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XIII: Amore?


Il dottore fa il suo ingresso ed io perdo l'occasione d'oro che avrei potuto cogliere fino ad un paio di secondi fa. Mi spiega diligentemente di non ripetere la mia bravata e mi fa medicare le ferite, bucando la vena in un punto meno leso del braccio. Toglie il respiratore, spinge qualche tasto sulla macchina, lascia che l'infermiera cambi i sacchi di flebo ed  infine esce fuori insieme alla collega con uno scalpiccio di scarpe di gomma, fastidioso contro il linoleum, misto allo svolazzare del suo camice bianco.

Ora solo, sento velocemente l'effetto dell'antidolorifico entrare in circolo nel sangue: un piacevole stordimento, un ottenebramento dei sensi e un sorriso serafico mi si colora sulla faccia. Il medicinale mi salva dalle scariche intense di dolore che mi martellano le tempie. Pian piano quei bagliori intrusivi dentro agli occhi si spengono e una calma insana mi pervade da capo a piedi. Esalo un sospiro. All'improvviso, l'idea di restare qui non mi sembra così male, quella di aspettare il ritorno di Miguel non mi pare così spaventosa.

Nemmeno mi agito quando rientra nella stanza, come se non avessi più paura, come se il potere fosse unicamente nelle mie mani e quell'uomo non fosse un assassino, ma solo... Qualcuno di importante che c'entra col mio passato. I nervi si sono sciolti e il placido sorriso resta bloccato sulla faccia come se non ci fosse più nulla di cui preoccuparsi. Dev'essere la morfina.

«Ho esagerato, ti chiedo scusa Noah, ti auguro di guarire in fretta e di trovare un posto in cui stare bene.» solleva e raccatta le sue cose, si allaccia la felpa ai fianchi come faceva con la parte superiore della sua divisa e poi si volta, pronto a lasciate questa stanza, a svuotarla della sua ingombrante presenza. Non so perché, non so per quale ragione, ma una piccola risata viene fuori dalle mie labbra, che hanno ripreso un po' di colore. Devo essere impazzito. «Ora ridi.»

Lo vedo grattarsi la testa, valutare in fretta cosa farsene di quel cambio di scena e reazioni.Inclino la testa fasciata di lato. «Preferisci il Noah che ti urla contro?» No, io non credo proprio che preferisca quella parte di me. Ecco perché continuo a sorridere lentamente, impercettibile, in attesa. «Cos'è cambiato?» domando, guardando la sua ampia schiena coprire buona parte della porta. «Perché ora sono Noah e non Angel?»

Batto le palpebre pazientemente, in attesa che si giri e guardi il mio sorriso tranquillo. Inclino il capo di lato, sapendo che i miei occhi neri debbano risultare intrusivi, curiosi, ben lontani dall'odio con cui l'ho accolto e trattato fino a poco fa. «Cos'è che ti delude esattamente di quello che siamo diventati, Miguel?» È la prima volta che pronuncio il suo nome e nella mia bocca non sembra più tanto sbagliato come all'inizio, come in prigione. Non ci sono più né guardie né sbarre a separarci. Tutto sembra diventato molto più autentico di prima.

Sì, mi basterebbe un grido per metterlo nei guai e questo fa di me quello che ha il potere nella stanza, anche se sono il più minuto, anche se sono legato a letto dalle flebo, stordito e ferito: non c'è bisogno che lo dimentichi per la paura. E poi, non ho paura di Miguel. Ne analizzo il profilo massiccio e muscoloso, i lineamenti vagamente ispanici, il modo in cui la maglietta gli si tende sul petto e in cui i suoi occhi scintillano sotto le luci al neon senza che nemmeno se ne accorga.

«Ora mi chiami anche per nome?» Lo sento sospirare, ma è un suono lontano visto che la mia risata si percuote in tutta la stanza, resa ritmica se avvolta al ticchettio della macchina, che scandisce il battito del mio cuore.

«Ce l'hai anche tu, perché non dovrei usarlo?» È così strano che pronunci il suo nome piuttosto che lo chiami assassino?

Mi guarda come se fossi matto e forse è così, ho sbattuto la testa troppo forte. «La morfina fa miracoli vero?» Scandaglio la larghezza delle sue spalle ampie quando si gira e, per un incredibile attimo, ho paura che vada via, al punto che mi muovo instabile sul letto con le gambe che ciondolano fuori dalle coperte e le mani premute sulle flebo, pronte a strapparle via. Invece resta sullo stipite ed io torno lentamente composto, sentendo la risposta alle mie domande.

«Angel... Angel fa solo parte di un mio ricordo, non ha più nulla a che fare con te.»

«Non direi proprio che non ha nulla a che fare con me. Sono io quel bambino, non qualcuno che è morto o scomparso. Io.» Alzo l'indice per sottolineare quanto sto dicendo. «E mi riguarda. Ci riguarda.» Lo fisso con lo sguardo ineluttabile di chi non può permettergli di tagliarmi fuori. È la mia vita: non sarò trattato come estraneo agli eventi.

«No.» Le sopracciglia si muovono lente per inarcarsi, al suo diniego. Come sarebbe a dire, no? «Tu non sei più quel bambino, tu non sei più il mio Angel, mi hai dimenticato.» Riesco a notare le vene pulsare prepotentemente sulle sue tempie, pieno di durezza e di irritazione. Ma io non sobbalzo quando le sue mani spingono sulla sbarra del letto, facendo quasi sobbalzare il materasso.

Resto fermo, gli occhi assottigliati in un'espressione concentrata all'ascolto e al suo viso, alle sue reazioni, come il luccichio mesto che torna a balenargli negli occhi. «Hai dimenticato la mia voce, i miei occhi, il mio tocco.» Abbasso gli occhi sulle sue labbra, ora torturate dai denti che liberano una gocciolina di sangue, che non è minimamente paragonabile a tutto il sangue che ho visto versarsi in questi ultimi mesi. Eppure vedere quello di Miguel è strano: mi fa ricordare che anche lui è umano, che non è un mostro come ho sempre pensato.

«Quel bambino è morto nell'istante in cui ha iniziato ad aver paura di me.» dice ed io sobbalzo sul letto come se mi avesse aggiunto nel braccio un'altra flebo, un altro ago affilato. Non posso negare che fino a qualche momento fa avesse ragione, ma adesso... Adesso che mi sta mostrando pian piano le sue debolezze e le sue verità, senza prendersi gioco di me eludendo le mie domande, il terrore diminuisce e la morfina fa il resto. «Ma non abbastanza da essere in grado di affrontarlo.»

«Non ho paura di te.» rispondo non appena finisce la frase, vedendolo nascondere i pugni chiusi dentro alla felpa. No, non ho paura, almeno non ora, non in questa stanza, la stessa in cui avrei potuto spaccargli un vaso in testa e lui avrebbe potuto farmi volare giù dalla finestra.

Una risata amara si fa largo nella sua gola uscendone ancora più roca e grave. «Sei caduto dalla sedia solo perché ho tentato di avvicinarmi a te nel penitenziario, non c'è stata una volta in cui tu non abbia tremato vedendomi, ed ora sei strafatto di morfina quindi non sparare certe stronzate... Tu sei terrorizzato da me.» soffia duramente senza nascondere quanto la cosa gli pesi, quanto sembri fargli male. Se in galera si era beffato di me, stuzzicandomi per studiare le mie reazioni, ora ci manca solo che si inginocchi a terra per lo sfinimento.

E preso da una strana nostalgia che gli balugina negli occhi, riprende a parlare. «Angel...» Il sussurro che abbandona le sue labbra è poco più che un alito di vento, fuso al profumo stordente di tutti i fiori che popolano la stanza molto meglio di come la stiamo abitando noi, che parliamo di cose troppo vecchie e ancora troppo attuali, scavandoci dentro a vicenda. «Noah.» continua a chiamarmi, con entrambi quei nomi, ognuno riconducibile ad un periodo diverso della mia vita, a sentimenti e sensazioni diverse.

«Non sono altro che nomi, ciò che vorrei è riaverti con me, riprendere da dove abbiamo lasciato.» dice, fissandomi con uno sguardo che non nasconde, non maschera, non cela. Triste, come se il dolore lo scuotesse dall'interno giorno dopo giorno e finalmente venisse a galla, dal fondo della sua anima per mostrarmelo. Ed io respiro più forte, ben sapendo che non è la recita di un pazzo. E' sincero e io non so che cosa dire.

«Ora, le cose cambiate sono innumerevoli.» risponde finalmente alla mia prima domanda, dopo minuti e frasi intere passate a girarci intorno. «Ma immagino che in cima ci sia l'odio cieco con cui mi guardi, quel modo così stupido di non capire ciò che ti circonda o chi hai davanti.» Distoglie lo sguardo, va a vagare sui vasi pieni di fiori come se fossero un prolungamento del mio essere.

«Perché, cosa dovrei capire?» cerco di catturare il suo sguardo, di intrappolarlo nel buio nero del mio. «Chi ho davanti?» Gli sto dando il beneficio del dubbio e nemmeno me ne preoccupo. Gli sto dando la possibilità di scagionarsi dalla nomea di assassino dei miei genitori in virtù di qualcos'altro.

«Cosa dovresti capire?» Il suo sorriso si fa affettato, studiato, come se non lo facesse veramente, come se fosse un robot e gli fosse stato solo insegnato a compiere quel gesto, progettato. Non vuole sorridere davvero. Poi lo dice. Una frase probabilmente studiata per mandarmi in confusione, per scioccarmi, per farmi sentire stupido o sciocco. «Forse che ti amo? Che sei stato la mia unica salvezza in quei cinque anni e anche dopo, mentre non c'eri ed io ero in carcere?» Si infila le mani fra i capelli, sospira pesantemente, le spalle tremano.

Tremo anch'io adesso, profondamente scosso, le labbra spalancate e la macchina accanto a me che va molto, molto più lentamente, come se il cuore minacciasse di fermarsi. Deve essere un'allucinazione della morfina: forse lui non è mai tornato da quando se n'è andata la dottoressa. Mi tiro un pizzicotto, ma fa male.

«Che non potrei farti mai del male perché sarebbe come uccidermi o peggio?!» sputa ogni parola come se fossero spine che da anni sta cercando di far uscire dall'anima, dopo tanto graffiare e tagliare. Ma non con il tono sollevato di chi si sente libero, più come se si fosse arreso al nostro gioco perverso d'indovinelli e fosse rimasta solo una stanchezza infinita, così perfetta in questo contesto di morte, di lutto, di perdita e di paura. Mi mordo il labbro inferiore, sentendolo tremare. Senza sapere più in cosa credere.

Il mostro di cui ho sognato la voce tutte le notti è lo stesso che mi ha appena detto di amarmi come se fossi la persona speciale della sua vita, come se lo avessi risollevato durante i suoi momenti più bui senza nemmeno che lo sapessi. Ma allora devo odiarlo? Ho davvero il diritto di farlo? Non lo so più, ma capisco che non è soltanto la morfina a rendermi più calmo ma una parte insita di me che lo riconosce. Cinque anni della mia vita rinchiusi in un limbo oscuro di amnesia e non mi è sembrato così familiare come adesso. Apro la bocca, perché sento di dover colmare il mio silenzio in qualsiasi modo, ma non riesco a trovare nulla di valido prima che continui il soliloquio.

«Mi sono sempre chiesto se tu ti ricordassi di me, se un giorno saresti venuto a cercarmi.» Sento schioccare la sua lingua sul palato, ed è come un comando a fissarlo più intensamente. «E quando sono venuto a sapere che mi avresti fatto visita ero elettrizzato, non avevo alcuna paura perché non mi ero mai soffermato a pensare cosa avresti pensato di me, cosa ti saresti ricordato.» Respiro più forte, si sentono perfino i battiti aumentare dentro alla macchina.

«Tornassi indietro avrei preferito non rivederti, saresti potuto essere il mio Angel per sempre.»

Per un lungo, interminabile minuto, lascio che regni il silenzio. Poi, stringo i denti lasciando spirare aria fra gli spazi, non in un'espressione rabbiosa, solo meditativa. Il suo Angel. Suo. Quest'idea di appartenergli mi fa scorrere un lungo brivido sulla schiena, ma non credo sia per angoscia o inquietudine.

«Perché dovresti avere paura di quel che penso di te?» Batto le palpebre una volta, due. Uno scalpiccio di passi dietro alla porta continua a susseguirsi senza distrarci davvero. «E perché pensi che io non lo sia più?» Il mio sguardo, se possibile, diventa ancora più nero ed oscuro del solito. «Del resto, sei stato tu a farti scoprire. Tu mi hai ab-»

Prima che possa finire la frase, il rumore secco di nocche contro la porta mi fa letteralmente fare un salto sul letto. Come se fossi stato colto in flagrante a fare qualcosa che non dovevo, spezzando quella strana magia che si è creata nella stanza. La figura che entra dalla porta affiancando Miguel mi fa immediatamente tornare in me, non importa quanta morfina io abbia in circolo.

«Papà!!» esclamo, ad occhi sgranati e un sorriso del tutto sorpreso, spontaneo. «Cosa ci fai qui?!» In un battibaleno ho dimenticato la terza presenza nella stanza: errore madornale. Mio padre si gira verso di lui e con la sua polo verde lime gli fa un cenno, caratterizzato dall'incredibile premura che lo contraddistingue. Per un momento ho il timore che l'ispanico, davanti ad un'altra figura genitoriale che è importante per me, faccia qualche pazzia.

«Ah! Devi essere un suo amico!» dice, porgendogli la mano con un sorriso tanto calmo che dubito fortemente sappia chi sia. «Del liceo? È sempre così difficile per Noah farsi degli amici!» Ma che diamine dice? Arrossisco distogliendo lo sguardo.

«Salve.» lui risponde ai saluti di mio padre, io rispondo al suo sguardo con un avvertimento: é meglio che se ne vada prima che l'unico genitore rimasto scopra chi è e rischi di farsi ammazzare. Non riesco, però, a decifrare quella piattezza nella voce dell'ispanico, accompagnata da una nota lontana - e forse la immagino soltanto - di irritazione verso mio padre.

«Oh ma che sciocco, mi sembri più grande di lui.» Almeno si accorge dell'evidenza. «In ogni caso la ringrazio per quello che fa per mio figlio!» continua, scavandomi sempre più la fossa senza accennare a lasciargli la mano, che agita amichevolmente.

«Papà smettila!» sbraito, paonazzo ed insieme molto allarmato, non riesco nemmeno a nasconderlo per mezzo dell'apparecchio cardiaco. «Non è mio amico.» realizzo, dopo tutta quella conversazione ambigua. Non so cosa diavolo mi abbia preso: per un momento mi pareva di aver smesso di ragionare con la mia testa. «E comunque se ne stava andando.» gli scocco un'occhiata d'avvertimento, truce, scandendo col labiale una sola parola. V-a-t-t-e-n-e.

«Grazie a lei per essersene preso cura fino ad ora.» risponde lui ignorando il mio intervento, lanciandogli uno sguardo incisivo mentre lo appello a non-amico. «E allora cosa sarei?» Mi sta seriamente sfidando su questo punto, quando potrei tranquillamente chiamarlo ex-galeotto? Ha un bel po' di fiducia nei confronti del ragazzo che l'ha deluso, perché "la mela non cade mai troppo lontana dall'albero".

«Un conoscente. No?» replico, alzando il mento per ribattere alla sfida con un'altra. Ha forse il coraggio di negare? Di spacciarsi per qualcos'altro?

«Un conoscente.» rimastica la parola quasi volesse capire se la cosa gli vada bene o meno. «Per il momento, sì.» conclude, prima di sganciare la bomba con l'innocenza di un bambino. «Ma non ancora per molto. Non volevi che restassi con te mentre gli chiedevi se potevi trasferirti a casa mia così da non essere un peso per i tuoi nonni?» Per poco non mi va di traverso la saliva, così tossisco più e più volte con gli occhi resi lucidi dallo sforzo. Ho praticamente già perso.

«Sul serio, Noah?!» mio padre guarda prima me e poi Miguel, con un sorriso stampato in faccia. «E ne è certo? Non sarebbe più corretto da parte nostra pagare l'affitto? Almeno per condividere le bollette, sa.» E' già partito in quarta con l'idea di organizzarmi la vita. Tipico di lui: sa essere apprensivo come pochi. E ha sicuramente ragione ad esserlo, con tutto quello che sta succedendo in città. «Non ti vedo al sicuro a casa dei nonni. Forse, l'idea non è così male...» Sono praticamente sconvolto e le possibilità di estirpare la nuova idea di mio padre è praticamente infattibile.

«Mi dia pure del tu.» l'ex-galeotto dagli occhi color mare sorride, per poi scuotere il capo. «Non si preoccupi, la casa è grande e avere della compagnia mi farebbe solo piacere.» gongola appena guardando con la coda dell'occhio il mio viso, sorpreso ed indignato. «O forse hai paura e preferisci tornartene con la coda tra le gambe a casa?» infierisce, facendomi diventare le guance rosse come due mele.

Mi hanno fregato entrambi, in verità: mio padre è sicuramente venuto qui per convincermi a tornare a casa ma so che se tentassi di lasciare la città ancora una volta, potrebbero succedere cose orribili. E non vorrei che lui ci andasse di mezzo. Ma non voglio neppure che vivere con il mio rapitore diventi l'ultima ancora di salvezza: è vero che abbiamo fatto un patto e se desidero ottenere informazioni, stare con lui è la soluzione migliore che ho... Ma è anche la più folle e mio padre non ne ha la minima idea. Maledizione.

«... Paura di chi, scusa?» Gli lancio uno sguardo accigliato, strizzando le labbra: usare la scusa del pazzo assassino che scorrazza libero in città non durerà per molto. «Ci penserò.» Digrigno i denti. «Ho bisogno di rifletterci da solo.» Muovo le mani nell'aria come a volerli scacciare, quasi fossero un odore troppo persistente: quello dei fiori mi basta già. «Mi farò sentire io, maledizione.» borbotto, mentre le rughe d'espressione di mio padre s'infittiscono, perché non capisce il motivo della mia irritazione.

«Tornerai domani?» mormoro verso mio padre che subito annuisce, assottigliando le palpebre per via di una certa stanchezza, che all'improvviso cala tutta insieme, minacciando di farmi appisolare lì, davanti a loro. Forse non ero pronto ad affrontare tutta la discussione che ho avuto oggi, ho ancora le fasciature macchiate di sangue. «Ci vediamo.»

Saluto così entrambi, come se fosse normalissimo vederli insieme, come se fosse un momento qualsiasi di una giornata qualsiasi, quando non vedo mio padre da più di un mese e ho cercato di nascondergli che un pazzo serial killer scatena panico in città; quando Miguel è l'uomo che mi ha cambiato la vita e vuole cambiarla ancora, nonostante abbia passato una considerevole fetta della sua esistenza in carcere.

L'ispanico lascia andare avanti mio padre soffermandosi qualche istante ai piedi del letto. «Quando vorrai, saprai dove trovarmi.» mormora appena. «Buonanotte Angy.» termina, dandomi le spalle per raggiungere l'uomo al di fuori della camera ospedaliera. La scena è così surreale che abbandonarmi sul lettino sembra l'opzione migliore e lasciarli andare insieme significa permettere a mio padre di prendere il numero di quell'ambiguo criminale facendogli amichevolmente il terzo grado.

Mentre mi addormento, con le palpebre calate e il ronzio della macchina accanto a me, l'ultima frase che mi vortica nella testa è: "Cosa dovresti capire? Forse che ti amo?" E so perfettamente che non riuscirò a dimenticarla.

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