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X: Colpa



Il modo in cui l'acqua si sta colorando di rosa mentre il sangue secco, piano piano, si distacca da me, mi fa venire i brividi. Mi pulisco la faccia sporca raccogliendone fra le mani con un certo impeto, con violenza, strofinando anche quando non c'è più niente da lavare via, anche quando non rimane che la mia faccia.

Riesco ancora a sentirlo nelle orecchie, il rumore delle ossa di Matt che stridono contro il metallo della trebbiatrice. Non credo che dimenticherò mai questo suono. Mi perseguiterà negli incubi, mi terrà sveglio nelle notti di pioggia, mi tormenterà l'anima fino a quando non sarò consumato dal senso di colpa per la sua morte.

Perché sono colpevole e non ho ancora detto nulla a Leo.

Ripenso a quando mi hanno trovato, quando la madre di Matt è arrivata nel fienile attirata dalla porta aperta e dai rumori, dalle grida. Le mie. Aveva le buste della spesa in mano e da una di esse, rotonde mele rosse cadevano a terra, rotolando rovinosamente vicino ai miei piedi, fermandosi contro le mie scarpe. L'idea di vedere del cibo mentre guardavo il corpo di suo figlio sfracellarsi mi era nauseabonda. Anche adesso, il ricordo di quei frutti, che avevano lo stesso colore di Matt mentre stava lentamente perdendo forma, diventando qualcosa di rosso e informe, è semplicemente vomitevole.

Mi lascio sprofondare dentro alla vasca, fino alla punta della testa, senza più soffocare il grido di terrore, di rabbia, di dolore che mi scuote dentro. Lo libero nell'acqua, guardo le bolle librarsi dalla mia bocca per solleticarmi le guance e il naso, riempiendomi il campo visivo.

Poi ripenso agli attimi dopo, alla polizia con le sirene spianate, a Leo che veniva fuori da una di quelle auto gridando e piangendo forte, anche se non aveva visto niente. Anche se non sapeva ancora niente.

Ma lui lo sentiva, lo sentiva nel profondo.

Un terribile incidente, sono stati capaci di dire. E' scivolato. Ha messo un piede in fallo. E' caduto nel posto sbagliato al momento sbagliato. L'avevo trovata una cosa orribile, in quel momento. Sminuire così la sua morte, per una sbadataggine. Non per una violenza. Non per colpa della mia scelta.

Lancio un altro lancinante grido nell'acqua, che mi riempie il capo visivo di puntini bianchi, prolungando il dolore alle corde vocali finché non mi manca l'aria, finché non ne posso più. Poi schizzo fuori con la testa a riprendere fiato, sgonfiando e pompando ossigeno dai polmoni senza meritarmelo. Ho ancora addosso il suo sangue e non mi merito niente. Forse quello che doveva morire ero io, non Matt, non Leo.

Affondo di nuovo nell'acqua sporca di sangue ma stavolta non faccio niente, spinto dall'unico impulso di aprire le labbra per respirare. Mi basterebbe così poco. Qualche goccia nei polmoni e poi... Un fiume in piena. Il fiato che s'arresta. Il cuore che si ferma. Mi basta davvero così poco.

Eppure, accade qualcosa che mi ferma in tempo. Un'ombra scura si affaccia sopra alla vasca, il volto bianchissimo è abbassato sopra di me, a guardarmi. Non capisco se sia un sogno o un'allucinazione venuta dal mio bruciante senso di colpa, ma diventa materia quando una mano guantata di nero si allunga sopra di me e mi afferra la testa. Poi, vengo spinto giù, a toccare il fondo di ceramica della vasca con la nuca. Impossibilitato a muovermi.

Allungo le mani sul suo polso, senza pensare se sia piccolo come quello di una donna o massiccio come quello di un uomo. Stringo, graffio, tiro, spingo. Con le gambe scalcio violentemente e l'acqua schizza da tutte le parti, ma non serve a niente, solo a farmi perdere velocemente le forze, a richiedere con più urgenza l'aria, che pian piano viene meno. Solo un attimo prima stavo immaginando di affogare da solo, lì, per conto mio.

Adesso l'idea di morire mi costringe a combattere, percependo una sensazione martellante contro la bocca del mio stomaco, che credo sia il mio cuore. Batte così prepotentemente che è l'unico suono che sono in grado di sentire dentro alle orecchie. Ruggisce, mentre dibatto il corpo come un'anguilla, cercando di sovrastare la forza dell'assassino con la mia. Impongo le mani sui bordi scivolosi di ceramica e cerco così di venirne fuori, facendo forza con il collo, urlando e gridando di rabbia in gorgoglii acquosi che confondono ancora di più l'immagine nera-bianca oltre il pelo dell'acqua, riempiendola di bolle.

E all'improvviso mi lascia andare. 


Scatto con la testa fuori dalla vasca così fulmineo che rovescio quasi tutta l'acqua all'interno, allagando il pavimento del bagno. Respiro così forte, boccheggiando, che sento le orecchie fischiare e la lingua mulinare nell'aria dentro alle labbra spalancate. Ma sono salvo, sono vivo, e il Mostro di Sunset Lane mi guarda inespressivo con la sua maschera bianca senza espressione, così immacolata, come se non avesse mai ucciso, mai fatto a pezzi, mai dilaniato. Come se non avesse mai spento una vita.

«Vedi? Tu vuoi vivere.» dice, terrificante con quella sua voce modificata da un aggeggio elettronico, che gliela rende lenta, grave, bassa. Di metallo. Disumana.
Mi manca il fiato per rispondere, e non so se sia a causa dell'annegamento, della paura o della rabbia. Mi trema furiosamente ogni fibra del corpo mentre la mente scandaglia un modo intelligente di rispondere senza stare al suo gioco e al contempo senza scatenare la sua ira. Ed ecco un paio di rintocchi dietro alla porta del bagno, che corro a guardare con un'angoscia paralizzante.

«Noah?! Tutto bene?»

La voce della nonna risuona ovattata lì dietro, o forse per le orecchie ancora piene d'acqua. Vattene via o ti ucciderà. Vattene, mi dico nella testa, senza smettere di tremare.Eppure, quando mi giro per controllare che il killer non stia per buttare giù la porta vendicandosi delle imprudenze e delle provocazioni che gli ho mosso nei scorsi giorni, mi accorgo che è sparito.

Non uno svolazzare del suo mantello nero, non uno scalpiccio di passi. La finestra è chiusa, ma è possibile farlo solo dall'interno. Così rimango a bocca aperta, terreo e tremante, senza fiato. E' appena successo qualcosa di raccapricciante e non c'è nessuno a cui poter raccontarlo. Mi sfioro lentamente il collo, come se mi aspettassi di sentire le prime avvisaglie di un livido, un accenno di dolore. Niente.

Possibile che io me lo sia solo immaginato?

«Noah?» ripete di nuovo la voce anziana della nonna, che mi richiama dalla porta chiusa. Finalmente rispondo con un verso gracido che dovrebbe tranquillizzarla. Scivolo immediatamente fuori dall'acqua sporca cercando riparo nell'accappatoio morbido, il cappuccio tirato fin sopra la testa e le spalle che non smettono di sussultare, non dal freddo ma dalla paura. Resto per qualche secondo immobile a fissarmi nello specchio, controllando alle mie spalle che non ci sia nessuno. Non ci sarebbero punti dove nascondersi, in questo piccolo bagno di ceramica bianca-azzurra e in questa vasca senza tendine. I nonni la usano a malapena, troppo pericolosa per loro: senza appiglio rischiano di scivolare facilmente, e così è rimasta una stanza inutilizzata sino al mio arrivo. Un po' come la camera da letto di mio padre.

Con le pantofone zuppe d'acqua che risuonano ad ogni mio passo, vado velocemente ad aprire la porta, cercando di simulare un'espressione neutra, calma, impassibile. Mia nonna mi tratta con i guanti di velluto, convinta che io sia sconvolto dopo quello che ho visto. Ma è stato molto più di quello, di vedere.

L'odore dolciastro e nauseabondo della carne, lo scricchiolio sinistro delle ossa, lo sgocciolio del sangue schizzato sulla faccia.

E' stato molto più del semplice guardare e so che non lo dimenticherò, nemmeno quando mi prende la mano fra le sue, nodose e un po' fredde, rese più gelide dall'oro degli anelli importanti che le cingono le dita. Nemmeno quando mi accompagna verso la cucina offrendomi una tazza di camomilla fumante che aspettava il mio arrivo. Ne accarezzo silenzioso il bordo affilando lo sguardo come un gatto rilassato, anche se lo faccio per pura tensione, con una linea che mi solca la fronte e un dolore persistente al petto.

«Nonna...» chiamo, e lei solleva la testa dal cucchiaino di miele che sta mescolando nella sua tazza con un sorriso sommesso. «Perché sta succedendo tutto questo?» Sospiro, sapendo benissimo che mi risponderà con frasi di circostanza, quelle che vogliono sollevarti l'animo facendo soltanto in modo di buttarlo ancora più giù. E' un bene che non ci sia anche mio nonno, ad infestare la stanza con le sue repliche di football e le sue imprecazioni. Non l'avrei sopportato.

«Non è colpa tua, bambino...» dice esattamente ciò che mi aspettavo, accarezzandomi leggiadra la mano. Quello che non sa, invece, è che è decisamente colpa mia. Sono io che ho firmato l'esecuzione di Matt, come fanno i giudici quando decidono la sedia elettrica per un criminale particolarmente efferato. Come fanno a dormire la notte, loro?

Sorseggio un po' di camomilla con il cuore in tempesta e troppa tristezza per piangere, troppo dolore per urlare. «Hai ragione.» mento, tenendo ferma la lingua fra i denti per zittirmi prima che possa tornare sui miei passi e dire la verità. Non racconterò niente di tutto questo a nessuno.

Né la polizia, né mia nonna, né Leo. Nessuno.


***


Il giorno dopo, mi serve molto più di una camomilla per superare la veglia di Matt.

L'atmosfera è più tetra e pesante di quanto potessi immaginare, per nulla alleggerita dal fatto che ci stiamo recando nella fattoria dei Foster – ho appreso il cognome del ragazzo di Leo solo stamattina – insieme ai genitori del mio amico, che dai brevissimi e sussurrati racconti che mi hanno mormorato, vivevano la sua relazione come se anche il biondo fosse un figlio loro. Passava molto più tempo di quanto potessi immaginare in casa Mikeller e in poco tempo gli si erano affezionati tutti, perfino la gattona antipatica che aveva fatto una fine impietosa come la sua. Per un momento ricordo anche quel piccolo cadavere peloso, rigido e privato delle budella sul porticato posteriore dei nonni, e un brivido gelido mi trapassa violentamente la spina dorsale. Però lo scaccio.

So che devo essere forte. Voglio esserlo, perché Leo non reggerà nemmeno per un momento.

Giro il volto verso di lui con una certa cautela, cogliendolo a fissare fuori dal finestrino con un'aria apatica e gli occhi assenti, enormi, cerchiati dal pianto; completamente disinteressato verso la distesa di campagne tutte uguali della Virginia. Non dice una parola, mortalmente silenzioso come la radio dell'auto, che hanno deciso di lasciar spenta anche se l'aria dentro la macchina è talmente spettrale da essere irrespirabile.

Non sono ancora riuscito a dirgli niente. L'unica cosa che ho fatto è stata stringerlo in un abbraccio ferreo, mentre aspettavo che i suoi genitori prendessero la macchina. Ma non ha ricambiato. E' rimasto lì, fermo, silenzioso, raggelato.

Mentre la strada verso la fattoria s'avvicina, infittendosi di abeti e di piccoli laghi luccicanti di verde, ripenso a quell'insieme esagerato di foto tenute insieme sulla lavagnetta di sughero nella stanza di Leo. Mi chiedo se le lascerà lì o se le toglierà, troppo addolorato dal ricordo. Io ho lasciato le foto di mio padre nella camera da letto, ma non l'ho mai conosciuto: è come se non mi facessero alcun effetto. Anzi, la sua ombra di gloria che chi lo conosceva continua a non ritrovare in me, non fa che rendermelo irritante.

Ritorno al presente, cercando di farmi un po' più vicino al posto di Leo, strisciando sul sedile. Non so se sia il senso di colpa o l'amicizia a muovermi, ma di certo non è la compassione. In troppi l'hanno avuta verso di me e so quanto possa essere frustrante. Così accosto le gambe alle sue, gli appoggio una mano sul ginocchio, cercando di creare un contatto fisico per fargli capire che ci sono. Che può contare su di me, che può piangere sulla mia spalla.

Però non fa niente ed io non forzo la mano, limitandomi a restare in quella posizione finché non raggiungiamo la fattoria, intravedendo il tetto rosso e bianco del granaio dove Matt... Scaccio precipitosamente il ricordo così com'è arrivato, ma la nausea non passa. Può solo peggiorare quando nell'uscire, intravedo la teglia di insalata russa che hanno preparato i Mikeller da offrire alla famiglia del defunto, come da tradizione.

Strizzo le palpebre e mi faccio forza sulla veranda, inspirando l'aria pura della montagna appena sporcata dall'acqua di colonia che intinge il collo del padre di Leonard, un omone scuro, alto ma per niente massiccio, al contrario di sua moglie, bassina e altrettanto minuta, ma dalla pelle bianchissima e gli occhi affilati come due mandorle.

«Hai preso l'insalata?» chiede lei verso il marito, accorgendosi solo in ritardo che lui stringe in mano la teglia. Siamo tutti molto stressati e stravolti, ma a quanto pare loro riescono a nasconderlo meglio dalle espressioni.

Leo si tiene a testa bassa, le mani ficcate nella giacca nera, tanto quanto lo sono i pantaloni e la maglietta. Non siamo ancora al funerale e non c'era bisogno di vestirsi così cupamente, ma c'era da immaginarsi che avrebbe evitato quei maglioncini rosa fluo che fino ad un paio di giorni fa ostentava senza porsi il minimo problema, saltellando ovunque per i corridoi con la solita aria spensierata che lo caratterizza. Ho paura che non lo sarà più, d'ora in poi. Che non ci sarà il cheerleader chiaccherone a sollevarmi il morale durante le lezioni più noiose o i momenti più cupi.

Mi accosto a lui, camminando lento per stare al suo passo, senza fare caso alle persone che si voltano a guardarci – guardarlo – quando solchiamo l'ingresso. Non avevo mai visto la casa di Matt, ma è rustica esattamente come mi aspettavo un cottage da fattoria, con tanti divani colorati, il legno rossiccio dei mobili e il pavimento cotto su cui camminare d'estate è sempre un piacere, visto come raccoglie il fresco. Adesso, quell'insieme di colori vivaci mi sembra solo grottesco.

Sulle pareti sono appese una vera sfilata di foto del biondo, alcune prese dai social, altre scolastiche come quelle risalenti al periodo in cui faceva parte della squadra di football, altre ancora da bambino e la maggior parte insieme a Leo. Alcune sono doppioni di quelle che ho già studiato in camera del cheerleader, altre invece non le avevo mai viste: i due che mangiavano insieme da un'enorme fetta d'anguria, che si tenevano abbracciati davanti ad un tramonto affacciato sulle Blue Ridge Mountains, che mostravano i loro costumi coordinati da Van Helsing e Dracula per una festa di halloween.

Sembra avessero condiviso una vita insieme, un'esistenza intera di avventure, risate, amore e forse tante altre cose che le foto non hanno mostrato. Una vita che io ho distrutto. Quasi mi sento mancare, avvertendo ad ogni immagine una stretta al cuore, un nuovo scorcio di ricordi che loro non vivranno più.

Quel perverso gioco di sensi di colpa finalmente trova la sua conclusione grazie a Joil ed Amy, fino ad allora sedute insieme su una poltrona, strette strette, a sfogliare in sincrono un album sull'infanzia del nostro amico, ed invece ora davanti a noi. Joil ci offre due bicchieri di vino rosso ma il solo pensiero di sorseggiare qualcosa di quel colore mi chiude lo stomaco rendendolo delle dimensioni di una nocciolina. Una sola goccia e rischierei di rimettere.

Leo strizza le labbra, senza fare cenni d'approvazione o negazione, lascia solo che Amy l'abbracci, fugacemente, spostandosi con ossequioso rispetto all'arrivo di una donna biondiccia che riconosco subito in rapidissimi flash. Mele. Paglia e metallo insanguinato. Occhi azzurri sgranati. Grida.

Faccio un passo indietro, come se la sola vista della mamma di Matt mi facesse male al cuore, scegliendo di allontanarmi per lasciare a lei e al mio migliore amico un po' di intimità in cui confidarsi, rivelarsi, consolarsi.

Vago verso il tavolino delle vivande senza toccare cibo, scivolo fra i muri della casa ossevando in silenzio altre foto che mi ero perso con una prima occhiata. Lancio qualche sorriso mesto a conoscenti che ho visto gironzolare per i corridoi o al fianco di Leonard, qualche amica cheerleader, qualche studente dei corsi del biondo che aspettava a diplomarsi insieme a lui. Per colpa mia non si diplomerà mai.

Sull'onda di quel pensiero, un vecchio signore mi acciuffa violentemente per il polso, scuotendomi un po' il braccio. «E' colpa tua.» sibila a denti stretti sotto i baffoni, ripetendo ciò che penso come se mi avesse letto nella mente. «Tua madre era una puttana e tuo padre era un sudicio violentatore!» Rimango a bocca letteralmente spalancata. «Hai portato il male in questa città dal momento in cui sei arrivato qui!» ringhia, continuando a stringermi il polso così forte da sentire dolore.

Non ho idea di chi sia, ipotizzo un parente ma non ne sono sicuro. Non ho nemmeno la forza di fermarlo, troppo sconvolto e colpevole per dire qualcosa in mia difesa. «Tornatene da dove sei venuto!» incalza, con uno sguardo che mi fa venire i brividi fin dentro alle ossa.

«Signore?» Una voce maschile molto familiare risuona alle mie spalle, così cerco di fare appello alla mia memoria per capire chi sia prima di vederlo. «Non è proprio il modo di trattare un ragazzo.» Scivola davanti a me, dandomi le spalle per guardare in faccia l'anziano. Il suo è un tono di cortesia, ma giurerei di sentire un accenno di minaccia. «E soprattutto non in questa circostanza.» Mi offre il profilo liberandomi dalla morsa del vecchio e finalmente posso riconoscerlo.

«Professor Lewis!» esclamo, del tutto sorpreso di ritrovare lì il mio professore di letteratura. Non ho nemmeno finito di preparare il suo compito sulla Phantasmagoriana, con tutto quello che è capitato nel mezzo. «Grazie...» mugugno, strizzando le labbra mentre alterno un'occhiata scettica dal vecchio torvo che ha già trovato altre occupazione agli occhi verdi dell'insegnante, non troppo nascosti da un paio di occhiali da vista all'ultimo grido, con una sottile montatura dorata dall'aria fragile.

«Non turbarti per ciò che è appena accaduto.» si affretta a dire, notando la mia espressione contrariata. «La gente non ha rispetto per questi momenti delicati.» Mentre parla, mi accorgo che non mi ha ancora lasciato la mano. E' calda e gentile, ma il fatto che mi stringa ancora senza che io possa allontanarlo mi mette a disagio.

«Ma lei cosa ci fa qui?» domando, cogliendo l'occasione per studiarlo. Indossa un maglioncino blu notte sopra ad una camicia bianca aperta un poco sul petto, le maniche arrotolate il giusto a mostrare gli avambracci e un rolex, jeans azzurri e scarpe eleganti, ma non troppo da essere eccessive. Sembra proprio un uomo da città, non ha niente a che fare con Sunset Lane.

«Matt Foster era uno dei miei alunni più brillanti. Ero certo che potesse ambire ad un buon college, dopo il diploma.» ammette, con un'aria piuttosto abbattuta. Se Carter era a malapena compianto, per Matt è completamente diverso: tutti tenevano a lui e ci tengono ancora.

«Non era solo quello. Era davvero un bravo...» Prima che possa completare la frase, mi accorgo che Leo sta salendo le scale che dal soggiorno portano a chissà dove, e non ho intenzione di lasciarlo andare da solo. Ne approfitto per far scivolare via le dita dalla presa del professore. «Mi scusi!» mi affretto a salutarlo per camminare svelto verso le scale, seguendo la figura tenebrosa di Leo.

E' un aggettivo che non gli si addice per niente, ed è per questo che so di non doverlo lasciare solo. Alla fine delle scale c'è un corridoio ben acceso, con una sola porta lasciata aperta, a dare l'idea che cinque ci possa entrare. Inizio ad avere un brutto presentimento, che tengo per me sino a quando non metto piede all'interno della stanza, scoprendo di avere ragione.

Sopra al letto di Matt c'è la sua bara, perfettamente chiusa, ma riposta lì in modo che tutti i visitatori della veglia possano salire a dare un ultimo saluto al defunto. Ho il cuore di ghiaccio e le mani acquose per come sono tremanti e sudate, come se temessi il momento del crollo di Leo e sapessi di non poterlo sopportare, almeno non senza fingere.
Tenere la maschera dell'amico invece che dire la verità, che mostrarmi colpevole come sono davvero.

Quel momento crudele non tarda ad arrivare: il mulatto si lascia cadere a terra, carponi accanto a letto, le braccia gettate sulla bara e la guancia poggiata sul legno freddo. E piange. Il suo dolore è così forte che mi colpisce come un pugno nello stomaco, come un calcio in bocca, lancinante come se mi avessero strappato il cuore. Non mi accorgo nemmeno di piangere anch'io finché non sento una lacrima aggrapparsi al mento come se avesse paura di cadere sul pavimento.

Poi non reggo più. «Mi dispiace...» biascico, asciugandomi frettolosamente le lacrime dalle guance, perché non sono io quello a cui serve consolazione. «Se non fossimo andati alla polizia...» aggiungo, con una voce strozzata che quasi non riconosco.

Ma lui non fa caso a me. Non gliene importa niente del mio dispiacere e dei miei rimpianti, se ne infischia dei miei sensi di colpa e delle mie lacrime nascoste. Continua a piangere a scossoni e singhiozzi, violentemente, senza mai staccarsi dal coperchio della bara, come se fosse l'unica cosa rimasta a cui aggrapparsi.

«Sai... In questa stanza è stata la prima volta che abbiamo fatto l'amore...» parlotta con la voce rotta e gli occhi velati di dolore e malinconia, guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa. Indica la scrivania spigolosa con un sorriso apparentemente divertito, ma evidentemente distrutto. «Lì mi ha preparato per una marea di esami. Si sapeva sempre come andava a finire.» Si mette a ridere eppure continua a piangere, senza prendersi il disturbo di asciugarsi la pelle che tornerebbe subito bagnata. Le lascia andare, abbandonandole una ad una. «A quella finestra ci siamo fatti un sacco di selfie. Dicevo che la luce da lì ci faceva venire proprio bene.»

Ogni frase è uno schiaffo in piena faccia, qualcosa che gli ho tolto, qualcosa che non tornerà.

E poi all'improvviso torna a quell'espressione apatica e un po' folle che gli conferisce un'aria preoccupante. «Devo vederlo.» esclama, stringendo con le dita il coperchio pesante di legno.

Strabuzzo gli occhi e subito mi catapulto a trattenerlo sopra il resto della bara, così pallido da sembrare un fantasma. «No.» rispondo così bruscamente che, finalmente, si gira a guardarmi. Devastato dalla testa ai piedi. E' l'unica cosa che potrei dire dopo lo sguardo che mi ha gettato.

«Devo. Vederlo.» incalza, rabbioso, disperato, premendo e spingendo per liberare il suo amato da quella gabbia lignea e chiara che è stata scelta per lui.

«No!» urlo, lasciandomi investire tutto insieme dalle immagini orrende del suo corpo: carne tritata senza forma, senza volto, senza arti, senza anima. Istintivamente mi allontano dalla bara, travolto da una nausea così violenta che sono costretto a premermi una mano sulla bocca per trattenermi dal vomitare proprio lì, in quella stanza.

E poi il coperchio cade a terra con un tonfo fortissimo, rivelando ai miei occhi orripilati l'interno. Non c'è niente. E' vuota.

Che stupido che ero stato a pensare che potessero riempirla. E che cosa avrebbero dovuto metterci? Solo i polpacci, niente di più. Mentre l'idea mi assale con una nuova ondata di disgusto, dalla porta spalancata si affacciano gli invitati alla veglia, affollati a controllare cosa sia successo per colpa del fracasso, che al piano di sotto è possibile sia risultato ancor più violento per il disperdersi del suono.

«Che sta succedendo qui?!» Tuona un uomo biondo che, dalle foto che ho visto, intuisco immediatamente sia il padre di Matt.

La risposta che arriva dopo mi lascia di ghiaccio. «E' stato lui.» Indica Leo, proprio verso di me, con un'espressione indecifrabile. «E' stato lui.» ripete, mentre lo stupore si diffonde fra la piccola folla concentrata nella stanza. Se possibile, divento ancora più terreo di quanto già non sia.

Mi sta punendo? Mi sta punendo per essere andati alla polizia e aver scatenato quella reazione nell'assassino? Mi sta punendo perché non gli ho permesso di guardare nella bara? O forse mi sta punendo perché sono l'ultimo che ha visto il suo ragazzo? Nessuno ha pensato di chiedermi perché fossi arrivato in fattoria prima di scoprire il corpo, senza Leo. Era sospetto, giusto?Il padre di Matt si limita a rivolgermi una sola parola, dura e fredda. Umiliante come uno sputo in faccia. «Vattene.»

Faccio un passo indietro, ferito, agghiacciato da quella svolta. I miei occhi si fermano solo per qualche secondo su Leo, che non mi guarda ma rimane a fissare la bara vuota, l'interno di seta bianca ed immacolato, ignorando completamente la mia presenza. Joil ed Amy mi scrutano ad occhi sgranati. Il professore sembra confuso, accigliato come i signori Mikeller, ed il vecchio aggressore assolutamente soddisfatto di essermi dimostrato quello che aveva capito fossi sin dall'inizio.

Alla fine, sotto allo sguardo duro dei Foster, mi giro sulle gambe tremanti e scendo velocemente la scala, umiliato e tradito, senza sapere più cosa dire ma convinto che non avrei più rimesso piede in quella casa.

Esco chiudendo la porta pianissimo, col desiderio che si dimentichino velocemente di me, mentre io faccio i gradini del portico a tutta velocità, sentendomi bruciare di vergogna, di rabbia, di tristezza. So di avere ancora le lacrime agli occhi, come so di non avere alcun mezzo per tornare a casa, ma non m'importa. Anzi, realizzo qualcosa di fondamentale, la mia colpa primaria, quella all'origine di tutto. Non sarei mai, mai e poi mai, dovuto venire qui.

"Tornatene da dove sei venuto!" ha detto il vecchio. "Vattene" rintocca la voce del padre di Matt, come un pendolo che segna l'orario definitivo, quello di arrendersi. Di assumersi le proprie colpe e ritirarsi. E mentre maturo la mia decisione, intavedo un paio di anfibi di pelle sul mio ristretto campo visivo, concentrato sull'asfalto.

«Noah.» Un accento bolscevico pronuncia il mio nome e, se la mia memoria non inganna, dev'essere la prima volta che lo fa. Sono sempre stato Lentiggini, per lui. Alzo rapidamente il viso, senza sapere cosa provare in questo momento. Senza capire come reagire, che espressione fargli, come difendermi. Mi sento solo vulnerabile ed esposto.

«Dimitrij.» rispondo di rimando, alzando lo sguardo arrossato dal pianto e messo ancora più in risalto dal pallore mortale che ho assunto. Le mie lentiggini devono sembrare una distesa di sassi neri in mezzo alla neve, i miei riccioli un confuso groviglio di rovi secchi. Lui invece, è bello come lo è sempre stato negli ultimi giorni, con la giacca di pelle e un dolcevita a collo alto verde scuro che si abbina alle imprevedibili sfumature che acquistano i suoi occhi cangianti in mezzo alla natura. Appoggiato indolente alla sua moto, con una sigaretta ancora spenta penzolante dal labbro inferiore e un'aria perennemente ribelle.

Comunque, non ho ragione di aggiungere altro, così alzo i tacchi e lo raggiro. Se devo tornare a piedi, è meglio che lo faccia subito, perché la strada è davvero lunga.

«Che stai facendo?» Inizia a camminare dietro di me, seguendomi senza perdermi di vista.

«Me ne vado.» parlo seccamente, a denti stretti e pugni chiusi. «Me ne vado da qui e anche da questa città.» sbotto, cupo e collerico, anche se la mia ostinazione dura ben poco vista la prontezza che ha nell'acciuffarmi per il braccio facendomi girare velocemente verso di lui, scontrandomi al suo petto.

«Cosa hai detto?» Le sue labbra schioccano dallo stupore e, anche se solo per un istante effimero ed illusorio, mi sembra di vederlo agitarsi. Ma forse è solo la mia immaginazione, che cerca consolazione in una giornata pessima.

«L'hai capito, ho detto che me ne vado.» Sì, l'idea inizia a prendere forma, consolidandosi fino a diventare certezza. «E comunque la veglia è dall'altra parte.» borbotto, divincolandomi senza tanti complimenti dalla sua morsa per continuare a camminare da solo. Fermandomi alle sue parole.

«Sono venuto per te.» Mi volto a guardarlo da sopra ad una spalla. «Volevo vedere come stavi.» aggiunge, ed io rimango ancora una volta a bocca aperta. Ora, però, faccio il percorso a ritroso per piantarmi davanti a lui con una faccia tutt'altro che felice.

«Come pensi che stia? Il ragazzo del mio migliore amico è morto e lui mi ha appena accusato di aver rovesciato la bara, che pare non contenga nulla visto che il corpo è troppo devastato per essere lì.» Divento ancora più torvo. «Io l'ho visto.» sussurro e deglutisco insieme. «Ora tutti lo sanno e sono stato cacciato via.»

Lo osservo alzare le sopracciglia in un moto di sorpresa. «Be' caspita. Perfino io non sarei capace di causare tutto questo scompiglio.» dice, come nella speranza di farmi sorridere, con una mano che mi scivola sui riccioli per scompigliarli. Non ha molti effetti, ma almeno mi porge il casco con un'aria complice. «Salta su.»

Non ho motivo di farmi pregare: indosso l'armamentario e mi acciambello dietro di lui, avvolgendogli la vita con le braccia. Quella vicinanza inaspettata all'improvviso mi rende irrequieto, ma riesce a scacciare gran parte del turbamento che mi ha afflitto sino ad ora. In silenzio, sento la moto ruggire e poi schizzare velocemente via dal portico, mettendo distanza fra me e la fattoria, fra me e quelle persone che pensavo di conoscere, fra me e il luogo dov'è morto Matt.

«Dove ti porto?» mi urla il russo cercando di sovrastare il ronzio del motore e il ruggito del vento, che gli scompiglia le ciocche bionde facendole volare da tutte le parti.

«A casa mia!» Non ho idea se sappia dove vivo, se conosca l'indirizzo dei nonni che mi ospitano e forse non m'interessa davvero dirglielo, come se sperassi di perdermi insieme a lui nei boschi, per momenti interminabili sulla sua Harley Davidson nera.

«Tieniti forte allora!» E schizza veloce come una scheggia, lavando via con la forza bruta del vento le lacrime, lo sbigottimento e il senso di colpa, per lasciare solo la purezza della mia determinazione e la forza della mia stretta intorno al suo busto.

Il giro si dimostra anche troppo breve. Dopo una decina di minuti siamo già davanti alla porta dei nonni ed io mi libero del casco consapevole di dover sembrare una specie di fungo, a giudicare dal suo sorrisetto. Mi scuoto il cespuglio di riccioli con una mano, restituendo il casco con l'altra con un'aria piuttosto impacciata.

«Grazie.» Sono il primo a parlare, con la mascella contratta e chissà quale aspettativa nella testa. Invece lui non fa niente, così mi limito a voltarmi per iniziare a salire le scalette del portico. Prima che possa arrivare alla porta mi parla.

«Hai veramente intenzione di andartene?» chiede, serio. Curioso. Ma c'è anche qualcos'altro e lui lo nasconde prendendosi una sigaretta dalla tasca della giacca, accendendosela con uno scattare fluido dello zippo.

Sospiro. «Sì, non è stata un'idea intelligente venire qui. Sin dall'inizio.» affermo, scrollando lentamente le spalle. Nella mia testa iniziano a susseguirsi il mare di guai che ha generato il mio arrivo: pettegolezzi, morte, omicidi e Miguel. Soprattutto Miguel. Non ne avrebbe saputo nulla. Sarei semplicemente sparito dalla circolazione. Un bel modo di vendicarsi, dopo avergli fatto una certa promessa: nulla mi ha detto, nulla ha ricevuto.

«Mmh..» Dimitrij mi strappa velocemente da tutti i pensieri che mi tormentano raggiungendomi sulle scale del portico. Sembriamo avere la stessa altezza, lui a terra e io un paio di gradini più in su. «Però è un peccato, perché iniziavi a piacermi sul serio, Lentiggini.» ammette, fissandomi con occhi colorati di nero, per come si riflettono tanto bene nei miei.

Sussulto, sentendo le guance farsi rosse come l'intrico di rose che ha tatuate sul collo. «Sì, certo...» Tento velocemente di minimizzare ma inizio a ricordarmi delle sue mani sul mio corpo, nella sua stanza, da soli. E' stato soltanto poco tempo prima, ma con tutto quello che è successo in mezzo sembra passata una vita intera da allora. Purtroppo però, il ricordo è ancora vivido dentro di me. Se possibile arrossisco ancora di più e prontamente cerco di entrare in casa, ma lui non mi lascia molte possibilità visto che, con la stessa prepotenza di quella volta nello stanzino delle scope, mi prende il viso fra le mani e mi bacia.

Ansimo, schiudendo le mie labbra nel piacevole istante in cui incontrano le sue. Immagino non gliene importi nulla se qualcuno ci guarda, nel bel mezzo del quartiere tanto per bene dei miei nonni. Non importa neanche a me, al punto da lasciarmi andare nella sua presa dondolando con la punta delle scarpe sull'orlo dei gradini e reggendomi alle sue spalle. Ricorderò questa sensazione? Di tabacco, di agrumi e di vertigini nella pancia?

«Resta.» sussurra a fior di labbra, con la fronte appoggiata alla mia e le ciocche scure e chiare che si fondono in un incontro di biondo e castano, trattenendomi con le mani sulla schiena. Ma io sciolgo lentamente il nostro abbraccio e mi sottraggo scuotendo la testa riccioluta.

«E' meglio così. La mia vera famiglia ha bisogno di me ed io li ho lasciati per il passato...» Ripenso al volto contrito di mio padre e al silenzio di Josh dietro alla porta. Sono a malapena riuscito a strappargli qualche sillaba per telefono. Qui invece, non ho avuto altro che violenza e minacce.

Sospira. «Se hai deciso...» Si allontana sul marciapiede, scosta il fermo alla moto con la punta del tallone e ci monta su, infilandosi il casco senza allacciarlo. «Non posso farci nulla.» Però sorride impercettibile, come se fosse deliziato dalla mia ostinazione. Mi guarda ancora per un po', mentre resto fermo sulla porta a fare lo stesso. «Allora fai buon viaggio, Lentiggini.» mi punzecchia per un'ultima volta e poi mette in moto, sparendo oltre la curva irta di alberi.

Rimango solo, io e la casa dei nonni, io e le foto di Tyler, io e il davanzale della finestra di Leo che si vede dalla mia. Acciuffo la valigia con difficoltà, che avevo ben impilato sopra all'armadio convinto che non mi servisse più: la riempio con una velocità insperata. Devo fare in fretta perché so che, mentre mio nonno sarà al bar a oziare e bere una birra insieme ad un altro gruppo di vecchiacci antipatici, la nonna avrà quasi finito di fare la spesa e come di consueto mi chiederà una mano a portare le buste in casa. Per quanto sia grato verso di loro, soprattutto di lei, non voglio andarmene quando sarà arrivata.

Mi guarderebbe con gli occhi di chi crede di essere stata abbandonata, come fa mentre fissa le foto di Tyler. Quel genere di occhi che riescono a farti cambiare idea. Ecco perché ho fretta, ecco perché ho già finito di fare la valigia. Ecco perché dentro alla mia mano guizzano le chiavi del mio fidato fuoristrada.

Alla fine rimaniamo soltanto io, il vecchio pick-up e Kurt Cobain, che con la sua voce graffiante sa modellare il mio umore e ma non riesce a scacciare la malinconia inaspettata dentro al mio animo. Ho scelto un pessimo momento per partire visto che è già sera e il primo motel nelle vicinanze sarà a diversi chilometri dal paese che mi appresto a lasciare, però sono attrezzato: ho comprato un tazzone enorme di caffè dal bar di Charlie – a cui ho rivolto un semplice mezzo sorriso, senza dire niente – e così mi terrò sveglio.

Alzo la musica, tengo aperti di un filo i finestrini, con qualche dito di aria fredda che mi rivolta i capelli a suo piacimento. Ogni tanto guardo indietro nello specchietto di fronte a me e non per sicurezza verso le norme della strada, ma per ripensare a ciò che resta alle mie spalle: sto lasciando la nuova vita che mi ero costruito e so che un po' mi mancherà. A partire da Leo, così gioioso e vitale, per poi arrivare fino a Dimitrij, decisamente il primo ragazzo che abbia avuto l'ardire di baciarmi. Sento premere contro al petto una strana sensazione di tristezza e di urgenza, come se la mia mente urlasse di girarmi e di tornare indietro. Di finire quello che ho cominciato con Miguel. So che manca poco per sapere qualcosa di importante, se lo torchiassi ancora...

Stringo le mani sul volante e mi obbligo a restare sulla strada buia, non senza buttare giù un sorso di caffè, più amaro di quanto mi aspettassi. Abbasso gli occhi sul sedile per appoggiarlo senza rovesciare tutto e, quando li rialzo, mi accorgo che, molto più lontano rispetto a me, c'è un macchinone nero fermo sulla mia corsia. Ha gli abbaglianti accesi e non si muove.

Aggrotto la fronte, le palpebre strette e accecate, rallentando per lampeggiare più volte, con uno strano presentimento che inizia a farsi strada dentro di me e che non mi piace. Il cuore comincia a battere forte, troppo forte, e il mio stomaco si rigira nel momento in cui la macchina spegne gli abbaglianti ma non si sposta, anche se sa che mi sto avvicinando. Perciò decido che la cosa giusta sia semplicemente superarlo.

Non appena lo realizzo, l'auto scura si mette in moto. Così rapidamente che resto fermo qualche secondo di troppo a guardare la vettura schizzare verso il mio pick-up a tutta velocità, come sperando in uno scontro frontale che io non riuscirò più di tanto ad evitare. Premo fulmineo sull'acceleratore, ruotando bruscamente il volante per sterzare di lato quel tanto che basta a cambiare corsia ed evitare l'incidente, ma esco di strada sfondando il guard rail senza riuscire a fermarmi.

E' tutto troppo veloce: l'impatto violento della macchina contro gli alberi, lo scoppio dell'airbag, il fischio nelle orecchie, il lampo lancinante di dolore alla testa. 


Poi, resta solo il buio.

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