solitudine e silenzio. E' venuto davvero o è solo frutto della mia fantasia?
«Ecco a voi il due volte sopravvissuto.» esordisce, indicandomi con la punta incandescente della sigaretta poco prima che gli arrivi di fronte, l'espressione da io-so-tutto-e-tu-no e l'accento bolscevico a renderlo più affascinante di quanto già non sia. E' comprensibile che tutta la scuola sia ai suoi piedi. Ancora cerco di capire cosa ci trovi in me... E non conosco la risposta. Anche se gli piacessero i ragazzi piuttosto che le ragazze, comunque ce ne sarebbero di migliori, rispetto a me. Sono certo che Leo faccia una strage di cuori nella community gay di Sunset Lane.
«Ma che simpatico.» replico, con un sorrisino nervoso a storcermi le labbra. Sopravvissuto alla strage di Halloween e poi ad un brutto incidente contro un furgone che stava cercando di farmi fuori e che per gli altri non è mai esistito. C'è un po' di fortuna dalla mia parte, nonostante la sfiga mi ami davvero. «Come mai qui? Non sei venuto, in questi giorni...» faccio un cenno verso la struttura alle mie spalle.
«Non vado pazzo per gli ospedali.» Sorride. «Ma ti ho mandato dei fiori. Non te l'ha detto l'infermiera?»
Certo, come no. «Deve esserle sfuggito.» Alzo un sopracciglio, ironico. «Come sapevi che mi dimettevano oggi?»
«Dalla stessa infermiera dei fiori.» Si prende un tiro, la miccia si colora d'arancio mentre si accorcia, crepitando nella distanza fra me e lui. Nell'osservargli la sigaretta stretta fra le labbra, mi ricordo all'improvviso del bacio che abbiamo condiviso poco prima che me ne andassi.
"Però è un peccato, perché iniziavi a piacermi sul serio, Lentiggini." Aveva detto proprio così, quel giorno, sui gradini del portico, dopo essermi venuto a prendere dalla veglia di Matt, dandomi un passaggio per la casa dei nonni. Prima ancora, mi aveva baciato anche a casa sua, spinto sul letto e infilato le mani nei jeans... Strizzo gli occhi, cercando di trattenere invano il rossore crescente. Sento la pelle ribollire al solo ricordo.
«Dimmi la verità...» snocciolo, spostando il peso del corpo sulla punta delle converse, i pugni stretti e un leggero - molto leggero - sorriso ad incurvarmi le labbra. Ogni volta che quel ragazzo mi guarda mi sento così strano e così insicuro, come se dovessi stare attento a tutto quello che dico e a tutto quello che faccio. Quando sono con Miguel, invece, non ho praticamente freni inibitori, sputando fuori tutto ciò che mi viene alla bocca. Rabbia, paura... Quel galeotto scatena in me quello che Dimitrij frena. Ero convinto che all'inizio volesse fare il bullo con me, un po' come Carter, che volesse ampliare la mia collezione di figure di merda. Adesso non so più che cosa pensare di lui e delle sue intenzioni.
«Ogni russo nasconde bene i propri segreti al piccolo americano...» si inclina su di me, bruciando una manciata dei centimetri che ci separano, il suo volto che mi fa ombra sul viso, le ciocche di capelli biondi un po' più lunghe che mi sfiorano i riccioli mentre mi guarda negli occhi in un modo che mi fa sentire le ginocchia di gelatina. «...Lentiggini.»
Risucchia un tiro dal filtro bianco della sigaretta rollata, così vicino che quasi sento il calore della miccia, prima di sbuffarmi contro una boccata di fumo grigio, come un Brucaliffo con Alice, riempiendomi dell'odore di tabacco con l'irruenza del suo respiro. Invece di tossire o sventolarmi una mano davanti alla faccia, resto là, imbambolato, a farmi inchiodare a terra con lo sguardo.
«.. Di certo non hai alcun rispetto per un malato appena dimesso.» E' la prima cosa che mi viene da dire quando riacquisto facoltà di pensiero e ne sono stranamente soddisfatto: era una battuta spontanea? Al temibile Dimitrij Jones, lupo solitario della scuola, possibile membro di una gang di motociclisti?
L'ombra di un sorriso torna sul volto spigoloso dello slavo, prima che si volti per darmi le spalle, afferrando un casco dal cruscotto. «Mettitelo.» Me lo spinge fra le braccia. «Oggi mi sento generoso.» Gli rivolgo uno sguardo confuso, mentre lascia cadere la sigaretta a terra, che scompare sotto la suola della sua scarpa. «Ti farò conoscere un altro dei miei segreti.» Non me lo faccio ripetere due volte: quando monta sulla Harley Davidson io mi infilo il casco, allacciandolo bene sotto al mento, per nulla intenzionato ad ottenere un altro trauma cranico e ritornare prigioniero di quell'ospedale.
Poi gli siedo dietro, esitando per un istante, prima di avvolgergli le braccia intorno al torace, la testa appoggiata contro la schiena e la guancia a percepire la morbidezza dell'interno del casco. Così vicino, riesco a sentire il persistente odore di tabacco che gli è rimasto incollato addosso, insieme ad una qualche impercettibile nota agrumata, esattamente come il sapore dei suoi baci. Arrossisco, e sono felice che lui non possa vedermi, troppo impegnato a stringere i manubri e mettere in moto, partendo a razzo verso una meta sconosciuta.
Guardare la struttura dell'ospedale allontanarsi velocemente, un metro dopo l'altro, mi regala un imprevedibile sollievo: la morsa delle mie preoccupazioni si allenta un po'. Il trasferimento con Miguel, il modo in cui dovrò dirlo ai nonni, il senso di colpa per Matt, la lontananza voluta da Leo, l'assassino ancora in circolazione... Tutto viene messo a tacere, almeno per un po'. Ho ancora una cuffietta appesa ad un orecchio, mentre l'altra è rimasta incastrata fra il mio petto e la sua schiena, così la canzone, in loop automatico, continua ad andare, una colonna sonora mentre il sole va via via calando.
Nessuno sprazzo d'arancio sul cielo, solo banchi di nuvole grigie che rendono perfino più buia la notte che sta per arrivare. Il paesaggio ai margini della strada scorre monotono lungo la via, sfrecciando rapido con un susseguirsi di abeti tutti uguali, finché il biondo non sgomma verso una stradina interna al bosco: lo sdrucciolato fa sussultare le ruote della moto ma lui non sembra preoccupato di rovinare il suo gioiellino su due ruote, proseguendo imperterrito. Forse dovrei preoccuparmi io, visto che ci stiamo allontanando dalla città e infilando in qualche luogo sperduto dove nessuno mi sentirebbe gridare. Sì, forse dovrei, visto che non ho idea di chi sia il pazzo assassino. E potrebbe essere anche Dimitrij.
Forse... Ma poi gli alberi si diradano, la Harley rallenta e il motore si spegne proprio quando io sollevo la faccia per ammirare oltre alla spalla dello slavo il panorama. Mi aspettavo qualche pittoresco scorcio sulle Blue Ridge Mountains, un punto strategico da cui guardare il tramonto, o magari le luci artificiali della nostra piccola città in contrasto con l'oscurità crescente. Invece, oltre il burrone, c'è un grande parcheggio mezzo vuoto e un ampio telo sistemato davanti alla fila di auto, teso in modo tale da favorire la visione di ciò che viene proiettato sopra.
«Un drive-in??» esclamo, armeggiando insistentemente con la cinghia del casco mentre il guidatore spinge il cavalletto di metallo in avanti per far stare la moto in equilibrio su un lato, ferma, anche senza di lui sopra. Smonta, ed io sono ancora là come uno scemo a combattere con il dannato casco intrappolato sulla mia testa, arrossendo, perché più cerco di fare veloce, nella speranza di slacciarlo prima che lui si renda conto della mia imbranataggine, meno sono capace di riuscirci.
«Lo stanno per chiudere, non ci viene più nessuno ormai.» rimuove le chiavi dal quadrante per infilarsele nella tasca della giacca. «Quindi lo chiamerei più il mio cinema privato.» sogghigna, prima di girarsi a guardarmi e rendersi conto del mio problemino. «La tua goffaggine è davvero carina.»
«Che cos'hai da ridere?!» borbotto, strattonando irato la cinghia, finché le sue mani non si sollevano fino al mio volto. Con un singolo, semplice gesto, sento l'apertura cedere e il casco liberarmi la zazzera appiattita di riccioli. Gli è bastato solo un movimento delle dita, al maledetto russo. «Tu lo porti sempre...» cerco di giustificare la cosa, mordendomi l'interno della guancia, prima di rendermi conto che mi sta già trascinando con sé. In brevi istanti mi ritrovo seduto ai margini dell'altura: si è seduto a gambe divaricate in modo che potesse sistemarmici in mezzo, la mia schiena contro il suo petto, in un perfetto incastro in cui io non posso vederlo, ma lui ha una buona visionale della mia nuca rossa fuoco e dei miei riccioli scompigliati. Riesco a sentire il suo respiro vicino al collo, la punta del mento che quasi appoggia sulla mia spalla.
Con la coda dell'occhio intravedo Humphrey Bogart dalla proiezione in bianco e nero, a metri e metri sotto di noi, ma sono troppo impegnato a sentire il mio cuore galoppare a tutta forza, incapace di spiccicare una sola parola. O anche solo di respirare.
«Mi fa piacere che tu sia rimasto...» lo sento sussurrare, l'accento spigoloso così forte vicino al mio orecchio, tanto tagliente quanto è mellifluo il modo in cui mi scioglie le gambe e mi ingarbuglia lo stomaco.
«Non.. Non era mia intenzione! Sono stato costretto... ecco, dalle circostanze..» borbotto, mettendo in chiaro le cose. Me ne sarei andato già da un bel pezzo, se non fossi uscito fuori strada e non mi fossi scontrato con uno stupido albero, sfondando il guard rail. Ancora adesso rimpiango il destino della mia povera auto.
«Sapevo che non era vero.» dice, mentre giro il collo per cercare di lanciargli uno sguardo interrogativo da sopra alla spalla. Siamo tanto vicini che mi inclino un poco in avanti, cercando di guadagnare qualche centimetro, in modo che i nostri volti non si tocchino. «Non mi sembri un tipo capace di ammazzarsi.» E' serio, mentre mi scruta con attenzione, gli occhi quasi verdi per la natura che ci circonda.
«Perché pensi che non abbia il fegato di farlo?» chiedo, a voce bassa, con una certa cautela, come preparandomi ad una qualche rispostaccia a cui segue il mio successivo battere in ritirata. Perché dovrebbe essere socievole con me? Per quanto mi riguarda, può avermi preso in giro per tutto questo tempo.
«Tutto il contrario.» La sua lingua scivola sul labbro inferiore, lentamente, come a soppesare le parole seguenti. «Sei venuto nel luogo dove i tuoi genitori sono stati uccisi. Sei più coraggioso di qualcuno che sceglie di farsi fuori.»
Dovrei essere felice di quelle parole, invece so che non corrispondono alla verità. Mi volto, tornando a nascondergli la faccia, fissando di fronte a me il telo dove il film in bianco e nero viene proiettato. Mi abbraccio le gambe, attraendo le ginocchia al petto, il mento posato su di esse, pensieroso.
Se fossi davvero coraggioso, non sarei fuggito. Se fossi coraggioso, sarei riuscito a farmi capire da Leo, a non farmi odiare così, senza una vera e propria ragione... No, sarei riuscito ad evitare la morte di Matt. «Tu non mi conosci davvero...» sussurro, la voce flebile come le riflessioni che mi frullano in testa.
Ad interrompere il filo dei pensieri ci sono le labbra del russo, che premono sulla nuca, all'attaccatura dei riccioli, con uno schiocco sonoro che mi fa sobbalzare. Torno a girarmi a guardarlo, sorpreso, ma prima che possa effettivamente farlo mi butta giù, sotto di sé, sovrastandomi con le braccia tese ai lati del mio corpo.
«Ma voglio farlo.» sfiata, allungando una mano verso le mie labbra, il suo dito a percorrere i contorni delle mie labbra. Non comprendo se con quella frase intenda dire che vuole conoscermi, o vuole fare altro. Qualunque sia il significato esplicito o implicito, schiudo le labbra, boccheggiando, sentendo inevitabilmente la pelle arroventarsi sotto al suo tocco. Non avrei mai immaginato che le carezze di un altro ragazzo avrebbero potuto farmi un effetto simile.
Del resto, non avrei nemmeno mai immaginato di sognare che il mio sequestratore mi baciasse e palpasse. Sto iniziando a capire l'effetto che gli uomini hanno su di me e lo sto facendo decisamente in ritardo. Ma Dimitrij ha come... Attivato qualcosa, dentro il mio corpo. Spinto un bottone nascosto, che non sapevo di avere, sin da quando mi ha baciato durante il gioco dei Sette minuti in Paradiso, stretti in un minuscolo sgabuzzino.
Perciò non riesco davvero a respingerlo, non sono capace di tirarmi via. Tutto il mio corpo freme per conoscere approfonditamente il suo tocco ed io non posso che reclinare il collo all'indietro e offrirmi a quell'istante.
Forse è uno sbaglio... Ma scelgo di correrlo.
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