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XIV: Morfina


Quasi abbiano assunto una personalità tutta loro, finalmente i miei riccioli ribelli sono liberi di respirare, slegati da quella ragnatela fitta di bende che mi costruiva un casco di garza schiacciata tutt'intorno alla testa. Lì dov'erano i buchi delle flebo le braccia sono state medicate e semplici cerotti color carne costellano il bianco candore della mia pelle, mentre l'ultimo velo di sudore che avevo appiccicato sulla pelle per causa del sonno ora è sostituito da un delicato profumo di lavanda, quello lasciato dalle salviettine umidificate che mi hanno consegnato le infermiere per darmi una ripulita.

Tutto questo non perché sono pronto a lasciare l'ospedale, ma solo perché mi concedono una piccola pausa per sgranchire le gambe, prima di tornare ad infilarmi nel letto e farmi mettere le nuove fasciature.

Mi sono svegliato da una mezz'oretta ed è ancora notte: l'atmosfera dell'ospedale notturno ha qualcosa di strano, di sospeso nel tempo, come se fra questi corridoi bianchi-azzurri tutti uguali l'idea di morte non sia concepita, ma nemmeno di vita vera e propria. Un purgatorio, un limbo, una sorta di pausa dall'esistenza di tutti i giorni che è quasi un toccasana.

Non ho bisogno di ricordarmi quello che è successo nell'ultima settimana, quando sono qui. La morte di Matt "caduto" nella trebbiatrice, la scelta che ho dovuto compiere, la terribile veglia funebre in cui Leo mi ha incolpato e da cui sono stato cacciato. Il patto fatto con Miguel e la sua bizzarra dichiarazione d'amore. I messaggi minatori dell'assassino.

Non ho toccato cellulare nemmeno una volta. Tutto mi è estraneo. Resta solo una piccola palma verde dentro al salottino di questo terzo piano, una pianta che resiste al freddo prepotente di un inverno che ancora non vuol cedere il passo alla primavera. Che altro? Una fila di sedie in plastica azzurra accostate al muro e un tavolino con giornali vecchi di anni accatastati su una pila incasinata.

Ficco qualche spicciolo – me li ha lasciati mio padre, ha detto l'infermiera – nella macchinetta in favore di una bella cioccolata calda e resto con la mano tesa sotto al distributore, aspettando che il bicchiere di carta si riempia. Mano a mano che accade le dita acquistano calore e, nell'attesa, agito le ginocchia nude, scoperte dal camice celestino polvere che mi arriva a metà coscia, parte esteriore – altrimenti nuda – fortunatamente coperta da una vestaglia bianca in cui sembro affondare, di lanetta morbida, profumata di lavanda come me.

Finalmente sto riprendendo colore sulle guance, le lentiggini nocciola somigliano più a delle mandorle sul cioccolato bianco che a delle mine in un campo innevato, e le labbra accolgono l'alto contenuto di zucchero del cioccolato divenendo sempre più rosee. Giro su me stesso, pronto ad incamminarmi verso i corridoi per continuare la passeggiata notturna, quando vedo l'ascensore in procinto di aprirsi. La prima cosa che lo spiraglio di metallo inquadra, mentre si spalanca, è un luccichio argenteo.

La seconda cosa è una lunga lama affilata, un'elsa scura. Un pugnale. Una mano guantata. Una maschera lattea e un mantello nero.

Un singulto mi scappa dalle labbra così forte che temo mi abbia sentito, ma ormai è troppo tardi per riparare: il bicchiere cade a terra con un tonfo impercettibile, la cioccolata fuma ancora sul pavimento mentre io comincio a correre, rischiando di inciampare nelle pantofole più volte, in una fuga per la vita verso la mia camera: tre porte, due porte, una. Mi aggrappo fortissimo alla maniglia e spalanco la porta con il fiatone e il cuore a mille, chiudendomela alle spalle con più e più passaggi di chiave.

Lentamente, mi giro verso il mio letto, solo per scoprire con un singulto di sorpresa che Miguel Hebrew è seduto lì accanto, probabilmente mi aspettava.

Ho così paura che corro verso di lui cascando letteralmente fra le sue braccia, tanto che una pantofola vola sul pavimento ed io tremo da capo a piedi. Se sto con lui, non c'è motivo di correre pericolo. Giusto? Forse è per questo che stringo forte le mani sulla sua schiena, la faccia nascosta contro al suo collo e il fiatone sulla sua pelle, senza dire una parola.

Nella curva calda della sua gola osservo la finestra chiusa da cui entra l'unica luce nella stanza pressoché buia, tale oscurità mi spinge a stringermi a lui come farebbe un koala al suo albero preferito di bambù e lui, dal canto suo, non si tira indietro. Il cuore pompa adrenalina e non c'è più alcuna macchina a mostrarlo, solo il mio petto, la gabbia di costole, la bomba piazzata fra i polmoni in procinto di esplodere, le gambe di gelatina, le mani sudate per la paura e le spalle scosse da tremendi fremiti che mi agghiacciano dalla testa ai piedi.

Eppure l'ispanico è così... caldo. Sento il tepore irradiarsi dalla sua carne e il suo respiro contro la nuca, mentre mi tengo stretto a lui con la vestaglia accartocciata ai piedi come lo strascico di una sposa. Per la prima volta non è di lui che ho paura, anzi mi tengo stretto al suo ampio petto perché cerco salvezza nelle sue grandi mani callose, fra i muscoli tesi che sembrano sciogliersi vicino a me.

Sento la destra sollevarsi, prendere forte possesso della mia vita per attrarmi ancora di più contro al suo corpo, in un incastro di braccia e gambe che non ha nulla di sgraziato, ma solo punti vuoti che vengono colmati l'uno dalla presenza dell'altro. E' una posizione imbarazzante ma ho troppa paura, adesso, per distaccarmi. Seduto sopra di lui, mi faccio accarezzare i capelli come un gattino tremante sotto la pioggia, che ha bisogno di essere portato a casa dopo aver passato troppo tempo dentro ad una scatola di cartone.

«Shh... Va tutto bene.» appena un lieve soffio in quel silenzio surreale, come se in tutto l'ospedale, anzi in tutto il mondo ci fossimo solo noi, in una bolla che non permette al rumore di fuori di interferire. «Finché ci sarò io sarai sempre al sicuro.»

Il suo sussurro è un dolce calmante, come la morfina, quella che mi è entrata in circolo questo pomeriggio e ad ogni movimento molle sento farsi prepotentemente presente. Resto con la faccia nascosta contro il suo collo, senza chiedermi perché sia tornato, cosa sia successo con mio padre, cosa si siano detti, che ne è del nostro patto. Informazioni, segreti, passato, sangue, sangue e ancora sangue. Non ora. Ho paura che più ci pensi, più l'assassino sarà in grado di trovarmi: mi stringo forte a Miguel e tremo fra le sue dita. «Sì... sì...» Sono solo in grado di annuire: non ho scelta che fidarmi di lui, almeno per questa torbida, angosciante, silenziosa notte.

«Angy, mio dolce Angy, non aver paura.» continua come una cantilena mentre la destra scivola giù per la mia schiena trasformando quelle calde e morbide carezze fatte per rassicurarmi in qualcosa di più lascivo e pesante.

«Non... Non ho...» ma non completo la frase perché ho paura davvero, e con le dita scavo solchi nelle sue scapole, anche attraverso la felpa. Nemmeno ho la forza di ribattere a quel "Angy" e non so come faccia a trovarmi dolce, eppure le mie labbra ancora sanno di cioccolato, la mia pelle di lavanda, le mie braccia sono prive di forza, deboli come biscotti friabili, le cosce morbide come croissant. Riesco a sentire le sue dita ruvide proprio su di esse, come se gli avessi letto nel pensiero, come se avesse immaginato le stesse cose che ho pensato io.

Ben presto mi ritrovo con le cosce strattonate, sospinte contro il suo bacino, in una vicinanza che non sembra più tanto protettiva, solo... intima. Mi muovo leggermente, cercando di sistemare i fianchi in una maniera meno invasiva di così, ma mi sposto in un territorio pericoloso, sopra e contro di lui, e tutto quanto va sempre più a peggiorare. «Miguel.. Che fai... Che stai...» Sento le sue mani compiere un percorso preciso sul mio collo, indugiare sul mento, sollevarmi la faccia, che ora resta a guardarlo con la bocca semi-aperta, confuso, meravigliosamente sorpreso. «...facendo.» soffio in ritardo, come se mi fossi dimenticato di parlare per un buon minuto. O per molto di più. La cognizione del tempo si va perdendo, in un ospedale notturno dove il silenzio è rarefatto e i corridoi sono popolati da fantasmi, morti, malati, assassini.

«Ooh Angy mi sei mancato così tanto» soffia piano, guardando i miei occhi grandi, neri e spaventati, in contrasto con i suoi blu, sfumati di grigio e azzurro che nella penombra paiono farsi più liquidi. Occhi che s'intrecciano e si inglobano a vicenda, i miei talmente scuri che dentro ai suoi, riescono a farli mutare in un profondissimo blu notte.

«Angy dimmi che sei il mio bambino.» la sua voce pare quasi un lamento.

«Io...» Stringo gli occhi di riflesso, le ciglia tremanti nell'avvertire un bacio sul naso in un gesto falsamente innocente. Gli stringo le mani sulle spalle, come se volessi spintonarlo via, ma senza la forza di farlo. «Sono cresciuto.» E' quello che dico. Come se non avessi smesso di essere suo, ma non fossi nemmeno più il bambino che lui ricorda. E nemmeno lui il teenager che io dovrei ricordare. E intanto le sue dita si avventurano più in alto sulle cosce che ciondolano al di sopra delle sue gambe più sode e robuste; conquistano terreno, esplorano paesi sconosciuti mai raggiunti, scostando stoffe e dignità. Ed io a cavalcioni su di lui.

«Angy Angy Angy...» continua a ripetere mentre le sue labbra percorrono la mia pelle e a ogni bacio ripete il mio nome come se non riuscisse a farne a meno.

«M-Miguel... davvero... che stai facendo?» La mia voce è ridotta ad un fioco mormorare e il collo si inarca, la guancia si preme contro la sua bocca, come se tutto il mio corpo fosse un invito per lui, un pasto, un luculliano banchetto. Ogni schiocco della sua bocca è un pezzo di me che assaggia, gusta.

«Ti amo Angy, ti amo così tanto.» bisbiglia leziosamente contro la mascella per poi risalire e leccarmi il lobo, morderlo e succhiarlo producendo un rumore simile ad un risucchio. La sinistra lascia andare il mento per calare fino al mio torace, sfiorando i capezzoli al di sopra del tessuto leggero che mi ricopre. «Non lasciarmi mai Angy.»

«Aahh-» E alla fine il gemito scappa involontario, senza sapere bene a cosa è dovuto: le mani sulle gambe aperte, la lingua sul lobo, una dichiarazione così maliziosa direttamente nei canali uditivi. Corro a tapparmi la bocca, ma ormai è troppo tardi. Ansimo ancora, di nuovo, perché gioca col mio petto ed è involontario che la schiena s'inarchi e il bacino spinga sopra al suo in un moto di protesta. «Fer.. fermo... Cosa...» Una mano cerca la sua per toccarla, stringerla, un blando tentativo di fermarlo ma senza la vera intenzione di farlo.

A che diavolo sto pensando? Perché glielo sto permettendo? Ho la mente annebbiata.

Fidarsi di lui sembra la cosa meno intelligente da fare: sin da quando ho solcato i cancelli del penitenziario dove era rinchiuso mi sono fatto un giuramento solenne. Mai avrei permesso al mio cuore di vacillare, mai gli avrei concesso di scombussolarmi fino in fondo, fino all'anima. C'era un punto ben nascosto che pur spingendosi oltre il limite non avrebbe mai potuto raggiungere e spezzare, un territorio invalicabile. Eppure adesso non è per paura, non è per sopravvivenza, non è per rabbia: il mio cuore trema e lo fa per il desiderio. Di quel tipo che ti è sconosciuto finché non diventi troppo grande, e capisci che ciò che desideri è qualcosa di molto più lascivo e lussurioso di quanto potresti pensare.

Gemo fra le sue mani, mi modello come creta, appiccicato alle sue dita e ammorbidito dai suoi calli, quelle sue durezze e morbidezze, quelle sue prese forti che non lasciano scampo. Me l'aveva fatto capire subito quando mi aveva sbattuto contro al muro, quel secondo incontro in prigione. Che mi sarebbe piaciuto. Che mi sarebbero piaciute le sue mani addosso.

No, non è vero. O sì? Non riesco più a capire nulla, i pensieri si mescolano ad inganni ed impulsi, mentre la camera spoglia e silenziosa se non per gemiti e parole sussurrate mi rotea intorno.

«Io...» Non lo voglio più? Fisso il suo labbro ben mordicchiato, sento il bacino sgusciare sotto di me come un serpente per poi incastrarmi meglio, non riuscirei a liberarmi facilmente. Ma è quello che bramo? La libertà? E se uscendo fuori, incontrassi l'altro assassino? Non c'è tana, non c'è nido, non c'è nascondiglio o terra sacra. Braccato in una stanzetta o nel resto dell'ospedale e una scelta che incombe fra piacere o dolore. Ma non c'è nessuna scelta da fare, in realtà, perché non lascerò le sue mani.

«Ti ho aspettato... Ti ho sempre aspettato.» soffia leziosamente vicino al mio orecchio.

«Da..davvero?» balbetto, fra l'imbarazzato e l'insicuro. Mi ha atteso tutte le notti e tutti i giorni ed io l'ho temuto tutte le notti e tutti i giorni e mi sono sbagliato fino ad oggi.

«Oh sì. E ora non posso più trattenermi.» dice, arricciando le labbra carnose in un sorriso mentre il mio cuore salta rapidamente in gola, perdendo qualche battito.

«Che vuol dire che... Che non puoi trattenerti?» deglutisco il groppo, scandagliando ogni punto di quella velata minaccia nascosta nel sorriso, che la luce fioca della stanza illumina appena. La domanda non riceve risposta, a meno che non sia gestuale: mi sposta sollevandomi prepotentemente su di sé con facilità, come se non avessi peso, fragile fra i suoi muscoli di ex-carcerato, in modo che possa finalmente sentire qualcosa di duro che richiama le mie attenzioni, spingendo fra le cosce. I jeans ruvidi scavano nella mia pelle nuda disegnando movimenti lascivi che premono sulla carne: il freddo del bottone mi fa quasi sussultare, rispetto a tutto il calore che lui mi sta donando.

«Oh... oh-» Irrigidisco le cosce quando prendo consapevolezza di che reazione ho appena risvegliato dentro di lui. «E' pericoloso...» sussurro, guardandolo negli occhi. Faccio appena in tempo a concludere la frase. Poi, accade. L'istante che mi perseguiterà di qui all'eternità. «!!»

Le sue labbra spingono contro le mie e sgrano gli occhi, come se fosse l'ultima cosa che mi aspettassi. Le mie mani, quelle che prima strattonavano le sue spalle, allentano la presa per rimanere a ciondolare nel vuoto, lungo i miei stessi fianchi, attorniati dalle braccia di Miguel.

Boccheggio, senza un briciolo d'aria anche se è mezzo secondo che mi bacia. L'ossigeno si spezza nei miei polmoni e la passionale irruenza con cui mi divora le labbra è abbastanza da farmi sciogliere come burro sulle sue ginocchia, reggendomi al suo collo con le dita strette alla nuca, che vanno via via ad insinuarsi fra le ciocche, a stringersi sui capelli. E' intenso, è più intenso di qualsiasi bacio abbia mai avuto ora. E' come la morfina, sì, stordisce fino a farti domandare cosa sia reale e cosa non lo sia.

E poi ci sono le sue mani, prepotenti, viziose, mani piene di vergogna che mi palpano i glutei rotondi come se cercassero di capire se sono abbastanza maturi per essere colti. Avvampo fino alla radice dei capelli, consapevole che non c'è nulla fra le sue mani e il camice, solo la mia pelle nuda. Ma cosa importa? Ho perso il nome della ragione e la sua lingua lavora ostinatamente per cancellare le ultime tracce di dignità che mi rimangono mentre si impegna ad esplorare tutta la mia bocca, a carpire fino all'ultima goccia di cioccolata calda che mi è rimasta sul palato.

Mi solleva, incespica sul pavimento, rimbalziamo sul letto d'ospedale profumato di mele e lavanda. Mi abbandona sul materasso e resto a pancia in sù, corpo umido di baci e caldo di carezze, viso alzato a guardarlo, a non perdermi nemmeno un suo movimento. «Aah... Ngh.. mmh!» Chiudo gli occhi, abbandonandomi all'estasi delle sue lappate sul collo, dei morsi delicati ma sentiti, delle mani che hanno mietuto violenza e adesso fanno esattamente il contrario: mi regalano perfezione, piacere, meraviglia. Tutto in un solo scivolare di stoffa verso l'alto, scoprendo cosa si cela sotto al camice, cosa che mi spinge a coprirmi la faccia fra le mani, così profondamente esposto davanti alle sue iridi oltremare.

Mentre il silenzio riecheggia nella stanzetta e la presenza del killer nel corridoio appare lontana anni luce. Schiocchi di baci sul mio corpo, contro le mie labbra, paiono essere l'unico rumore che sentiamo, immersi nella fioca luce della luna che la grande finestra ci concede, prima su quella piccola seggiola dove ero a cavalcioni sopra di lui, poi sul letto dove le grandi, ruvide, esperte mani ripercorrono i miei fianchi, ne studiano la forma e ne modellano le movenze fino ad avermi come desidera. Inerme, la pelle alabastrina ormai scoperta e arrossata, piena di graffi e cerotti, che si colora di rosso ogni qualvolta le dita dell'ispanico vi si posano quasi avesse un pennello al posto dei polpastrelli e io fossi la sua tela bianca.

«Miguel...» ripeto il suo nome con una sfumatura che mai avevo usato prima, cercando di assaporare il confine fra possibile ed inimmaginabile nel tentativo di metabolizzare tutto quello che sta accadendo, senza riuscirci minimamente. «Voglio... vivere questo momento.» sussurro a bassa voce, così flebile che la frase potrebbe essere soffiata dentro ad un palloncino per poi venir lanciata via, verso il cielo, morbida e senza peso, arrivando fino alla luna.

Devo essere impazzito. Deve essere stata la botta in testa dell'incidente, oppure i farmaci di cui mi hanno imbottito.

Lo sento slacciarsi i pantaloni ed il mio corpo freme di desiderio, ma l'imbarazzo mi spinge a distogliere lo sguardo da lui per fissarlo in un punto imprecisato della stanza ospedaliera. In un angolo non illuminato dalla luce della luna, lì dove un paio di occhi vitrei mi fissano. Mi irrigidisco.

Nella penombra, in punti che fino a qualche secondo mi parevano spogli, riesco a vedere dei corpi esanimi ammucchiati sopra al pavimento come vecchi tappeti arrotolati. Sembra che fossero sempre stati lì, silenti, in attesa di essere notati, simili a bambole dormienti ma ricoperti di sangue, lo stesso che pian piano riempie il pavimento facendolo luccicare di rosso, colora sulle pareti che piovono scarlatto. E poi ricadono dal soffitto in dense gocce calde, che picchiettano il letto e la schiena di Miguel, che col suo corpo pare proteggermi dalla pioggia cremisi che cola lenta sopra di noi fino a scivolare sulle sue braccia e poi sulle sue mani, sporcandomi inevitabilmente il corpo.

«Non c'è più tempo.» un semplice mormorio rassegnato mentre lo sguardo oltremare ripercorre le mie forme, la destra passa in mezzo al mio ciuffo riccio e ribelle sporcando anch'esso di sangue. Sento l'appiccoso, caldo liquido rossastro colarmi sulla fronte, mentre trattengo un grido strozzato, piegato nel fondo della gola.

«Forse non c'è mai stato tempo.» mormora ancora, dolcemente, eppure il suo sorriso è intriso di malinconia e rassegnazione, triste mentre pare non avvertire il mio terrore o i singulti strozzati di paura che emetto. O più semplicemente sembra ignorarmi come ha fatto in precedenza, quando le catene lo tenevano chiuso dietro alle sbarre, impotente. «Ti amo Angel.» sono le sue ultime parole, prima che le sue labbra calde si poggino ancora sulle mie, soffocando un urlo, con la pioggia che si fa via via più intensa, un acquazzone di sangue che bagna ogni millimetro della stanza, impregnando ogni tessuto di vermiglio e del suo odore pungente e metallico, rendendo quasi impossibile fingere che quei cadaveri riversi a terra non ci siano.

Fuori dalla porta grossi tonfi, qualcuno che cerca di entrare, di invadere quella stanza ospedaliera che ora pare una macelleria, anzi, la macelleria per eccellenza, perfetta per quel pazzo serial killer che con calci pugni cerca di aprire la porta, buttarla giù producendo ringhi animaleschi.

Miguel si riferiva a questo? Il tempo dei desideri, dei sogni, dell'amore è terminato, sta per venire ucciso da qualcuno, lo stesso qualcuno che ha disseminato ad opera d'arte quei corpi, quei morti, chissà da quanto erano lì, ci sono sempre stati? Com'è stato possibile non vederli? Non notare le pareti tingersi di scarlatto? Perché non mi ha portato via da lì, perché mi ha distratto da quel mattatoio che è divenuta la stanza? Quante domande potrei fargli... Domande prive di risposta, perché davvero non c'è piú tempo, nemmeno di urlare, scappare o implorare mentre una lama si fa largo nel ventre di Miguel lacerandolo da parte a parte. Una, due, tre volte. E poi ancora e ancora, l'incappucciato infligge la sua condanna sul corpo ormai martoriato che a fatica mi regge fra le braccia fungendo da scudo al mio, intrappolato e nudo sotto il suo. Ora chiazzato del suo sangue.

Con uno strattone lo spinge a terra e il tonfo terribile che sento dev'essere la sua testa che si fracassa sul pavimento. Atterrito e accecato dalla pioggia di sangue, riesco solo a vedere fra le palpebre strette il coltello che si solleva sopra di me, illuminato dal bagliore della luna. «Fermo! NO!!»

Poi spalanco gli occhi e un sospiro strozzato e profondissimo mi fa recuperare una bella boccata d'ossigeno, con una tale intensità che sembra che la mia anima sia uscita e poi rientrata dal mio corpo. Mentre riprendo fiato e batto le palpebre, metto a fuoco la stanza che mi circonda: bianca, pulita, cosparsa di fiori freschi e qualche peluche. Non c'è sangue, non ci sono nemmeno cadaveri sparsi sul pavimento. Non c'è l'assassino, né Miguel. Ho ancora le fasciature sulla testa, il camice addosso e una serie di flebo collegate alle mie vene. Non c'è sapore di baci o di cioccolata sulle mie labbra.

Ancora sudato e terrorizzato, mi rendo conto di aver sognato ogni cosa. Dal corpo di Miguel premuto contro il mio al folle psicopatico che sta spaventando la città e mi sta rovinando la vita. E poi capisco di chi è la colpa, o meglio, di che cosa.

Troppa morfina. 

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