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XII: Ospedale



Ben presto mi pentii di non aver letto il giornale non appena l'avvocato me ne aveva parlato.

Al contrario, il mio viso si era contratto all'ultima affermazione di Nathan, al quale avevo evitato di rispondere richiudendogli gentilmente la porta della macchina in faccia, per poi correre lungo il viale e salire la gradinata in marmo della villa estiva dei miei genitori. Non mi ero soffermato a guardare il prato, anzi non mi ero minimamente accorto dell'erba tagliata, delle piante in fiore così come non avevo fatto caso, entrando, alla tappezzeria nuova, immacolata.

Era tutto in ordine, tutto come era sempre stato, come se nulla fosse successo, come se quella casa non fosse stata la scena del crimine di tre omicidi. Eppure non feci caso a nulla, la mia mente era da un'altra parte, lontana come credevo lo fosse Angel. Una volta in casa mi ero lasciato andare contro la porta spessa in noce e vetro, lo sguardo perso su quella cavigliera che mi ricordava che non tutto era ancora finito. Il borsone al mio fianco era più vuoto che pieno, il più lo occupavano i documenti datomi all'uscita del penitenziario.

L'occhio mi cadde solo allora sul giornale arrotolato, la pioggia aveva impregnato le prime pagine e in copertina, come detto dall'avvocato, c'ero io: una mia foto vecchia, lo sguardo furioso, fiero, convinto di essere nel giusto, lo stesso di un pazzo come recitava il titolo "Il pazzo assassino è tonato libero", poi qualche notizia sulle indagini del nuovo amico di quartiere ed infine, come se la cosa fosse irrilevante e allo stesso tempo una barzelletta, una foto datata a qualche giorno prima, con una macchina finita fuori strada e il titolo "tentato suicidio in seguito alla liberazione del suo rapitore".

Mi bastò leggere il titolo e le prime righe che confermavano la mia intuizione per alzarmi a tempo di record da dove mi ero accovacciato. Il tragitto fino all'ospedale mi parve infinito e con il giornale accartocciato sul posto al mio fianco, la vecchia jeep nera prometteva di lasciarmi presto a piedi.

Eppure, lascio un sospiro di sollievo quando arrivo al parcheggio senza intoppi. «Cazzo.» Sta diventando la mia parola preferita, in un attimo ripenso all' ultima conversazione con Angel. «Quello mi odia e io mi precipito qua..» Parlo da solo con un sorriso amaro mentre la fronte si spalma contro il manubrio, stretto dalle mie mani tremendamente grandi e nodose. «Come minimo a quello prende un infarto e muore, così poi torno in gabbia per sempre.» borbotto prima di prendere un altro grande respiro e dare un'occhiata al giornale mentre il sangue torna a ribollirmi nel sangue.

«Fanculo.» sbotto alla fine mettendomi dritto e tirando su il cappuccio della felpa che indosso. Esco dalla macchina, controllo che la cavigliera sia ben nascosta mentre chiudo l'auto per poi infilarmi le mani intasca assomigliando più a un tossico che a un uomo normale. «Chissà se questa fa parte delle cose che Nathan non vorrebbe che io facessi.» mi domando mentre silenzioso mi addentro nell' ospedale senza avere la più pallida idea di dove si trovi. Eppure non appena il dubbio si insinua nel mio cervello qualcosa nella mia tasca posteriore vibra facendomi sobbalzare.

«Cosa cazz-» mugugno, mentre le mie dita trovano un arnese piatto dallo schermo esagerato e un solo bottone centrale. Nessun mittente al messaggio che illumina lo schermo: "2 piano s.56" è l'unico testo che contiene, mi guardo attorno scombussolato alla ricerca di qualcuno, chiunque, che potesse averlo scritto ma intorno vedo solo anziani, pazienti feriti o infermieri che si muovono frenetici. «Questa sì che sarà divertente da spiegare quando mi chiederanno come l'ho trovato mentre mi riporteranno in carcere...» Ignoro così quell'inquietante messaggio senza mittente dirigendomi in fretta al piano e alla stanza indicata nella speranza che chiunque mi abbia scritto non lo abbia fatto per sbaglio e che non mi faccia entrare nella stanza di una povera vecchietta.

Mi accorgo ben presto però che le porte dei pazienti sono aperte, i letti in bella vista così che non ci si possa sbagliare su chi si va a visitare, conto i numeri mentalmente velocizzando il passo, sperando che nessuno mi fermi. Stranamente va tutto liscio, tanto che una volta davanti all' uscio di Angel mi blocco osservando la sua esile figura nel letto, la flebo attaccato al suo braccio e un macchinario dal rumore snervante caratterizzato da un continuo beep. Mi chiudo la porta scorrevole alle spalle il più silenziosamente possibile mentre lo sguardo si muove veloce nel cercare altre persone nella stessa stanza, qualche infermiera o persino un familiare. Ma non c'è nessuno.

Avrei dovuto portare dei fiori? Forse un regalo, un orsetto? Un fucile così che mi potesse sparare alle palle?

La mente vaga su ogni pensiero mentre faccio qualche passo incerto verso il suo letto, il profumo nauseante dei fiori potrebbe stendere chiunque, al punto che arriccio il naso mentre lo sguardo torna sulla triste vittima ancora addormentata, quell'aggeggio pare essere l'unica prova della sua vita, troppo lontano per capire se respira da solo, troppo preoccupato di venir cacciato nel caso chiedessi a qualche dottoressa le sue condizioni. Eppure lui apre gli occhi, quegli splendidi occhi da cerbiatto annebiati dal terrore, forse di un incubo appena finito o magari appena iniziato visto come il suo battito pare impazzire non appena lo sguardo si posa su di me. Mi blocco sul posto, la gola improvvisamente secca mentre osservo le fasciature intorno alla testa e alla nuca, il respiratore che oscilla vicino a lui dopo esserselo strappato come se gli impedisse di respirare davvero.

«Sei vivo.» soffio, mentre il petto si svuota di una piccola parte di tensione, ma lo dico a me stesso e non a lui. Solo ora mi rendo conto che la mia vera paura fosse quella di vederlo in coma o peggio, difatti scuoto il capo, lascio scivolare il pensiero lontano, ingoio quell'angoscia mentre faccio qualche passo in avanti, lento, senza fare alcun movimento brusco, quasi avessi un gattino dall'aria terrorizzata di fronte a me, pronto a scappare al primo gesto avventato. «Ti prego non urlare, non ti farò del male.» parlo piano alzando le mani all'altezza delle spalle per poi far scivolare il cappuccio dal capo, rivelandomi.



***


Beep.

Il suono di una vita che continua ad esistere. Il rumore di un'automobile che si spacca.

Beep.

L'infrangersi della carne contro il parabrezza, delle mille spaccature che si diramano dai miei capelli al vetro, in una ragnatela che va via via a bagnarsi di sangue, filamenti scarlatti che ballano contro il campo visivo.

Beep, beep.

«Tu non andrai via. Lui non vorrebbe che tu andassi via. Non andrai.» Chi è stata l'ultima persona a dirmi queste parole?

Beeeeeeep.

Un respiro profondissimo e spalanco gli occhi, tremando da capo a piedi, scosso come se tutto il mio spirito si rivoltasse dentro al letto. Un letto? Confuso, agito le pupille intorno a me alla ricerca di qualcosa, un segno, un indizio. Ora so da dove viene quel suono fastidioso che ha continuato a fracassarmi la testa anche nel sonno: una grossa macchina con un quadrante scuro che mostra una linea verde in movimento. Ogni mio respiro è un guizzo di quella linea, che dondola su e giù come uno yoyo, con l'effetto di ipnotizzarmi.

Il secondo indizio è un odore. Mi ricorda il cimitero, ma è solo per il prodotto di tanti tipi di fiori tutti insieme in una singola stanza: su un comodino, sulla cassettera, sul davanzale della finestra. Ci sono dei bigliettini attaccati, ma ho la sensazione che non li leggerò oggi. E sono tutti per me visto che sono solo, l'unico letto dentro ad una stanzetta dall'aria luminosa.

Il terzo, particolarmente fastidioso, è il respiratore ficcato in bocca, che sputo e allontano con la fretta di chi non ha paura di farsi male, anzi di chi ne ha bisogno per sentirsi vivo, per capire di esserlo ancora. Ma mi tengo la flebo e, con un movimento lentissimo dell'altro braccio, mi tocco la testa alla ricerca del punto leso, quello che ho sentito battere contro il parabrezza, prima che tutto il mondo diventasse nero.

Sento che un'infinità di fasciature mi appiccicano i ricci sudati sulla fronte e non ho bisogno di uno specchio per capire che ho la faccia così pallida da fondermi con il cuscino stropicciato dietro di me. Mi basterebbe parlare per sentir dolere la gola e spaccare le labbra, secche come carta vetrata. Così, mentre giro la testa alla ricerca di un po' d'acqua, tirando qualche filo e lottando con lo strano aggeggio che mi pinza il polpastrello dell'indice, finalmente accade.

Un quarto, infausto indizio, che ai miei occhi diventa un'unica malvagia minaccia. La macchina inizia a battere freneticamente i suoi beep, come una sveglia al mattino, ripetutamente e senza smettere.

Beep beep beep beep beep.

Miguel è qui. E mi sta guardando.
E' forse un incubo? Uno scherzo? Un delirio del destino? Deve essere solo un brutto sogno, certamente, perché altrimenti lui non sarebbe uscito di galera, non avrebbe indosso qualcosa di diverso da un'inguardabile divisa arancione e non starebbe in una stanza d'ospedale che potrebbe anche essere quella in cui ha ucciso mia madre. Ridicolo il destino, eh?

Cerco di riprendere coscienza di ciò che mi circonda, cerco di ricordare quello che è successo, come ci sono arrivato qui dentro. Il brutto camice da paziente mi si è incollato addosso per colpa del sudore e adesso lo sento grattare sulla schiena e su ogni altro punto nudo al di sotto. Sono esposto, scoperto, non importa che ci siano anche le coperte su di me: mi sento completamente nudo sotto al suo sguardo oltremare e la mia vecchia amica, la paura, ricomincia a farmi visita. Non posso nemmeno nascondere ciò che provo per colpa dell'apparecchiatura intorno a me e i costanti suoni che fa il mio cuore. Va troppo veloce e lui lo può sentire, lo sente, lo sa di sicuro.

«Sei vivo.»

Vorrei soltanto morire, proprio adesso. Vorrei chiudere gli occhi e afflosciarmi sul letto, fingere di essere ancora in preda ad un sonno malato e ferito, ma ormai è troppo tardi per fare qualsiasi cosa. Lui è in questa stanza, senza manette, senza tavolo a separarci, senza guardie dietro alla porta, senza niente. Lui è qui e potrebbe uccidermi con estrema facilità se solo lo volesse.

«Ti prego non urlare, non ti farò del male.» mi dice, ma io lo guardo atterrito come se non potessi nemmeno spiccicare parola, la gola in fiamme e il cuore sul punto di fermarsi in preda ad un singolo infarto. E come potrei fidarmi? Come potrei credere a quel bel viso ispanico, a quei begli occhi blu, un insieme di tanta falsità da non capire perché sia qui, se non per prendersi gioco di me. Se non per ricordarmi il folle patto che abbiamo stretto.

"Dovrai metterti nelle mie mani. Vivrai a casa mia, mangerai il mio cibo, berrai la mia acqua, dormirai nel mio letto."

Un singhiozzo, un singulto di sgomento e terrore immediatamente nasce e muore sulle mie labbra, mentre gli occhi scattano verso la porta per capire se qualcuno verrà a salvarmi. Se farà in tempo. «Volevo solo restituire il favore, insomma tu sei venuto a trovare me, io vengo a trovare te.» Vedo il suo sorriso e un brivido acuto mi riverbera su tutta la schiena nuda, premuta sul cuscino. Vorrei gridargli che è solo un pazzo bugiardo.

«Posso aprire la finestra? Non si respira qua dentro.» Nemmeno rispondo, riesco solo a perdere qualche battito. La finestra... Non è forse così che ha ucciso mia madre? Avrà sicuramente incominciato dalla finestra. Mi muovo inquieto sul letto e subito punto al vaso di fiori più vicino, quello sul comodino alla mia destra. Riesco a leggere il nome: "Dai tuoi cari nonni". Potrei prenderlo e spaccarglielo in testa. Sì, forse... Mi aiuterebbe a guadagnare qualche minuto prezioso.

«Ti fa male?» Interrompe le mie elucubrazioni col risultato di farmi sussultare. Eppure è ancora girato. Potrei ancora colpirlo. La distanza che ci separa è ricopribile da qualche passo e capisco che è questione di attimi. Non so quale forza interiore mi guidi, quale follia, quale voglia di salvarmi, eppure è un battito di palpebre: la decisione è presa.

Con un movimento rapidissimo della mano mi strappo via fili, tubi e aghi dalle braccia, strizzando occhi e fronte dal dolore inaspettato. Poi, un salto dal letto, mentre la mano già si muove sul vaso. Però non accade ciò che pensavo: incespico sul pavimento, le gambe si fanno di burro e il braccio si allontana rapidamente dal vaso di fiori, dall'unica arma che avevo. Cado pancia a terra con un rumoroso tonfo, il sangue che mi cola dalle braccia, il camice aperto sul fondoschiena a rivelare proprio ciò che quel demone non avrebbe mai dovuto vedere e qualche fiore strappato, sparso vicino a me. Rimango immobile ai suoi piedi.

Sì, in questo momento voglio solo morire.

«Angel?!»

Il suo urlo preoccupato mi colpisce più di quanto avrei colpito io col vaso. Oh cristo, di nuovo con quel nome. Pensavo di averglielo detto mille volte, che mi chiamo Noah. Eppure, evidentemente i demoni hanno bisogno dei loro angeli per esorcizzare le proprie colpe: purtroppo sono l'angelo sbagliato. Io gliele farò pagare una per una. «Cazzo stai sanguinando.» lo sento mormorare, mentre i suoi passi si avvicinano ed io dondolo sul pavimento come un lombrico che cerca di ficcarsi nel terreno prima di essere afferrato dal bambino cattivo.

Ma è già troppo tardi. «Sei impazzito?»

Un paio di braccia forti, tanto quanto le sbarre metalliche di una prigione, mi sollevano da terra con un solo gesto, come se fossi troppo magro per procurargli qualche sforzo. Poi eccomi lì, sorretto fra le sue braccia come una fottuta principessa, riesco a sentire la sua mano sotto al posteriore che preme per tenermi in equilibrio, stringendomi forte una coscia come se avesse paura di farmi cadere.

Se fosse umanamente possibile, impallidirei e avvamperei insieme, in un'unica girandola variopinta di colore ed espressione. Paura, terrore, rabbia, indignazione, vergogna: tutto arriva molto in fretta, travolgendomi con un'unica ondata di nausea che mi assale insieme al mal di testa incessante, martellante contro alle tempie. «Dove cazzo sono gli infermieri?» Adesso si spaventa? Dal modo di lamentarsi, guardandosi intorno alla ricerca di un pulsante da premere, così pare.

Non ho ancora detto una parola, ma sono pericolosamente vicino al lanciare un urlo di avvertimento: non dovrei sentire quella mano sotto al mio sedere nudo, né dovrei sentire il suo petto solido contro alla testa, ma il mondo gira e si capolvolge come le montagne russe dopo un pasto abbondante. «Angel dì qualcosa, stai bene?» Starei bene se non ce lo avessi tanto vicino, se le nostre facce non fossero lontane di pochi centimetri, se il suo fiato non sapesse di menta e il mio di ospedale ed incidenti.

«ttimi giù...» biascico, con una voce talmente impastata e roca da essere quasi irriconoscibile. Mi schiarisco la voce. «Mettimi giù... Maniaco depravato di merda!» ringhio, ritrovando pian piano forza almeno nel tono. Pagherei per avere un bicchiere d'acqua, adesso. Ma pagherei anche per avere un coltello e la seconda scelta avrebbe più importanza della prima, decisamente. Un'occasione come questa non capita tutti i giorni. L'assassino dei tuoi genitori, nelle tue mani, e non puoi fare niente... Lacrime d'impotenza mi premono prepotentemente agli angoli degli occhi, ma nessuna fortunamente viene fuori.

Mi appoggia contro il letto e me lo ritrovo a stringermi i fianchi, piazzato fra le mie gambe come se non ci fosse assolutamente niente di strano in quella posizione. L'unica nota di consolazione è il camice, che non si è ancora arrotolato abbastanza da mostrare troppo ed eliminare l'ultima traccia della mia dignità. Lo sento trafficare con le lenzuola sul mio braccio, il mio sangue gli imbratta le mani come se si fosse appena macchiato di un nuovo omicidio e stesse goffamente occultando le prove. Un po' come la prima volta, in fondo. 


«Hai tentato di suicidarti?» Quella domanda risuona come uno schiaffo in pieno viso. «Hai davvero così tanta paura di me da preferire la morte?» chiede ancora, scandagliandomi con due occhi così chiari che è facile leggere il pieno di emozioni contrastanti, ma capirle tutte è impossibile.

E' arrabbiato? E' triste? E impaurito? Cosa diavolo è, chi diavolo è, questo matto che ho davanti?

«Tu sei fottutamente pazzo!» sbotto come una pentola a pressione, agitandomi fra le sue mani e allontanando le sue dita dalla mia pelle, il lenzuolo dalle vene, irrequieto ed infuriato, agitato, spaventato. «Come se volessi uccidermi! Per te, poi?!» Sputo una risata sprezzante, che dura per un breve secondo prima di sentire la testa girare a causa del tanto agitarsi.

«Sai cosa?» borbotta in risposta, ma in fretta cambia idea. «Anzi no, lasciamo stare.» ritira, corrucciando appena la fronte, concentrato a pulirmi sangue dal corpo senza rendersi conto che ne ha la felpa imbrattata. Stringo il lenzuolo sporco di rosso nei pugni serrati dalla rabbia. Ha paura di parlare forse? Si sente in soggezione dentro al luogo dove ha spento una vita? Ho forse, fra i tanti trucidati, mia madre non ha mai contato nulla?

«No avanti, dillo.» lo spingo, lo sfido, lo fisso come se fosse una bestemmia vivente e mi divincolo ad ogni suo tentativo di domarmi, pulendo il braccio leso dagli aghi strappati senza alcuna remora. Non capisco nemmeno perché si prenda il disturbo di fermare il sangue: ha versato quello dei miei genitori, non sarà strano vedere anche il mio sopra le sue mani. Vorrei soltanto poter vendicarli... Invece tutto quello che faccio è ricadere sul letto, fissandolo mentre indietreggia come se avessi detto o compiuto un reato gravissimo, più del suo.

«Dirti cosa? La verità? Quella stessa verità che ti rifiuti di ascoltare perché non sai far altro che aggrapparti ai racconti di persone che non c'erano e non ci sono mai state?» sembra incapace di fermare le sue parole, incapace di creare qualcosa di buono, frasi in grado di consolarmi, di non far tuonare quella macchina metallica accanto a me come se fosse un tamburellare prima di un'esecuzione pubblica. «Ho ingoiato tanta di quella merda che tu non puoi nemmeno immaginare, ma non ti permetto di darmi del maniaco o del depravato.»

La sua espressione rabbiosa mi fa mettere in dubbio tutta quella malsana e falsa preoccupazione che ho avvertito al suo arrivo: non è per niente triste, per niente apprensivo o gentile. Vedo la vena pulsargli sulla tempia e la faccia stringersi su se stessa in una terrorizzante maschera di astio. Come pretende che io non lo pensi, dopo che non ha esitato a mettermi le mani addosso? «Né di guardarmi con quella faccia dopo che ti ho pulito il culo per cinque anni, che mi sono preso cura di te come nemmeno tuo padre avrebbe saputo fare.»

Stavolta non esito nella mia insolente, collerica, risposta piena d'odio: «Mi hai rapito tu. Nessuno te l'aveva chiesto.» E ciò che è più frustrante è il mio non riuscire a ricordarmi nulla. Un flash, una visione, un frammento di un frammento di ricordo. Niente. Come se la mia mente volesse proteggermi da qualcosa che mai avrei dovuto vedere. Non contento, aggiungo: «E non mi suiciderei mai per te. Sei tu quello... quello che deve morire.» biascico, appoggiandomi stancamente sul letto, così vulnerabile sotto al suo sguardo, ma ancora pieno di veleno, schietto, crudele come una stilettata al cuore se solo ce l'avesse.

«Allora che aspetti?» Riesco inevitabilmente a sentirlo, il cambio, il mutamento nel tono. È come se all'improvviso scendesse del gelo dentro alla stanza e stalattiti di ghiaccio invisibili crescessero sul davanzale della finestra. Ricaccio giù il timore ingollando il groppo nella gola: deglutisco più volte finché non sento chiaramente il terrore prendere forma, comprendendo che i miei tentativi di fare il coraggioso siano vanagloriosi sforzi da malato. Non mi aiuterà nemmeno essere in un ospedale per cavarmela, stavolta.

La sua risata amara riprende quella che avevo lasciato andare poco prima, mentre allarga le braccia tornando a una postura più rigida, più statuaria e inquietante. «Vuoi uccidermi? Fallo.» È lui a sfidarmi ora, in un modo tanto pericoloso che gli occhi azzurri, con le palpebre strette, sembrano neri quanto i miei, ma ben più malevoli e pieni di cattiveria.

Vorrei così tanto poterlo fare. Vorrei che fosse facile spingerlo giù dalla finestra, vorrei che fosse semplice spaccargli in testa un bel vaso. Vorrei che si levasse di mezzo da solo, che non fosse cosi tremendo ogni volta vedermelo davanti, soffrire dinnanzi al suo viso. Quest'uomo mi ha rovinato la vita. Una famiglia, una casa, una reputazione... Mi ha tolto tutto. Non ho dei veri genitori, non ho un posto in cui mi senta davvero bene, né una dignità rispettabile, che non sia riconducibile al bambino di halloween che è stato, secondo i più idioti, vittima di pedofilia. Lo odio, odio lui e odio il mondo che ha fatto nascere Miguel Hebrew.

«Oppure scappa ancora, mettiti in salvo da questo luogo malsano, tornatene da dove sei arrivato.» Il suo sibilo cattivo non mi fa nessun effetto: non mi serve sentirlo da lui per capire che è esattamente quello che farò una volta che sarò in grado di stare in piedi. E poi arrivano le altre parole. Non delle, ma le parole, quelle che mi colpiscono la testa ferita riaprendo punti per continuare a tagliarmi in profondità, come se il vetro del parabrezza non avesse già fatto abbastanza. «Ma sappi che tuo padre, la merda che tanto ti preme di riscattare, si rivolterebbe nella tomba a sapere che te la fai sotto come una fichetta.»

Divento viola di rabbia, le guance paonazze, il respiro che è affluito dal polmoni per restarmi in bocca, nella faccia livida di vergogna e risentimento: come osa parlare di ciò che avrebbe pensato di me mio padre, se è stato lui ad ucciderlo?! Come osa anche solo nominarlo? Continuo a fulminarlo con lo sguardo mentre si sposta verso il bagno, per riempirmi un bicchiere ancora impegnato nella sua recita di finta premura: mi affretto immediatamente ad acciuffare il medesimo bicchiere che appoggia sul comodino e, in un'ondata di totale incoscienza, gli lancio addosso l'intero contenuto, dritto in faccia. «Questo ti sembra abbastanza coraggioso?» sibilo, ogni parola più tossica dell'altra, più affilata e rabbiosa.

Lo schizzo d'acqua è un attimo. Un secondo solo in cui tutte le mie forze si concentrano nello strattonare il braccio e centrare il bersaglio con una perfezione che forse non desideravo. Quando sbatte le palpebre, il mio cuore torna freneticamente a battere, con un amaro senso di pentimento a martellarmi la testa ferita: mi ucciderà, adesso mi uccide, ora lo fa. Tutto sta diventando una sfida alla sopravvivenza, perfino guardarlo gocciolante.

«Sai... Mi sono sbagliato su di te, Noah.» riesco a sentirla anche senza vederlo in faccia, la sua delusione. Per un attimo, sollievo e felicità mi attraversano così in fretta da farmi quasi vomitare, devo premermi una mano sulla bocca ed ingoiare più volte per scacciare la sensazione. Eppure c'è qualcos'altro. Negli abissi della mia anima, lì dove nessuno potrebbe mai arrivare, c'è un'altra emozione che mi spezza il fiato, mi piega sulle costole e mi fa stare ricurvo sul letto. «In fondo la mela non cade mai lontana dall'albero.»

«E meno male.» sibilo immediatamente, strigendo i denti così forte che la vista mi si riempie di piccoli pallini bianchi che danzano vicino alla sua faccia. «Noi due non siamo uguali e mai lo saremo.» puntualizzo: se aveva pensato anche solo per un momento che fossi come lui, si sbagliava di grosso. «Con quale diritto vieni all'ospedale mentre sono ferito, dopo che qualcuno ha cercato di ammazzarmi e dopo che mi hai rovinato la vita, mettendoti ad insultarmi?» Nonostante il pallore, devo avere la faccia purpurea di rabbia. «Con quale diritto vieni a mostrare la tua faccia?»

No, lui non ne ha il diritto. Non ce l'ha. Non siamo parenti, non siamo amici né qualsiasi altra cosa creda che io sia. Solo due persone collegate a filo spinato col passato, e io solo un ragazzino a cui ha tolto tutto e, senza che possa ricordarmelo, a cui ha dato tutto. Per cinque anni della mia vita qualcosa è accaduto e lui ne è l'artefice, il dio assoluto che ha governato su quegli anni. Lui ha le risposte, ma queste non gli danno il diritto di fingere che vada tutto bene, che i nostri incontri-scontri siano normali.

«Con quale diritto?» ripete, mentre lo fisso torvo senza dire una parola, consapevole di come non abbia battuto ciglio alla mia rivelazione su un tentato omicidio alla mia persona. Non ne è sorpreso? Se lo aspettava forse? «Quel diritto me lo hai dato tu quando sei venuto qua, quando sei entrato in penitenziario e hai chiesto di me.» Che scusa stupida: non può colpevolizzarmi per aver cercato di scoprire cosa fosse successo ai miei genitori e a me. Non può usare la mia ignoranza come pretesto per perseguitarmi. Eppure non rispondo. Lascio che sia la strana amarezza nel suo sguardo azzurro a comprendere l'invalicabile barriera di odio che si erge fra noi.

Stringe le labbra. «Vado a chiamare qualcuno che ti possa rimettere quella roba.» Indica le flebo. Che andasse a chiamare chi gli pare, penso, mentre si leva la felpa bagnata ed insanguinata restando in canotta. Continuo a fissarlo accigliato, seguendo il percorso delle gocce d'acqua che ora dovrebbero spostarsi impietosamente sul suo petto, accorgendomi solo dopo dell'ambiguità della cosa. Svio in fretta lo sguardo dal suo corpo, increspando la fronte.

«Prova a spostarti e avvererò i tuoi incubi, chiaro?» minaccia, prima di uscire dalla porta lasciandola socchiusa, come a farmi capire che in fondo non è ancora finita, che il pericolo è dietro l'angolo e devo solo aspettare. Seguo la sua figura finché non scompare del tutto al di là del mio campo visivo, con gli incisivi ficcati nel labbro inferiore e il cuore che batte impietoso incasinato la macchina cardiaca accanto a me. 

Magari è meglio fuggire, meglio scomparire, meglio prendere le chiavi della macchina e lasciare la città prima che mi faccia davvero vivere i miei incubi peggiori. Ma poi mi ricordo di ciò che ha detto di mio padre ed esito: no, lui non sarebbe andato via. Era un campione sportivo, avrebbe sicuramente affrontato la situazione di petto.

Sull'onda di questo pensiero decido di restare, inconsapevole di ciò che sarebbe accaduto dopo.





***

*NDA* 

Hola!
Volevo come di consueto fare un piccolo ringraziamento a giuli_milani per aver scritto il primo pezzo del capitolo dal punto di vista di Miguel e per aver descritto azioni e reazioni di quest'ultimo contrapposte alle mie di Noah. Thank you bedda gurl <3


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