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VI: Patto col diavolo

«Cazzo.»

Sì, cazzo era proprio la parola giusta, perfetta per descrivere la situazione nella quale si trovava. Le parole del suo avvocato ancora gli rimbombavano in testa: "Posso farti uscire, ti farò uscire, abbi ancora un po' di pazienza... Il vero assassino pare sia ricomparso." Il sorriso troneggiava sulle labbra di Nathan Green, un sorriso per nulla tranquillizzante ma crudele, sadico, di quelli che ti lasciano i brividi su tutto il corpo per giorni, per anni, eppure allo stesso tempo ti seduce ed elettrizza portandoti a sorridere a tua volta. A condividere quella pazzia che l'avvocato emanava... Eppure non ci trovava nulla da ridere il galeotto, perché il "vero assassino" era in gabbia. Era in prigione e lo sapevano entrambi, anzi, lo sapevano tutti che era stato Lui ad ucciderli, a togliere di mezzo quella feccia, ma le prove mancavano. Anche questo, loro, lo sapevano perfettamente.

Miguel Hebrew non era in prigione come assassino ma come rapitore. Avevano anche cercato di incolparlo di pedofilia, abuso su minore, eppure anche lì le accuse erano cadute dopo poco. Ancora li ricordava gli interrogatori, le sedute e il tribunale... Non aveva mai aperto bocca, Nathan era la sua voce e solo in poche occasioni gli era stata data la parola; ma anche in quei casi ciò che diceva era frutto della mente dell'avvocato. Solo una volta aveva osato, solo una volta si era permesso di alzare la voce e rispondere contro le accuse infondate e le domande poste al più piccolo davanti a lui, che in risposta scuoteva il capo confuso, preoccupato e sull'orlo delle lacrime.

Un colpo, un unico colpo deciso e pesante contro il muro della doccia sotto cui stava. L'acqua gelida scivolava sul suo corpo, tra i capelli scuri, eppure non la sentiva, non la percepiva, a malapena il pizzicorio alle nocche riuscì a riportarlo al presente, a notare lo sguardo circospetto e confuso della guardia al lato opposto della doccia, la mano già sulla fondina pronto a estrarre la pistola. Si morse il labbro, lasciò andare un grugnito e chiuse l'acqua senza curarsi delle nocche sanguinanti.

«Anche io sarei incazzato se uno stronzetto iniziasse a fingersi me, spera solo che non rapisca il tuo bambolotto.» Una voce rauca raggiunse l'udito di Miguel facendogli storcere il naso mentre alzava lo sguardo sulla figura nuda e robusta di Tomier. L'uomo storse le labbra in quello che aveva catalogato come un sorriso, sebbene il volto dai lineamenti duri e tumefatti dai segni di un incendio lo rendessero molto difficile da comprendere.

«Tranquillo Tom, in un modo o nell'altro farò sì che il mio angelo non venga toccato da nessuno.»

***


Il cuore mi batte così forte che ho l'impressione che voglia spaccarmi le costole, perforarmi la carne, saltare via dal petto e correre lontano. Lontanissimo. Nel posto più remoto che ci sia nella Terra... Ma basterebbe anche il più vicino. Tutto fuorché qui a Sunset Lane. Tutto, fuorché questo maledetto penitenziario che, dall'alto del parcheggio, sembra beffarsi di me e delle mie paure. Di me e del mio passato, dov'è nascosto quel bambino piccolo e spaventato di cui non conservo più alcun ricordo, se non le sirene della polizia in avvicinamento e la faccia sorridente di un padre che sarebbe stato disposto ad adottarmi e farmi diventare parte della famiglia. E si beffa del mio presente, sì, perché non è giusto che debba ritornare qui ancora una volta, e solo per ottenere delle nuove risposte. Delle conferme. Un indizio. Qualcosa.

Strizzo le palpebre alzando il volume della radio finché non mi fanno male le orecchie, ficcandomi un pugno in bocca per lanciare un urlo soffocato, sbattendo la testa contro il volante del pick-up in preda alla rabbia. Ora che so com'è fatto l'assassino dei miei genitori, ora che conosco il tono spagnoleggiante e morbido della sua voce, delicato come quello di una vipera che fa strisciare lentamente e con sofferenza il veleno nel tuo sangue; ora che ho guardato dritto negli occhi del mostro, dovrei sapere cosa aspettarmi. Invece ho una paura pazzesca.

Ancora una volta, inesorabilmente, cerco di non iniziare a tremare come se un terremoto mi scuotesse dall'interno, devastandomi le interiora e l'anima, eppure faccio fatica a trattenermi. Perché se immobilizzo gli arti, allora i denti iniziano a battere, e se digrigno la mascella, sono le gambe che si paralizzano. Ho la sensazione che non riuscirò più ad uscire da quest'automobile, se resto a pensarci troppo. Perciò scivolo fuori, o sarebbe meglio dire: capitombolo, come se fossi sul punto d'inciampare, rigido come un robot, scordinato.

Il timore di incontrare di nuovo quell'uomo si mescola all'angoscioso ricordo della sera prima, a quel video, a quel messaggio. "Sei pronto a giocare?". Non è più uno scherzo di cattivo gusto; la gola squarciata di Carter non è uno scherzo, i messaggi anonimi che mi hanno accolto sin dall'arrivo in questa città non sono uno scherzo. E' tutto così vero che l'unica maniera per rendermi conto di non star facendo un incubo e tirarmi uno schiaffo e sentire la pelle formicolare dal dolore, un doloro vero, autentico, percettibile. Ed è solo così che riesco a raddrizzarmi, a chiudere meccanicamente l'auto a chiave, a spolverarmi la faccia da una cenere invisibile chiamata terrore.

«Forza. Forza...» Insipiro a pieni polmoni, inalando l'aria in strappi colmi di disperazione, le mani che mi scompigliano i ricci, le dita che affondano nella zazzera color cioccolato incasinandola ancora di più; che allisciano la maglietta di un bianco immacolato sotto alla solita giacca jeans, ginocchia che fremono dal freddo a causa degli strappi, più per usura che per moda. Poi, finalmente, solco l'ingresso a mento alto, ostentando una sicurezza che decisamente non mi appartiene. Mostro la solita documentazione e le liberatorie firmate in allegato, rivolgendo un paio di sbrigativi saluti alle guardie, e sono sempre più convinto di aver ricevuto qualche permesso speciale, perché non sono sicuro di poter fare più di una visita alla settimana. Mentre la porta di ferro si apre dopo un beez metallico, io spero solo di non vederlo sorridere ancora.

Ed eccoci qua, in una stanza per gli interrogatori, bianca e sterile nella sua desolazione, un tavolo di metallo terribilmente liscio e saldamente ancorato al pavimento, una sedia di plastica vuota che mi sta implorando di lasciarla così, di girarmi e andarmene il più in fretta possibile, correndo senza voltarmi indietro. E intanto la testa grida, i pensieri si susseguono uno dopo l'altro mentre io li sorpasso battendo le palpebre, una, due, tre volte, cercando di non ascoltare la voce della ragione che mi mette in guardia. Che mi canzona. Resto sulla soglia della saletta stropicciandomi la faccia contro alle dita, tastandone la morbidezza sulla guance, la ruvidità sulle labbra screpolate, la durezza del naso, la tensione nella fronte.

Oh Noah. Come sei finito qui, in questa situazione di merda?

E' questo che mi dico, storcendo le labbra come se volessi darmi ad un disperato pianto interiore. Sembra che io ci provi gusto a complicarmi la vita. Ma almeno la morte dei miei genitori. Potevo lasciarmi semplice almeno la loro morte. Un assassino in un raptus di follia, due giovani vittime di un triste destino, un bambino orfano. Semplice.

Piano ad incasinarmi però, perché ho la sensazione che a lungo andare il limite delle possibilità di complicarmi la vita avanzerà sempre di più come l'orizzonte. Fino a che non saprò più a che punto arriverò. Perciò smetto automaticamente di pensare, i miei piedi si strascicano pesantemente sul pavimento, il mio corpo si abbandona contro la sediolina senza emettere il minimo rumore. Nell'attesa mi controllo ancora i vestiti, batto sulla punta delle scarpe per saggiare la loro comodità; ed è in questa svogliata analisi generale che l'immagine di un succhiotto violaceo torna a balzarmi nella mente, notato proprio al risveglio, evidente come un fiore color lavanda in un campo innevato. Proprio lì, posato sul mio collo, testimone di quella bocca calda ed impetuosa che si è appropriata delle mie labbra e della mia pelle proprio la sera prima, in quel maledetto stanzino, per colpa di quello squallido gioco. Dimitrij. Mi copro frettolosamente il collo, premendo la mano su quel segno piccolo ma fin troppo evidente, vergognandomene in una maniera così terribile che le mie guance si tingono di un rosso intensissimo.

«Merda...» biascico, in preda alla vergogna più cocente, sperando che il maledetto assassino non lo noti. Preferisco stare tutto il giorno con le dita schiacciate sulla carne, piuttosto che divertirlo con questi dettagli imbarazzanti.

Per fortuna, il rossore svanisce in fretta; mi basta vedere la porticina che si apre, la guardia che spunta e la figura muscolosa che ne segue immediatamente dopo. Diciamo più che il sangue mi defluisce dalla faccia, facendomi impallidire leggermente, come la prima volta che l'ho visto. Il bastardo è di nuovo a torso nudo, i muscoli scolpiti e abbronzati che sembrano appena intinti da un velo di umidità e i capelli che, ad una prima occhiata, paiono quasi bagnati.

«Le regole le sapete.» Questo è tutto quello che dice la guardia carceraria, un attimo prima di uscire dalla porta da cui sono entrato, senza fare nulla. Senza ammanettarlo. Perché cazzo lo lascia libero così? Dio.

«Ehi...» Sembro quasi chiamarlo, ma ormai l'individuo in divisa beige è già sparito, lasciandomi solo, rinchiuso qua dentro, alla mercé di uno psicopatico tranquillamente libero di girovagare nella stanza. Lo vedo appoggiarsi all'orlo del tavolo, fin troppo vicino a me. Ho come l'impressione che oggi siano tutti troppo impegnati a gestire quello che è successo in città per pensare ad un penitenziario.

La comparsa del video divenuto virale, un nuovo assassino in circolazione, la stampa impazzita, così come i genitori di tutti gli studenti della città, indignati per il segreto mantenuto dalle autorità, durato poco meno di un giorno. Tutti credevano che quel giocatore di football fosse stato investito, ma non è così. Per calmare le acque, la scuola è stata chiusa per un giorno, ed è per questo che ne ho approfittato oggi, giungendo qui. Ed è anche per questo che la guardia sembra fregarsene della mia sicurezza: sicuramente starà pensando a tutt'altro. Io, però, rimango fin troppo sbigottito. Specialmente perché Miguel Hebrew è fin troppo vicino per i miei gusti.

«Io so.» esordisce, spingendomi ad alzare lo sguardo verso di lui. «Come tu sai che non è opera mia.» Per un istante, un singolo, brevissimo istante, quasi dubito che sia lui il vero assassino. E se invece fosse stato accusato ingiustamente sin dall'inizio? Batto frettolosamente le ciglia, come per accantonare il pensiero. E' impossibile. E' lui l'omicida, altrimenti non avrebbe potuto rapirmi.

Mentre lui cammina per la stanza, girando su se stesso, offrendomi le ampie spalle da osservare e temere, io lascio cadere le mani sulle ginocchia, stringendomi il tessuto dei jeans nei pugni. «Non essere impulsivo, pensa bene alle tue domande, tutto ha un prezzo.» Mi chiedo quale sia il suo e sono certo di non volerlo pagare. Nemmeno se mi rivolge quel sorriso delicato, leggero, come se ci tenesse a me, il grandissimo bastardo. «Quindi dimmi cosa vuoi sapere angioletto mio.» Strizzo le labbra in una smorfia di sdegno.

«Non sono tuo.» sbotto, serrando la mascella. Il problema, però, è che adesso si avvicina ancora, fino ad arrivarmi accanto. La mano si posa sullo schienale della sedia e riesco vividamente a sentire i pochi centimetri che lo discostano dal tessuto della mia giacca. L'altra mano posa sull'orlo del tavolo al mio fianco; sembra quasi che voglia intrappolarmi, pur solo alla mia destra. E quel tono... Quel tono di dolcezza, vagamente canzonatorio, come se fosse un fratello maggiore che vuole dare un insegnamento al più piccolo... Non saprei neppure dire io, che cosa mi susciti. Un misto di fastidio, incredulità, e qualcos'altro che non saprei stabilire. E' tutta colpa dei suoi occhi azzurri. Non riesco a non guardarli. E non riesco a non trattenere un leggerissimo tremore per colpa di questa improvvisa vicinanza. Vorrei che si allontanasse, ma non credo che lo farà. Ci prova fin troppo gusto, a spaventarmi.

Infatti resta ancora qui, ad intrappolarmi come se non avessi altra scelta che avanzare fra le sue braccia o cadere all'indietro dall'altra parte, cozzando contro il pavimento sporco della saletta. Ancora una volta rimpiango che non l'abbiano ammanettato: come può l'estrema sicurezza di due giorni fa accostarsi alla totale libertà di oggi? Ho come l'impressione che il suo avvocato abbia fatto fin troppo. E la paura lascia strada alla rabbia, fissandolo con le palpebre strette abbastanza da fondere ciglia, iride e pupilla in un due spicchi d'oscurità nera come il catrame.

«Ma lo sei sta-» si blocca, facendo vagare le parole nell'aria, nel silenzio che ci circonda. Senza riuscire a smettere di guardarlo negli occhi, noto molto facilmente che il suo sguardo azzurro come il cielo scivola più in basso. Oltre il mio viso, ma non così in basso da arrivare al petto. Resta sull'orlo della maglietta, come se osservasse qualcosa in particolare... Il mio collo. Sì, il mio collo. All'improvviso ricordo di un succhiotto troppo rosa rimasto impresso sulla mia carne, come una prova vivente di quello che è accaduto il giorno prima, dentro alla stanzino, dopo che ho potuto assaggiare per la prima volta i baci di un ragazzo. In un attimo, impallidisco, tanto che non mi accorgo di quello spasmo improvviso che gli attraversa il braccio destro, in una specie di tic. Ma le sue labbra si corrucciano per la frazione di qualche secondo, prima di distendersi, e quello lo noto.

Eppure, non emetto un fiato.

Non lo faccio neanche quando la sua mano grande e callosa, adulta, dalla pelle olivastra e le dita lunghe, si posa sul mio esile collo, sfiorato appena sulla nuca da qualche folle ricciolo castano. La stessa mano che ha ucciso quattro vite. La stessa mano che avrà spinto mia madre giù da una finestra. La stessa mano che avrà spaccato la testa di mio padre e dei suoi amici. La stessa mano che mi ha acciuffato e portato via dall'ospedale. La stessa mano.

Un istinto di primitiva paura e repulsione mi assale tutta insieme, cogliendomi con una fitta di dolore alla bocca dello stomaco. Ma lui non stringe, non rafforza la presa, non mi fa male. Anzi, sembra quasi una carezza, un dolce movimento del pollice che compie cerchi attorno al livido, come se volesse vederlo espandersi. O come se volesse cancellarlo. E la sensazione di avere le sue mani sulla pelle non mi è affatto nuova. Io, in ogni caso, non oso spostarmi di un millimetro e credo che neanche il mio petto lo faccia. Sto trattenendo il respiro.

Lui invece trattiene me, con tanto di mano premuta sulla coscia, come se non volesse vedermi scattare in piedi, veloce come una molla. Non penso d'avere abbastanza protezza di spirito per farlo, sebbene tutto il mio corpo stia gridando di allontanarmi subito. Immediatamente. Di andare via. Che sia da questa stanza, dal penitenziario o da Sunset Lane. Andare via e basta, per dimenticarmi del suo tocco.

«Ooh.» Sto tremando come un gattino bagnato sotto alla pioggia, ma spero che lui non lo senta. Perciò cerco di concentrarmi sulla mia rabbia, su quanto lo odi, su quanto abbia distrutto la mia vita e su come la sua ombra aleggi su di me anche adesso, nella vita di tutti i giorni. "Hai vissuto per cinque anni con un pluriomicida, che sarà mai uno sciocco giochetto?" ricordo le parole di Helen, e so che non dovrei farmi influenzare, ma la verità resta chiara come il sole. Mi ha rovinato la vita. «Devi aver passato una bella serata.» mi cantilena lui con un fare quasi complice e, se solo fossi più attento, se solo prestassi più attenzione alle parole del pazzo, allora noterei quella scintilla d'irritazione ben celata nel cinguettio divertito.

Invece sgrano gli occhi e avvampo violentemente, lasciando scivolare il rossore sulle guance, sulle orecchie, sul collo. Un misto di imbarazzo, vergogna e umiliazione mi assale tutto insieme. «Non cercarla subito, lasciala cuocere nel suo brodo e cadrà ai tuoi piedi.» consiglia, come se fosse un amico con più esperienza da cui imparare tecniche di rimorchio. Spalanco la bocca, biascicando qualche suono disarticolato finché non assumo un barlume di lucidità. Torno a respirare.

«Non è affatto come pensi!» sbotto, sentendo la vergogna sopraffarmi sopra ogni altra cosa. Non ho alcuna intenzione di rimorchiare un ragazzo, per giunta un motociclista fumatore mezzo russo. Poi mi ricordo con chi sto parlando e capisco che non ho alcuna ragione al mondo per dovermi giustificare con lui. Mi pento di non avergli risposto subito che non sono affaracci suoi.

Ma ora la vergogna brucia come un'impronta infuocata stampata all'altezza del cuore e dello stomaco e della pancia. E l'umiliazione. La sento in bocca con un sapore metallico che sa di sangue, del mio sangue, mentre mi mordo l'interno della guancia e cerco di non sembrare totalmente folle da mettermi a parlare con lui di questioni amorose che, amorose, certamente non sono. Le labbra, la lingua, il risucchio di Dimitrij, se chiudo gli occhi, sono quasi facili da sentire, percepire, e la sensazione mi fa contrarre lo stomaco in una maniera tutta particolare. La pelle ormai rossa, il viso paonazzo, il cuore che batte troppo forte in un rantolare ansimante che, sotto allo sguardo dell'assassino, sembra peggiorare, mischiandosi con la paura.

«Ah no?» Lo vedo piegare la testa come un merlo, o ancor meglio come un avvoltoio, con un luccichio incuriosito che mi fa venir voglia di ritrarmi da lui, dalla sua vicinanza, dalle mani che si ostinano a toccarmi. Desiderando di addossarmi alla parete perché diamine, ne ho bisogno, ho bisogno di spazio, di aria, di sicurezza. Di respirare. Ma so che questo è il suo prezzo per farlo parlare, so che devo sentirlo, so che sono venuto qui non sono per farmi umiliare, ma per ottenere qualcosa. Nessuna umiliazione ci sarà oggi.

«Non ti riguarda.» ringhio, sibilando fra le labbra come un serpente che stilla veleno, senza preoccuparmi di essere cortese, perché non mi importa nulla di cosa pensa. Nemmeno se me lo chiede con quel tono arrochito di voce che sembra scivolare dentro di me come se la sua mano riuscisse a toccare, carpire la mia anima. In modi in cui nessuno è mai riuscito a fare. Socchiudo gli occhi per qualche secondo, l'attimo rapido in cui mi ricordo che in tutti questi anni ho sognato questa voce, il suo richiamo. E non lo sapevo. E non l'ho mai saputo, perché certe cose le conosciamo soltanto io e lui... O forse lui e basta. Il fatto che non mi ricordi il mio passato, mi aiuta: sono sicuro che, se lo ricordassi, starei male. Sono sicuro che in quei cinque anni, qualcosa, sia accaduto, perché è come una sensazione che mi investe dall'interno, un presentimento oscuro. Malsano.

Poi, finalmente, quell'atmosfera imbarazzante si mitiga per ritornare ai soliti toni cupi. Siamo ancora in un carcere. E lui mi sta ancora toccando, lasciandomi intuire quale sia effettivamente il prezzo da pagare per il tempo che gli sto facendo "perdere". Le sue dita salde scivolano sulla mia spalla, sfiorano le clavicole. La pelle sembra farmi male in ogni punto in cui mi tocca. E poi arriva sul mio fianco, senza fermarsi, come se volesse delineare l'intero profilo del mio corpo, crearci un cartonato. Finalmente, parlo. «Perché dovrebbero imitarti? Perché ora?» Afferro il cellulare per mostrare il video. E' stato rimosso da instagram, ma questo non vuol dire che non sia praticamente ovunque, facilmente reperibile. Non appena sento i lamenti di Carter quasi avverto un mancamento, un vuoto d'aria nello stomaco. Come quando si fa un decollo troppo brusco in aereo.

«Angel tu sai perché sono in prigione?» domanda, come se all'improvviso soffrissi di un attacco di amnesia e avessi bisogno che mi sbattesse bruscamente la realtà in faccia. Non gli rispondo. Non voglio fare il suo gioco. Semplicemente guardo con un'occhiata storta la sua serietà. «Sai perché la polizia e le persone hanno tanta paura?» Scorgo il guizzo della sua lingua che scivola sull'angolo delle labbra, il battito delle sue ciglia, i suoi occhi che cercano i miei. «Non c'erano prove sufficienti, ciò che avevano era la mia possibile voglia di vendicarmi su di loro, la mia casa come scena del crimine e qualcosa di mio dentro tuo padre.» Spalanco gli occhi, come se mi avesse dato uno schiaffo in pieno viso. Un pugno nello stomaco.

«Che cosa... ?» Le mie parole galleggiano un po' nel vuoto, mentre la bocca si schiude e il nero fra le mie labbra sembra voler inghiottire l'altro come per sospingerlo in una voragine e non vederlo mai più riemergere. La mia faccia dev'essere decisamente sconvolta, ma spero di aver capito male. So, tuttavia, di non averlo fatto. Lo vedo mordersi il labbro, ma non come se fosse imbarazzato o provasse qualche remora. Come se trattenesse un sorriso.

«Quella sera erano tutti travestiti, ubriachi, poteva esser stato chiunque e nessuno degli invitati e poi si sa come sono gli adolescenti, curiosi di scoprire il sesso no?» Se avessi una tanica di benzina e un accendino, è probabile che gli avrei già dato fuoco. O che io stia andando a fuoco. Ma dalla rabbia. E un accenno di disgusto che si dipinge sul volto come se non ci fosse nient'altro da mostrare. L'idea che il mio defunto e sconosciuto padre abbia potuto fare una cosa simile a quella che ho fatto io con Dimitrij mi fa rivoltare lo stomaco come un calzino.

«Non pensare che io ti creda.» ringhio, sentendo quel tocco pesare ancora di più di prima, come se le sue mani fossero dei macigni. «Mio padre stava con mia madre, bastardo.» Gli scocco un'occhiata fulminante, digrignando i denti. La sua è una distorta verità a cui non credo e mai crederò, perché so che vuole solo farmi soffrire e non gli darò mai questa vittoria. Eppure, le parole che mi rifila sono lente stilettate nel cuore. Potrei sentirle. La lama che affonda nella carne, procede ad aprire il taglio, puntellando il cuore.

«Sì, tuo padre stava con tua madre e con ogni essere vivente dotato di tette e un buco.» Sgrano gli occhi, turbato, forse ancora più turbato da quel suo tono schifato e... Autentico.

«Cazzate.» mormoro, ma il mio tono è dubbioso, lo sento anch'io. L'ombra del sospetto sta penetrando dentro di me attraverso la ferita che sta aprendo e non va bene. Non posso farmi rigirare da lui come se fossi una frittata. Non posso permetterglielo.

«Angel chiediti questo.» La mia faccia è attraversata da uno spasmo di fastidio quando dice, ancora, quel nome che non mi appartiene; tuttavia, non lo fermo. Specialmente perché adesso si incurva su di me e la paura, mia vecchia amica, ritorna ad albergare sulle mie spalle come un antico mantello di lana pesante e sporca. Le sue labbra sottili sfiorano il mio orecchio e, inavvertitamente, una certa tremarella mi attanaglia le gambe, le spalle, mi porta a stringere gli addominali, a sorreggermi all'orlo del tavolo. E nella mente prego qualunque cosa. «Perché il giorno in cui sei nato, tuo padre è morto in casa mia e non con tua madre all'ospedale? Perché lui era a una festa, alla mia festa, mentre tua madre partoriva la sua "Angelica".»

Fulmine a ciel sereno. Riesco a sentirlo. Il boato assordante dentro alle orecchie, il fragore di qualcosa che si spezza e non si riforma. E il suo veleno, che striscia dentro di me sporcandomi inevitabilmente, fino in fondo. Chiudo gli occhi, sentendo le lacrime premere contro alle palpebre, cacciandole via, lontano, mentre lui si accucia di nuovo e le sue dita tamburellano sulle mie ginocchia come a scandire il tempo che mi rimane prima di scoppiare. «Perché...» incomincio, ma la verità è che non lo so neppure io. E che non devo piangere. Non devo piangere. Sollevo le ciglia e lo guardo dritto in faccia. «Quello che so è che tu li hai uccisi, e questo mi fa schifo.» sputo, con un tono minaccioso che non ammette repliche. Però la mia voce trema e lui le fa comunque. E mi lascia letteralmente senza parole.

«No.» sussurra, talmente piano che forse ha solo mosso le labbra in un tremolio leggero, distogliendo lo sguardo, serrarando la mascella, le tempie che si gonfiano mentre il viso, girato leggermente di profilo, si fa più duro, affilato, minaccioso. Butta fuori l'aria mentre le labbra si schiudono pronte a ferirmi, ad assassinare ciò che di buono mi sono immaginato della mi famiglia. «Sai cosa mi fa schifo?» Torna a guardarmi, gli occhi celesti iniettati di sangue, di odio, mentre sibila lettera per lettera. «Che ti dispiaccia per la morte di uno stupratore.» Il capo si piega ciondolando in avanti mentre un angolo delle labbra si piega in alto, affilato e crudele.

«Ma forse tu non lo sapevi, in fin dei conti nessuno delle nostre famiglie aveva parlato e poi fu semplicemente troppo tardi.» Si morde il labbro, facendo una pausa, mentre la mia mente con terrore riordina i pezzi che piano piano mi rifila. «Lui si è preso mia sorella, io gli ho solo ridato il favore, che tu mi creda è irrilevante.» Per un attimo rimango semplicemente impietrito, a cogliere quel guizzo di lingua sul labbro superiore tanto simile ad un tic. Impietrito, sì, mentre la testa fa i suoi calcoli e i pensieri scandagliano articoli di giornali. "La perdita della figlia", diceva uno. Può davvero essere...? Dio santo.

«Sai, io sono qua perché quella notte ho visto tua madre cadere dalla finestra, sono qua perché quella notte sono fuggito e ti ho portato con me.» E' così vicino, ora, che la sua ombra mi copre alla luce artificiale della stanzetta, espandendosi su di me. La risata sprezzante che stavo per emettere mi muore in gola, sostituita da una specie di lamento soffocato. «Noah io verrò rilasciato perché ogni capo d'accusa sta crollando, perché chi ha ucciso quel ragazzo verrà accusato dei crimini che prima cadevano su di me, perché io passerò per l'adolescente traumatizzato da diverse morti che nel panico ti ha preso con sé e si è semplicemente nascosto spaventato da tutto ciò che lo circondava.» E se le parole precedenti mi sembravano un pugno nello stomaco, questo mi sembra un calcio in bocca. Di quelli che ti mozzano il fiato e ti fanno correre ad afferrarti la bocca credendo di aver perso tutti i denti.

«No.» Un sussurro secco. Non esista che venga rilasciato. La sua storia non ha senso. E cosa faceva in ospedale da mia madre la sera di Halloween? Portava un piatto di biscotti fatti in casa? L'idea che proprio lui possa uscire di prigione è talmente ridicola da risultare... Lapalissiana, in effetti. Se non mi sentissi così sconvolto, gli scoppierei a ridere in faccia. «Non credo ad una sola parola di quello che dici, hai capito?» stringo gli occhi, trasudando astio da ogni poro della mia pelle, da ogni fibra del mio essere, come se il mio odio per lui fosse un veleno che il mio corpo sta tentando in tutti i modi di espellere per trasmetterglielo. Come un virus mortale.

«Perché sei venuto allora? Perché mi chiedi di parlare ma poi dici di non credermi? A quale scopo vieni qua e domandi di me se passi il tempo a tremare e a sperare che le guardie mi vengano a prendere?» Un altro pugno nello stomaco, perché lui ha ragione. Perché è tutto sbagliato, perché non dovrei essere qui. E non in un carcere, ma in un'intera città che mi guarda come se fossi un alieno venuto dall'ostile e torrida Marte per portare guerra e distruzione. Ma è proprio questo a risvegliarmi. E' proprio questo a farmi istintivamente desiderare di riscattarmi, di ricordare il senso della mia partenza, del mio trasferimento: chiudere un capitolo tutt'ora aperto, scrivere la parola fine su un manoscritto incompiuto da diciassette, maledettissimi anni.

Scuoto la testa, ancora col cellulare in mano, indicando di nuovo il video, come se desiderassi vedere una sua reazione. Notare che cosa prova l'assassino a guardare una copia di se stesso che ammazza qualcuno direttamente in un video. «L'ho già visto... Non ho provato nulla se non la paura di ricevere un qualunque messaggio, un avvertimento che qualcuno volesse arrivare a te.» La mia fronte s'increspa vistosamente come una lattina di coca tutta accartocciata.

«Che..?» Il volto diventa una maschera d'espressioni sempre più confuse, come se non mi capacitassi di questa sua preoccupazione. Come se fossi diventato stupido all'improvviso nel non riuscire ad arrivare al motivo. Specialmente perché poi la mano affonda nei miei capelli, come un pettine fra i ricci, tastandone la morbidezza, il profumo di cocco del mio shampoo. E il suo tocco è così maledettamente familiare che scosto la faccia voltandola di lato, finalmente in grado di muovermi, di ribellarmi. Non voglio sentire un minuto di più le sue mani addosso: scatto in piedi, facendo scivolare all'indietro la sedia.

Ma lui continua a parlare. «Questo posto non è casa tua, tornatene da dove sei venuto, Noah Sanders. E dimenticati di questa faccenda.» Lo scruto intensamente, come se volessi scavargli un buco in mezzo alla faccia. Finalmente mi chiama col mio nome.

«Come no.» dico, con lo stesso tono che userei in una conversazione tranquilla, quasi scherzosa, come se fosse uno dei pettegolezzi di Leo di cui non c'è da fidarsi, troppo assurdi per crederci. Si alza in piedi anche lui, adesso, camminando per la sala interrogatori, dandomi le spalle, voltandosi a guardarmi da sopra ad una spalla. Una sfida, una provocazione, un'intidimazione. Una carezzevole dolcezza che mi fa venire voglia di tirargli un pugno, anche se è molto più alto e massiccio di me.

«Hai meno di un mese, poi anche io sarò libero.» Il modo in cui mi guarda pare quasi un avvertimento. «E se sarai ancora in questo paese farò in modo che non ti dimentichi mai più di me, Angel. Fino ad allora cerca di non rimanere mai da solo.» E sorride. Dolce come se mi stesse accarezzando semplicemente usando le parole. Con una voce morbida come la neve, di quelle che si posano sui tetti, sfasciano le case, ammazzano intere famiglie. Quelle sue parole bastano per farmi rabbrividire, trapassare da una lunga scarica elettrica lungo la spina dorsale, per quello che potrebbe succedere. E forse dovrei davvero andarmene, forse sarebbe la cosa più giusta. Ma l'idea che sia stato proprio lui a dirmelo mi fa desiderare di inchiodarmi i piedi all'ingresso della città. Perciò mi avvicino a lui.

«Io non me ne vado da nessuna parte finché non metto in chiaro cosa è successo ai miei genitori.» sbotto, con l'idea di afferrargli il bavero dell'indumento fra le mani. Ma lui è a petto nudo e le mie dita cozzano contro i suoi muscoli duri come l'acciaio. Cerco di non mostrare la paura che provo sempre, in continuazione, ancora adesso. E che mi fa tremolare le gambe come gelatina della marca più scadente, di quelle un po' troppo liquide. «Perché li hai ammazzati? Che collegamento c'è quello che hai fatto col presente? Perché qualcuno dovrebbe conciarsi come te ed andare ad ammazzare la gente in giro?» Sto parlando troppo in fretta, troppo freneticamente. «O sei tu che hai ingaggiato qualcuno per far ricadere le accuse su di te?» sbotto, senza escludere nessuna possibilità, sebbene tutti quei messaggi facciano credere il contrario.

«DIMMI LA VERITA'!» Alzo la voce, stanco di vederlo chiamarmi con qualche strano nome, stanco dei suoi giochetti, stanco di non sapere niente di niente, mentre il mondo intorno a me mi tratta come se fossi stupido. Soltanto dopo faccio un passo indietro, sbiancando, come se mi fossi appena accorto di aver messo la mano nella bocca dell'alligatore per troppo tempo, e corro ancora il rischio di perderla. Abbasso lo sguardo al suolo, il volto livido, sinceramente angosciato.

Non avrei dovuto farlo. Colgo lo scintillio nei suoi occhi troppo tardi, quando ormai le sue mani mi hanno acciuffato, aggrappandosi ai miei fianchi, indugiando poco sopra il fondoschiena per sbilanciare il mio equilibrio, spostandomi con la schiena contro il muro. Dejà-vù. Ancora una volta un uomo più alto e massiccio di me mi intrappola. E questa volta, la morsa è decisamente più salda e pericolosa, e mi porta istintivamente a ricacciare un groppo terrorizzato in gola durante il silenzio che si protrae subito dopo. Le dita premono direttamente sulla mia pelle, in uno spazio angusto fra l'orlo dei pantaloni e quello della felpa e, quel tocco, mi gela come ghiaccio secco e al tempo stesso mi brucia come lava.

«Sono molte, troppe domande e il tempo stringe.» Il tempo stringe perché non vedo l'ora di fuggire. Ma ora sono completamente bloccato. «Anche se non mi vuoi credere sai che sono l'unico che ha le risposte, l'unico che potrebbe dartele, il solo al quale le porresti.» Detto in quel modo, sembra perfino essere investito di un qualche ruolo speciale. Ma per me è solo un pazzo assassino.

Il mio corpo si irrigidisce istintivamente quando avverto la punta del suo naso scorrermi sulla gola, sfiorarla. Il suo respiro tanto vicino mi fa venire la pelle d'oca, piccoli brividi che mi attraversano dalla testa ai piedi. «Ma se vorrai sapere qualcosa da me dovrai metterti nelle mie mani, venderti per liberarti. Angel, quando sarò fuori da qua tu verrai di nuovo via con me.» Mi si ferma il cuore nel petto, lo sbigottimento mi scava solchi profondissimi sul viso, sulle guance, negli occhi. Schiudo le labbra. All'improvviso, tutto il mio essere diventa la fiammella di una candela spenta da un urlo. «Vivrai a casa mia, mangerai il mio cibo, berrai la mia acqua, dormirai nel mio letto.» Orrore.

Mi depone un bacio sull'incavo della spalla, mentre i suoi bellissimi occhi azzurri pulsano di un'intelligenza contorta che mi porterà alla rovina. Alla rovina. E il mio sguardo atterrito invece, scuro come quello di un uccello di bosco, lo scandaglia come se sperasse di sentirlo ridere, dichiarare che sta solo scherzando. «Sarai alla mia mercé.» Ma non lo sta facendo. E tutto il mio corpo diventa un nervo pulsante che si tende nello sforzo di trattenersi per non gridare. Tutto il mio essere diventa un urlo trattenuto. Eppure, una minuscola, singola, piccola parte del mio collo, si sta riscaldando per un tocco che non è sconosciuto. Per delle labbra che mi hanno già baciato le guance, la fronte, e per delle braccia che mi hanno cullato per addormentarmi tante altre volte, infiniti giorni, di infiniti anni perduti. Le gote si arrossano, involontarie, istintive, traditrici di un corpo che non controllo fino in fondo.

Le labbra però si spalancano, ed io sono pronto a gridargli che è un pazzo se crede che accetterò una cosa del genere. Tuttavia, le richiudo così in fretta che il cozzare dei denti provoca un rumore piuttosto evidente. Una consapevolezza mi punge le dita come quando cogli una rosa e ti accorgi troppo tardi delle spine. Lui non uscirà mai dal carcere. «Dimmi Angel... Anzi Noah.» Si raddizza, mi guarda, protende le braccia per tenermi ingabbiato in una strana specie di abbraccio. «Sei disposto a fidarti di uno sconosciuto per avere le tue risposte?»

Potrà anche credere di avermi presto o tardi nella sua casa immaginaria, ma sappiamo entrambi che lì dentro non metterà mai piede. Perché non uscirà mai di prigione, ed io sarò libero. Dal passato, dall'ombra dei miei genitori. Da lui e dai ricordi perduti dei miei primi cinque anni di vita. Quindi perché non lasciargli credere a quell'idilliaca visione, se serve?

«... Sì.» Le parole pulsano come il sangue da una ferita aperta, copiose di dolore, odio, repulsione. Stringo gli occhi in due fessure. «Ma augurati che la tua storia abbia un senso.»

Ed eccolo lì che mi fissa, in una strana occhiata che è un misto di confusione e piacere, e qualcosa che non so decifrare, la stessa espressione che ha messo in mostra quando mi ha baciato la pelle. Mantiene il silenzio, assapora la mia risposta, osserva come la paura scivoli via per qualche secondo e poi lascia la presa sulla parete, le mani che scivolano lungo il corpo infilandosi nelle tasche della sua divisa mentre scrolla le spalle, facendole schioccare in un modo che getta la sua ombra sulla mia.

«Distruggerò ogni tua illusione Noah. Non lascerò più nulla di te e di loro, diventerete semplici ombre e poi riunirò ciò che di Angel è rimasto e allora sarà come quando eravamo solo io e lui.» Arriccia le labbra, osservandomi. Dentro di me, intanto, si scatena un uragano, una tempesta, un terremoto, un disastro naturale. L'ultimo spiraglio di sicurezza che grida i suoi restanti attimi disperati, dicendomi addio, perché ormai ho detto di sì ad entrare nella tana del lupo. «Non importa quanti graffi, tagli, crepe avrai, ci sarò sempre per il mio Angel.» sussurra, facendo un passo indietro, quel tanto per arrivare al pulsante vicino alla porta per premerlo, richiamando le guardie. «Vedrai che adorerai anche tu le mie storie della buona notte, Noah.» soffia, accennando un sorriso vittorioso e scherzoso, quello di chi sa di aver ottenuto ciò che desidera su un piatto d'argento.

Io, invece, sono perduto. Ma mi aggrappo alla convinzione che non uscirà mai di qui, che ci marcirà, che vivrà fino all'ultimo dei suoi giorni senza mai ricordarsi che cosa sia la libertà. «Te l'ho detto. Verrò a vivere con te, ma la prossima volta che ci incontremo esigo tutta la verità.» Non fantastico come lui, non sorrido, non me ne vado trionfante. Però mi sforzo di sembrare assolutamente sicuro di me, anch'io un vincitore di tutta la storia, guardandolo dritto negli occhi mentre la porta si apre e una guardia si dirige verso Miguel, pronto a portarlo via, così come vengo scortato io fuori dalla stanza. «Ricordati, abbiamo un accordo.» sussurro, intanto che la porta si richiude e l'ultima cosa che vedo è il baluginio arancione della divisa e il suo sguardo celeste che ancora mi fissa.

Ma so che non è un accordo. Dopo tutto quelle carezze indesiderate, dopo il bacio sulla pelle, dopo lo sguardo sul succhiotto, dopo la falsa verità su mio padre, dopo l'astio, dopo l'odio, dopo la durezza, dopo il tremore, dopo la nostalgia, dopo la familiarità, dopo il dolore.. Dopo tutto quanto, mi rendo conto della lampante ed orribile verità. Questo non è un accordo, ma un ricatto.

Ho fatto un patto col diavolo e ormai è troppo tardi per tirarsi indietro.


*** 

*NDA* 

Hola a tutti!
Come sempre sono in ritardo, ma diciamo che ero in vacanza anch'io. Per il capitolo ringrazio immensamente giuli_milani che ormai è la mente e madre di Miguel, che ha scritto infatti quel pezzo iniziale dal suo punto di vista ed è la pensatrice di ogni battuta e azione di quel determinato personaggio. Te se ama(?) <3
Non posso credere di essere già al settimo capitolo, anche se a dir la verità non vedo l'ora di finire questa storia per svelarne ogni retroscena! Ma ci sarà ancora un po' da attendere, perciò posso solo dire: alla prossima, lettori! ^_^

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