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VII: Interrogatorio


C'erano questi due bambini.

Non si sapeva di preciso in quale tempo, in quale spazio, o in quale mondo. C'erano semplicemente questi due bambini che ridevano, seduti sul parquet di mogano di un soggiorno, le ginocchia nude appena scorticate per i residui di qualche gioco pericoloso che avevano fatto il giorno prima, appena qualche crosticina rossa formatasi sulla pelle giovane. Due bambini seduti davanti alla tv, ad ignorare il cartone animato di cui trasmettevano sempre la stessa puntata, specie a quell'ora del pomeriggio, noiosa, lunga, infinita.

C'erano questi due bambini che non si annoiavano mai, comunque, perché c'era qualcosa di speciale fra di loro, un legame, l'amicizia indissolubile di chi condivide minuti, ore, giornate insieme, crescendo e abituandosi l'uno all'altro fino a litigare per la stanza più grande, per le coccole più lunghe, per il giocattolo più bello. Il legame c'era. O almeno così credevano, mentre facevano scontrare i loro robot di plastica in un duello più vocale, che fatto di gesti, per quante onomatopee riuscissero a formulare con le loro boccucce.

C'erano questi due bambini. Poi, ad un certo punto, non più.


***


Nell'immaginario comune le cittadine disperse fra i boschi degli Stati Uniti, specie quelle nel Maine, nella Georgia o nella Virginia, sono un vero paradiso di sciroppo d'acero e banalità. Le donne si fanno tutte la stessa piega, i ragazzini scorazzano in strada in skate e biciclette costose, gli adolescenti fanno sempre le solite stupidaggini sui social. L'ultimo un po' come nel resto del mondo, insomma. Il mio piano era fare queste cose scontate anch'io. Sarei rimasto in casa dei nonni a scostare le tendine della vecchia stanzetta di mio padre guardando da lontano le Blue Ridge Mountains, sospirando per l'arrivo di un'altra noiosa ed insopportabile giornata di scuola. Un'altra in cui avrei visto il solito postino lasciare il solito giornale sulle solite cose davanti al solito portico. Una giornata qualsiasi.

Ma mi sbagliavo.

Sulla prima pagina del giornale di oggi c'è Carter, il corridore della squadra di football del liceo. La foto è stata ripresa dai pezzi iniziali del video, mentre è ancora imbavagliato, affiancato dal pazzo che fissa nell'inquadratura con due occhi scuriti dalle cavità buie della maschera bianca. Tutto qualche attimo prima di venir sgozzato con un coltellaccio come un maiale. Nessuna immagine cruenta, però. Solo lo sguardo orripilato del ragazzo, un pezzo di scotch sulle labbra, un assassino al suo fianco.

Le lettere cubitali gridano al grande ritorno del famoso mostro. Alcuni sull'innocenza di Miguel Hebrew, altri ancora su un emulatore, addirittura certe teorie su un possibile complice mai acciuffato. Le autorità e i politici locali non hanno rilasciato interviste. Gli unici ad infestare interi paragrafi sono proprio i commenti dei genitori più influenti della città: uomini d'affari, donne in carriera, e magari sì, anche le casalinghe più popolari del quartiere più in vista.

La scuola, invece, ha ufficialmente riaperto. Ma oggi non ci saranno le lezioni. Nessuna dormitina sul banco durante la lezione di matematica, nessun pericolo nel dover sezionare una ranocchia nel laboratorio di scienze e nessuna pallonata a tradimento dall'allenatore odioso. Da quello che hanno preannunciato "le voci" di corridoio, oggi ci sarà un lungo ed estenuante interrogatorio, più o meno per la maggior parte degli studenti. Io non sarò interpellato, si suppone, visto che a malapena conoscevo la vittima.

O almeno lo spero. Perché anche se mentire a me stesso mi fa sentire meglio, sono estremamente consapevole di trovarmi nei guai. Io ho fatto lite con lui, a scuola. Poi deve essere successo qualcosa di terribile, perché mi sono risvegliato nel bosco senza vestiti e il mio pick-up era proprio sul ciglio del bosco. Non ho fatto niente, ma questo non significa che qualcuno non mi abbia visto nella stessa zona dove è stato ucciso.

«No, davvero... Va tutto bene, Josh.» sospiro contro al cellulare, lasciando tremolare le ciglia in un accenno di stanchezza, una vaga angoscia che mi attanaglia lo stomaco e che può essere solo amplificata dopo il sogno di stanotte. Mi sono svegliato di soprassalto, con il cuore che mi scoppiava nel petto e il sudore che mi appiccicava i riccioli contro la nuca. Ho ancora le unghie consumate dallo sforzo che ho usato per artigliare il lenzuolo e la mente del tutto confusa, obnubilata dal ricordo quasi totalmente scomparso di ciò che ho sognato. Non riesco a seguire per niente i discorsi di mio fratello. «Scusa, devo chiudere... Ti racconterò dei nonni in un altro momento.»

Riaggancio in fretta, socchiudendo gli occhi mentre sto ancora ad oziare nel parcheggio scolastico, in un blando tentativo di tornare in me, riprendermi, scacciare l'ansia che sta giocando con le mie budella come un gatto con un gomitolo. Non c'è Leo al mio fianco, oggi. Temo che sia arrabbiato perché, nel caos generale, non ho avuto tempo e forse nemmeno la voglia di rispondere alla trentina di messaggi che mi ha mandato. L'argomento è stato vario: cosa è successo con Dimitrij nello stanzino, come stavo dopo aver visto il video, se Dimitrij mi ha contattato o si è preso il mio numero, se sapevo dell'interrogatorio previsto per il giorno dopo, se ero sconvolto quanto lui. Mi ha perfino invitato a casa sua per parlarne nella giornata scolastica saltata, ma io l'ho passata con Miguel per poi piangere un fiume di rabbia nella stanza di mio padre, ancora una volta, come sempre dopo i miei incontri con quel folle. E' sempre la rabbia, che mi tira brutti scherzi.

Ho pensato, quindi, che almeno oggi volesse venire a scuola con me, invece non c'era nessuno ad aspettarmi sul ciglio della strada strillando su autobus persi e frullati macrobiotici. Ho perfino bussato alla porta, vedendo emergere un gattone rosso e ciccione e una minuta donnina asiatica che, a quanto ho appreso, è la madre di Leo.

All'improvviso, il telefono inizia a vibrare contro la mia mano, facendomi sobbalzare sul sedile dell'auto con una mano stretta al petto dallo spavento e dalla sorpresa. «Merda...» Lascio andare un rumoroso sospiro. Numero Sconosciuto.

«Josh?» rispondo immediatamente. Non sono passati nemmeno dieci secondi dalla chiusura della chiamata, perciò deve essere per forza lui. Invece, dall'altro capo del telefono, sento solo silenzio. Appena flebile il suono di un respiro. «Pronto?» Una strana, brutta, spiacevole sensazione si impossessa del mio corpo, facendomi formicolare le dita dei piedi, le gambe, le ginocchia. «... Chi parla?» La mia voce diventa sussurrata, rigida, come se avesse assunto una materia, una forma.

«Josh, eh?» Una lunga risata metallica proporompe dall'altro lato del cellulare. Abbastanza macabra da farmi accapponare la pelle. Capisco immediatamente di chi si tratta, e l'impulso di chiudere il telefono è così forte da farmi male alle dita. Eppure la paura mi paralizza nell'istante in cui lui torna a parlare, la voce irriconoscibile, sporcata dal timbro robotico di qualche modificatore vocale. «Ciao, piccola star.»

Mi precipito fuori dall'auto, sentendo mancarmi l'aria, anche se me ne pento immediatamente. Rischio di crollare ginocchia a terra per quanto sia atterrito in questo momento. «Ma chi diavolo sei?!» cerco di sibilarlo, ma la voce che mi viene fuori è un rantolio spaventato. E' lo stesso che mi ha scritto il giorno che sono arrivato a Sunset Lane. E' lo stesso che mi ha spostato il pick up. Ed è quasi sicuramente lui. L'assassino.

«Sono quello che ti farà capire che la tua vita è sempre stata una schifosa bugia.»

Poi, chiunque ci fosse dall'altra parte, chiude immediatamente la chiamata. Un pesante silenzio si impossessa del mondo intorno a me. Uno che non riesco a colmare. Uno che mi lascia a fissare lo schermo del cellulare con la bocca secca, la gola arsa e le mani che provano a chiudere la macchina senza riuscire ad infilare la chiave nella toppa, le dita mi tremano troppo. Non ci riesco. Non riesco a respirare. Cerco di focalizzarmi sui dettagli intorno a me. Gli alberi al di là della scuola, la fila di macchine e il giallo sporco degli scuolabus. I fiori accatastati intorno al cancello, davanti ad una foto di Carter, ora diventati ancora più numerosi. Fiammelle di candele accese, striscioni con cuoricini e frasi strappalacrime: ne seguo la linea di pennarello, le sbavature.

Respira. Respira. Respira.

«Noah?» Sobbalzo, schiacciando la schiena contro lo sportello dell'auto come uno che ha appena evitato di essere investito all'ultimo secondo e ha ancora nelle orecchie il ronzio feroce della macchina.

«Cazzo!» impreco, respirando rumorosamente, la faccia china e le mani sopra le ginocchia. «Mi hai spaventato a morte.» riprendo fiato, raddrizzandomi. Sono così teso che potrei spezzarmi in due.

«Scusa... Non volevo.» La voce un po' aspra ed infantile di Charlie risuona dietro alla matassa di capelli neri, mentre gli occhiali gli calano sul naso a stare col viso incurvato verso il basso. Smilzo e dinoccolato, reggeva fra le braccia un portatile privo di custodia e qualche foglio che rischiava di volargli via da un momento all'altro. Da una rapida occhiata, mi accorgo che si tratta del risultato del corso facoltativo d'informatica, una bella A + cerchiata in rosso.

«Oh, non mi aspettavo di incontrarti così presto, Charlie.» rispondo, lieto che sia un tipo così tranquillo. Chiudo finalmente l'auto e gli faccio un cenno col mento per invitarlo a proseguire verso le gradinate al mio fianco. Lui non dice niente, al contrario di Leo, cosa che ordinariamente apprezzerei, ma sono troppo nervoso e troppo pieno di pensieri per tacere. «Ehm... Ecco.. Non ti ho visto l'altra sera, alla festa.» Mi giro a guardarlo mentre cammino. «Per caso non ti piacciono i party?»

Superiamo la cancellata, il tempo necessario nel sentir dire a qualcuna che nonostante tutto, Carter è stato "la miglior scopata della sua vita". Fantastico. Alzo gli occhi al cielo, raccapricciato dall'unione di morte e sesso che si susseguono in una sola frase.

«Quale festa?» domanda il corvino, con l'espressione di chi non sa davvero di cosa io stia parlando. Sollevo le sopracciglia, sorpreso. Mi pareva, quella sera, che fosse stata invitata l'intera scuola. Anzi, l'intera comunità studentesca di Sunset Lane.

«La festa di commemorazione di Carter. Quella a casa di Helen.» lo dico con un tono un po' perplesso, come se cercassi conferma da lui. Ma a giudicare dalla sua espressione ho preso un granchio: nessuno gli ha detto nulla. Nemmeno Leo, Matt, Joil o Amy. Il che mi lascia totalmente di stucco. La comprensione gli si dipinge nelle pupille ma ci mette poco ad incassare il colpo, perché poi alza le spalle.

«Non mi invitano a queste cose.» Scuote la testa, sollevandosi gli occhiali tartarugati con la punta dell'indice. Per un istante provo pena per lui; poi rammento che prima di arrivare qui ero esattamente come lui. Un asociale disinteressato, in pratica. E lo sarei ancora, se solo le disgrazie di famiglia non fossero tanto celebri.

Gli sorrido, o almeno mi sforzo di farlo, visto che il mio morale raggiunge picchi talmente bassi da stare sotto agli stivaletti che a Leo piacciono tanto. «Be', non ti sei perso niente. Era solo una stupida festa.» Sì, una stupida festa dove è capitato di tutto. Ho sorpreso il mio nuovo amico – e forse non più tanto – a fare un imbarazzante servizietto al suo ragazzo, mi sono ritrovato chiuso in uno stanzino con Dimitrij Jones che mi ha baciato così tanto che sento ancora le labbra bruciare, ma soprattutto ho visto il video in cui il ragazzo più antipatico della storia veniva sgozzato come un animale. Una stupida festa. «Ma è finita subito quando il video...»

Non continuo la frase. «Oh, quello l'ho visto. Incredibile vero? Avevano detto che era stato investito! Credi che sia una specie di complotto?» esclama, velocemente e con lo sguardo coinvolto di chi è davvero interessato alla faccenda. In un modo forse un po' inquietante, visto come gli brillano gli occhi dietro alle spesse lenti.

«Che? Un complotto?» Gli lancio un'occhiata stranita, un attimo prima che la campanella suoni, interrompendo il discorso. «Che lezione hai?» chiedo frettolosamente, per capire se ci troveremo insieme in qualche aula.

«No, abbiamo quell'assemblea con la polizia, nella sala relax vicino alla biblioteca.» Mi ricorda, seguendo i numeri sugli armadietti che s'affastellano per i corridoi, evidentemente alla ricerca del suo. Il cuore torna a balzarmi in gola, insieme a quel famigerato peso sullo stomaco che ti viene quando nascondi qualcosa e sai che ti porterà una marea di problemi.

«Vieni con me?» Spero con tutto me stesso che dica di sì. Non ho voglia di entrare nella stanza e avere gli occhi di tutti addosso. Ed essere completamente solo a sopportarlo.

«Ehm... No, lascio il pc nell'armadietto e poi il compito nell'aula d'informatica. Ma vengo dopo.» Non che abbia molte alternative, visto che la partecipazione è obbligatoria per tutti gli studenti. In ogni caso, manda in fumo le mie speranze.

«Oh.» Cerco di non dare a vederlo, anche se devo incominciare già a prepararmi a quello che dovrò affrontare. Per lo meno Leo mi stava sempre al fianco e le sue chiacchiere inutili aiutavano a non sentire ciò che dice sempre l'intera scuola di me. «Credo che me ne farò una ragione.» Inizio a voltarmi, ma poi cambio idea. «Oh, Charlie. Sul serio non ti sei perso niente, alla festa. Fregatene se non t'invitano, sono solo degli stronzi.» E forse lo sono anche Leo e gli altri, ad aver taciuto. Quel sorrisetto di derisione di Joil, quel definirlo "il ragazzo dei compiti"... Non mi piace. «Se hai voglia di parlare con qualcuno, cercami quando vuoi.»

Non ho una risposta da parte sua, solo un imporporarsi di gote e un verso d'assenso misto ad un risolino imbarazzato. Poi, dopo avergli dato il mio numero, inizio ad incamminarmi verso la famigerata sala relax, senza sapere quello che mi aspetta.


***


Il silenzio si dipana come il filo da un gomitolo, aprendosi, sfibrandosi e al tempo stesso ingarbugliandosi in un incrocio di sguardi che mi trafiggono da tutte le parti. Chiudo la porta della sala relax dietro di me e mi costringo a guardare avanti, senza spiaccicare le pupille al suolo. Come un disperato vado alla ricerca dei miei "amici", ma non mi sembra di vederli da nessuna parte, perciò vago fra ampi tavoli circolari pieni di studenti che mi fissano bisbigliando. Il bambino di Halloween e il mostro di Sunset Lane che ritornano nella stessa settimana. Esilarante, vero? Non per me.

Analizzo per bene la stanza: divanetti accatastati contro i muri, un paio di macchinette di snack e bibite e una serie di tavoli circolari con più sedie. Più che una sala relax, è un luogo dove si può mangiare in santa pace all'ora di pranzo se si vuole evitare la mensa oppure dove leggere i libri presi in biblioteca senza essere bollato come il secchione che passa tutto il tempo con la testa fra gli scaffali rispettando la severa regola del silenzio e dell'assenza di cellulari. O almeno questo è quello che ho sentito dire.

Mentre cammino, scontro inavvertitamente il piede verso la gamba della sedia di una ragazza, che per l'urto si volta a guardarmi e, con gli occhi stretti in due fessure, sibila all'amica ad una voce abbastanza alta perché io possa sentire: «E' tornato per colpa sua.» E si volta di spalle, ritornando a mescolarsi con la baraonda di facce sconosciute che tuttavia mi fissano come se conoscessero ogni mio più piccolo, sporco segreto, e fossero pronti ad usarli tutti contro di me. Mi allontano, turbato, col respiro che inizia pericolosamente ad aumentare, una mano che si aggrappa alla macchinetta e le orecchie che registrano il suono elettrico dei tasti che sto pigiando involontariamente. Fra l'orlo delle ciglia intravedo un braccio sollevarsi e capisco immediatamente che è un cenno verso di me. E' Leo.

Sono così felice di vederlo in questo momento che lo riempirei di abbracci e di ringraziamenti, ma non faccio nulla, semplicemente mi affretto a raggiungerlo sul suo divanetto salutando tutti gli altri: Matt, il cui braccio circonda la schiena del cheerleader; Joil, che si stende sulle labbra un rossetto nerissimo osservandosi in uno specchietto ed Amy, che sonnecchia sulla spalla della sua ragazza con le ciocche rosse sparse vivacemente sulle guance, con tutta l'aria di una che non ha dormito per niente. Forse non sono l'unico che ha fatto brutti sogni. Forse non sono l'unico a cui scoppia il cuore dalla preoccupazione per colpa di un folle in circolazione.

«Allora, come sta andando?» domando, con un nodo d'angoscia che mi azzanna lo stomaco, mi mozza il respiro, tentando di mantenere la calma. Devo riuscirci. Ma guardo il cheerleader come in cerca di una soluzione a tutti i mali. La panacea contro i guai.

«Non so dirtelo. Per il momento hanno chiamato alcuni della squadra, quelli più vicini a lui...» Il primo a rispondere è Leo, che appoggia i gomiti sulle ginocchia arcuandosi sulla schiena, le mani intrecciate e le labbra premute fortemente sulle nocche. Matt gli strofina le spalle come se gli tenesse a bada la pelle d'oca. «È davvero assurdo però. Insomma, l'hanno ammazzato e in quel modo atroce... Non l'avrei augurato nemmeno al mio peggior nemico.» Aggrotta la fronte per mezzo secondo. «Giusto. Era lui il mio peggior nemico.» Emette un risolino nervoso ed intreccia le dita fra quelle del suo ragazzo. «Temo che facciano il mio nome.»

«Hai paura di essere accusato?!» sbotta Joil, quasi sobbalzando dalla poltrona. La risata bassa che le vibra nella gola ha un che di amaro e sincero. «E allora siamo tutti sulla lista dei sospettati. Tutti avevano almeno una ragione per odiare Carter.» Ma lui aveva una ragione per prendersela con me all'uscita della scuola? No. Quindi... È improbabile che chiedano di me. Improbabile che mi chiamino all'interno della segreteria, dove la polizia sta interrogando gli studenti scelti da una lista specifica. Perché se entrassi lì dentro sarei in un guaio così grande che non voglio nemmeno pensarci.

"Non raccontare niente di tutto questo a nessuno, o ti sventro"

Socchiudo gli occhi, massaggiandomi la radice del naso. Devo concentrarmi su altro. È questo il segreto. Perciò mi faccio piccolo sulla poltrona mentre il volto gira da tutte le parti alla ricerca di una chioma bionda e uno sguardo chiaro del colore della carta da zucchero. Una giacca di pelle e uno zippo argenteo fra le dita. Lo sfavillio di una fiammella. Il sapore del tabacco. Mi pizzico le labbra fra le dita per qualche istante, e se le mie lentiggini potessero parlare adesso sulle mie guance sarebbe il caos. Eppure, quel Dimitrij non si vede da nessuna parte.

Nell'istante in cui lascio che il pensiero prenda forma nella testa, una vibrazione persistente fra le dita mi distrae di nuovo. Un messaggio dall'utente Unknow ... E so già chi è. Vorrei avere il coraggio di ignorarlo, ma ho troppa paura per riuscirci. Il chiacchiericcio degli altri quattro diventa un sottofondo, un conto alla rovescia, il ticchettio di una bomba che esplode. Poi, silenzio. Prendo in mano il cellulare e leggo. La mia mano trema fortissimo.

"Il gioco sta per iniziare, superstar... Ma la polizia non fa parte della nostra partita. Ricordatelo, se non vuoi che strappi le interiora ai tuoi amici mentre ancora respirano."

Mi si ghiaccia il sangue nelle vene. L'immagine di Carter che viene sgozzato davanti alla telecamera del cellulare si moltiplica, intensifica e sovrappone con il viso di Leo. Il messaggio è chiaro. Per qualche secondo mi guardo attorno, giusto per verificare chi abbia un telefono in mano. C'è una ragazza che dal modo in cui pigia il cellulare pare stia giocando a qualche app piuttosto impegnativa. Una che, accanto all'amica, fa selfie in un momento impensabile come questo. E poi un duo di ragazzi che guardano lo schermo fianco a fianco forse leggendo un articolo o guardando un video insieme. Non può essere nessuno di loro.

C'è la possibilità che l'assassino non sia in questa stanza. C'è la possibilità che non sia neppure uno studente. C'è perfino l'assurda e surreale possibilità che sia Miguel, che architetta magistralmente tutto dalla prigione.

«Noah, tutto bene? Sei pallido come un fantasma.» mi chiede Amy, che ormai è la ragazza premurosa del gruppo. Si è ripresa da quell'attimo di stanchezza e adesso mi scruta sbatacchiando le ciglia chiare, appoggiandomi una mano sul ginocchio come a cercare di rincuorarmi mentre ingoio il rospo.

«Sì, sì, io... Sono solo un po' stressato.» lascio scivolare fra i denti un rumoroso sospiro. Mi trema la voce. «Forse non sarei dovuto venire.» Lo dico senza pensarci, come se le parole fossero sempre state lì, sulla mia bocca. Dovevo solo liberarle dallo spazio stretto fra lingua e palato. Gli altri rimangono di stucco, sebbene si preparino subito ad aprire bocca per ribattere. Finché non accade l'impossibile.

«Noah Sanders? Tocca a lei.» esclama la voce scocciata della segretaria, mettendo una spunta sulla sua lista. Io, invece, resto fermo. Di ghiaccio. Non mi muovo dalla poltrona, nemmeno quando le facce degli studenti si muovono per cercarmi con lo sguardo in mezzo alla sala. Nemmeno quando mi trovano. E mi fissano, in silenzio, godendosi lo spettacolo. Il bambino di Halloween che, atterrito, non ha intenzione di sostenere l'interrogatorio riguardate il mostro di Sunset Lane, quello che ha ucciso i suoi genitori. Poverino. La compassione e lo scherno si carnificano e mi circondano come dei nemici armati che attendono di accoltellarmi. Socchiudo gli occhi. Immobile. «Sanders? Sanders?»

«Noah, ti stanno chiamando. Devi andare!» incalza Leo, che sembra essersi arrabbiato di essere stato ignorato ieri. Ho ancora il cellulare pieno dei suoi messaggi senza risposta. Ho ancora i messaggi dell'anonimo assassino. Non posso entrare in quella stanza e mettermi a parlare con gli agenti. Non posso sostenere un interrogatorio. Non posso nemmeno muovermi. Ho il cuore che scoppia nel petto, che urla in gola, le bussa nelle orecchie, mentre lacrime di disperazione premono dietro alle palpebre, aspettando soltanto che io vacilli. Il respiro viene meno.

Poi, un suono di passi che incombono verso di me. «Non hai bisogno di essere così fedele ad una scommessa.» Una voce familiare, una mano che s'impone sotto al mio avambraccio e mi tira su, in piedi, spingendomi ad aprire gli occhi. Senza lacrime a rotolare sulle guance. «Hai dimostrato di essere un piccolo ribelle, Lentiggini.» L'americano roco di Dimitrij di sparge per l'intera sala, mentre un sussurro rotola lento dentro ai miei canali uditivi. «Andiamo.»

Scommessa? Dimostrare? Non so di cosa stia parlando. So solo che in qualche modo mi ha salvato, visto che gli studenti si guardano fra loro con l'aria un po' perplessa ma meno soddisfatta di aver quasi assistito ad un attacco di panico. Adesso avranno altro di cui parlare: le scommesse che il temibile russo e il figlio degli assassinati si fanno quando nessuno li guarda. Il cheerleader mi lancia un'occhiata stranita mimando con le labbra "C o s a ?!" Scuoto la testa. Ormai sono in piedi e non ho più modo di evitarlo: mi lascio accompagnare nella segreteria adiacente alla sala relax, intravedendo oltre la porta socchiusa le divise marroni e beige dello sceriffo di città e la sua spalla.

Il biondo mi sta al fianco e non accenna ad allentare la presa sul braccio, con la stessa forza di due sere precedenti, se non fosse che le nostre labbra sono distanti anni luce e le mie vengono torturate dagli incisivi, nel pallido tentativo di eliminare il ricordo di un bacio che minaccia di mandarmi in tilt in un momento come questo. E forse è una fortuna, perché riesce a farmi dimenticare che ci sono cose peggiori da affrontare.

Lo sceriffo è un uomo di mezza età alquanto robusto, difficile definire se sia per lo stereotipo delle ciambelle o se si tratti di muscoli ammorbiditi dal tempo, con un paio di baffoni scuri e gli occhi incavati sotto sopracciglia foltissime. Lo sguardo non sembra molto acuto, ma non mi permetto di giudicare prima di sentire cosa ha da dire. In piedi, appoggiato al muro dietro alla scrivania ove è seduto il suo capo, il vice mi osserva con un'espressione seria e braccia incrociate in una postura che fa vedere i muscoli guizzanti anche attraverso la camicia beige e la cravatta nera tirata fino al collo. Pelle chiara e pulita, capelli scuri tagliati corti, occhi a mandorla e lineamenti asiatici; arresto la mia breve analisi nell'accorgermi che anche lui fa lo stesso e ricambia il mio sguardo, serissimo. Deglutisco.

«Abbiamo chiamato solo Sanders.» puntualizza lo sceriffo, facendomi cenno con la mano massiccia di sedermi ad una delle due sedie di fronte alla scrivania. Quasi con la coda fra le gambe mi costringo a prendere posto, ma non senza guardare cosa farà il motociclista. Prima che parli, il mio sguardo indugia sul tatuaggio di rose che spunta dal collo rotondo della maglia blu notte, nascosta sotto alla giacca di pelle usurata.

«Che male c'è, verrà anche il mio turno, non è vero?» Afferra il pacco di sigarette e con nonchalance se ne infila una in bocca, davanti a loro, tranquillamente al chiuso. «Vi sto solo facendo risparmiare tempo.» parla con le labbra premuta intorno al rotolino di carta e tabacco, che, mentre cerca l'accendino, gli viene strappato dalla bocca dal baffuto e accartocciata nel vasetto di un piccolo cactus all'angolo della scrivania. La segretaria non ne sarà molto felice; quanto al russo ridacchia, alzando le mani in segno di resa.

«Come sta tuo padre, Jones?» esordisce il vice, con una punta di malizia – di quelle cattive, che sembrano insinuare qualcosa fra le righe – e uno sguardo che giurerei vedersi riempire di scintille fra i due. La voglia di sapere che cosa intende dire è terribile, ma la scelta più saggia è restare in silenzio, specie notando come il biondo digrigna la mascella. E così faccio.

«Oh, se la passa piuttosto bene.» Si spaparanza sulla poltrona al mio fianco, acciuffa una pallina anti-stress dagli oggetti sulla scrivania ed inizia a giocarci, facendola rimbalzare da un palmo all'altro. Con tutta l'aria di uno che se la spassa, fregandosene di dov'è e con chi. «Perché non vi occupate del vostro interrogatorio, eh?» continua, con un mezzo sorrisetto impudente. La cosa spinge lo sceriffo a schiarirsi la voce e tornare a me. Mi irrigidisco.

«Allora, Sanders... E' una strana coincidenza che quando è arrivato lei, ha fatto la comparsa anche l'assassino dei suoi genitori.. Non crede?» dice, mentre io mi concentro sul sobbalzare del suo baffo per non cedere troppo al nervosismo. L'importante è restare sul vago. Solo che non riesco a parlare: quando ci provo, la bocca rimane sigillata. Il vice e Dimitrij si voltano a fissarmi. Abbasso lo sguardo. «Allora?» Sento la punta del suo anfibio spingere contro la mia scarpa.

«Non lo so.» ribatto, sentendomi inerme. Con le spalle al muro.

«Perché sei tornato qui dopo tutti questi anni?» continua, afferrando una penna per incominciare a ticchettare con la punta del cappuccio, facendola scattare più volte. A questo ho una risposta, per lo meno.

«Avevo bisogno di capire quello che è successo ai miei genitori. E' da poco che ho preso la patente, ragion per cui ne ho avuto la possibilità solo ultimamente.» dico, iniziando a sentirmi un pelo più sicuro. Finché mi chiedono cose di cui posso parlare, va bene.

«Quindi supponi sia un caso che l'assassino sia tornato quando l'hai fatto tu?» insinua, continuando a ticchettare con la penna. Una, due, tre volte. Le mie pupille sobbalzano per seguirne la traiettoria, il movimento del cappuccio. Cerco di focalizzarmi sui dettagli intorno a me, mentre il silenzio si espande, ingombrante come il faso rosa fluo del cactus e quella sigaretta lì in mezzo al terriccio.

Le labbra carnose del biondo si scuciono in una risata divertita. «Era su tutti i giornali della città. Chiunque avrebbe potuto saperlo.» Lancia alle autorità uno sguardo di sfida. «Ma voi lo sapevate già, vero?» Mi sta salvando di nuovo, ancora una volta. Incredibilmente. Mi volto a guardarlo per lanciargli un'occhiata colma di gratitudine, ma lui ignora bellamente la situazione, continuando a fissare ostinatamente la finestra alla sua sinistra, per sottolineare che di tutta la faccenda se ne frega. Comunque, lo sceriffo gli scocca un'occhiata severa e riprende a guardarmi.

«Eppure, siamo a conoscenza delle sue visite a Miguel Hebrew.» interviene il vice, aspettando il momento giusto per non sovrapporsi al suo superiore. «E' consapevole del rischio che corre facendo una cosa simile?» Un colpo allo stomaco. Mi sembra quasi di avvertirlo, che mi scava sotto alle costole, facendosi strada fra gli strati dei vestiti. Sono anche consapevole dello sguardo del sovietico che preme su di me e della sua sorpresa. Lo noto con la coda dell'occhio, come stia sgranando le palpebre.

«Sì.» Ho fatto di peggio: ho stretto un patto con lui, finendo per promettergli di vivere con lui. Di mangiare con lui. Di dividere il letto con lui. Il solo pensiero mi fa venire la strizza. Ma preferisco ingannarlo, che cedere alle sue condizioni.

Il baffone e l'asiatico si rivolgono un rapido sguardo, poi il primo riprende. «Conoscevi il corridore della squadra di football?» continua a chiedere, con un'aria scocciata, senza notare che torno a farmi di sale sulla sedia, che sembra troppo piccola, come la stanza intorno a me. Le pareti sembrano volermi cadere addosso, mi schiacciano, minacciano di sopraffarmi, inglobarmi nella scuola, nel pavimento.

«N-no.. Come.. Come potevo?» inizio a balbettare, abbassando lo sguardo per poi sollevarlo e ricacciarlo velocemente giù, sulle ginocchia. Mentire è davvero la cosa giusta? Forse l'assassino non saprà mai che ho parlato. Forse, se faccio giurare ai presenti di tacere... «So solo che...» Forse, se mi limito a dire che mi ha tirato un pugno, le cose non andranno troppo male. «Era un tipo piuttosto antipatico. O così mi hanno detto, ecco.» Ma non posso permettermi di rischiare.

«Mmmh...» Appunta qualcosa sui suoi fogli muovendo il baffo con l'aria di chi rimugina parole a caso fra i denti. «Non c'è nient'altro che vorresti aggiungere? Niente che ti venga in mente?» E' un'ultima possibilità, ne sono consapevole. E' un salvagente mentre la tempesta infuria. E' un paracadute mentre il suolo si avvicina ad una velocità terribilmente elevata. E' un'occasione. Un: ora o mai più.

«No.» Scelgo la seconda opzione. «Niente.» E sprofondo nell'oblio dell'angoscia più oscura di tutte. Quello di non sapere cosa accadrà una volta superata la giornata. Ci penso e ci ripenso, intanto che gli sguardi e le attenzioni si focalizzano sul ragazzo al mio fianco.

«Be', io non ho mai parlato con quel corridore.» Alza le spalle. «E' gente noiosa.» Si sporge verso la scrivania, appoggiando la palla fra gli oggetti della segretaria sparsi sulla superficie lignea. «Ormai li fanno tutti con lo stampino... Come il suo vice, no?» Un occhiolino alle spalle dello sceriffo, mentre il diretto interessato alza un sopracciglio rivolgendogli uno sguardo piuttosto gelido, pur restando in silenzio. Poi, senza neanche aspettare di essere congedato, si alza in piedi, mi acciuffa per il polso e mi trascina con sé. Ho giusto il tempo di leggere le targhette dei due uomini – Davidson e Park – e biascicare un rapido saluto.

La porta della segreteria che si chiude dietro di noi è il segnale che mi serve per ricominciare a respirare. Al tempo stesso, è un segnale per il resto della popolazione studentesca di voltarsi a guardarci, le espressioni frementi di curiosità. Leo si alza in piedi, affrettandosi a raggiungermi e poi bloccandosi a metà strada, notando che il "lupo solitario" della scuola mi tiene la mano e non accenna a lasciarla, né a fermarsi, camminando verso l'uscita della sala relax, ma non prima di acciuffare il suo casco nero.

Una volta fuori mi lascia andare, rovistando nelle tasche per prendersi una seconda sigaretta, che va ad accompagnarsi alla bocca con un gesto quasi elegante, oserei dire. Per qualche istante, ho quasi il timore di parlare. Il ricordo delle sue labbra, del sapore agrumato che scivolava nella lingua; il ricordo dei suoi capelli morbidi vicino alle mie guance, della mano vicino al cavallo dei pantaloni, di tutto il suo corpo premuto nello spazio stretto di quello stanzino... Le sensazioni aggrediscono ferocemente, facendomi sbandare sulle gambe. Un clangore di metallo, e mi appoggio ad un armadietto a caso, notando che si ferma anche lui.

«Prima, con la faccenda della scommessa... E poi, con lo sceriffo.» elenco, facendo una pausa. «Mi hai aiutato.» aggrotto la fronte, senza perdermi il movimento che fa col collo per sciogliersi le spalle, in un modo che pare far muovere i rovi di rose tatuate sulla pelle. «Perché?» Forse è più premuroso e gentile di quanto potessi credere. Forse non sono tutti così terribili, in questa scuola.

«E' semplice.» La fiamma dello zippo guizza davanti alle labbra e balla sulle guance, scintillando nella penombra dei corridoi in una giornata poco soleggiata come questa. Resta in silenzio qualche secondo, sicuramente godendo il fatto di lasciarmi lì, sulle spine. «Perché così sarai in debito con me.» Lo guardai gongolare di gusto, mentre la mascella mi cedeva lasciandomi a bocca spalancata. «E poi, mi piacciono le tue lentiggini... Lentiggini.» ripete appositamente due volte, come a ricalcare la differenza fra quello che c'è sulle mie guance e quello che sono. A farmi capire che forse non sono le prime a piacergli.

«....» Rimango basito, a metà fra lo sconvolgimento di essere stato preso in giro sulla sua bontà d'animo e la convinzione di sentirlo prendersi nuovamente gioco di me. E io che pensavo fosse premuroso... E' un bastardo senza sconti di pena. Un bastardo patentato, in pratica.

«E così, vai a fare visita al terribile mostro.» aggiunge, scucendo la guancia in un ghigno per poi puntare gli occhi cangianti nei miei, solo per farmi notare quanto i suoi riescano a riflettere il nero pecioso del mio sguardo. «Devi avere una mente davvero oscura per poterlo sopportare.»

Assottiglio lo sguardo, indispettito. Non so cosa mi faccia più arrabbiare: che creda di potermi aiutare nei miei momenti di debolezza per sfruttarmi, che ficchi il naso negli affari miei o che mi ritenga tanto debole da non poter tenere testa a Miguel. Ed è per questo che mi volto di spalle, con tutta l'intenzione di andarmene. Ma non prima di rispondere, con un tono inviperito: «Non ne hai idea.»






***

*NDA*
Hola a tutti!
Scusate, scusate, SCUSATE per l'immenso ritardo! Questo capitolo è stato una specie di parto, ma ce l'ho fatta, finalmente! Sono convinta che ci sarà qualche errore sparso, ma la mia voglia di pubblicarlo al più preso ha prevalso sul prendermi anche il tempo di correggerlo... Ragion per cui, scusate i refusi e grazie per la lettura! <3

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