V: Sette minuti in paradiso
«Noah, metti via il cellulare a tavola! Almeno per colazione...»
Mia nonna ha ragione. Dovrei smetterla di fissare lo schermo in attesa che accada la catastrofe. Anche perché so che avverrà, quindi non c'è alcun motivo di stare ad aspettarla come se fosse una sorpresa sensazionale di cui sconvolgersi.
«Sì, hai ragione...» bofonchio, stropicciandomi la faccia fra le mani nel tentativo di riprendermi dal torpore di un sonno pregno di incubi, ma al contempo cercando di scacciare il sottofondo dell'ennesima partita registrata di football che si sta guardando mio nonno. Le voci squillanti degli speaker, a quest'ora del mattino, sono così irritanti che strillerei volentieri di spegnere quella maledetta televisione. Ma, ovviamente, questa non è casa mia, e visto che mia nonna non batte ciglio, non mi permetto di farlo al posto suo.
Sospiro, godendomi per quel poco che mi è possibile il profumino di pancake sparso per la cucina, anche se non ho nemmeno un briciolo di fame. Anche se i rivolini dorati di sciroppo d'acero sembrano implorarmi di conficcare la forchetta in quella pila di piccole bontà. Lo stomaco mi si è inevitabilmente chiuso. Al momento, mi nutro di angoscia, la stessa che mi sta divorando, in un ciclo continuo di mangiare e venir mangiato. Mi viene da vomitare, ma riesco a restare in bilico fra nausea e rigetto.
Ieri sera, una volta tornato a casa – come una specie di ladro, di nascosto, cercando di non far notare che mi mancavano i vestiti – mi sono limitato a rintanarmi sotto alle coperte. Totalmente sconfitto e sopraffatto da questa città, che mi crea problemi da quando sono nato. Leo mi ha tempestato di urla dalla finestra, ma visto che non avevo alcuna voglia di fare il telefono senza fili, mi sono convinto a dargli il mio numero di cellulare. Abbiamo parlato per un po' e la cosa è stata davvero utile a calmarmi, nonostante quel ragazzo sia l'individuo meno calmo della terra. Per un paio di messaggi ha chiesto dove mi fossi misteriosamente cacciato dopo la pausa pranzo e la tentazione di rispondere, di raccontare la mia assurda disavventura, mi ha quasi sopraffatto. Quasi. Quella minaccia inquietante è ancora salvata nella memoria del mio cellulare, e soprattutto della mia testa.
Per fortuna, per tutti i restanti messaggi non ha fatto che scrivere quanto fosse impaziente di farmi conoscere il suo fantastico ragazzo, Matt, che a quanto dice è "il classico surfista californiano, ma da fattoria della Virginia", il che non ho proprio idea di che cosa voglia dire. Quel Carter, invece, non è comparso nemmeno una volta nella nostra chiacchierata, e ancora adesso non c'è nessuna novità. Niente di niente. Il silenzio mi spaventa più di qualsiasi altra cosa, perché è come la quiete prima della tempesta: potrebbe cadere anche uno spillo, ed io lo sentirei.
L'unica cosa che posso fare, ora, è cedere allo sguardo amorevole di mia nonna ed ingoiare un pezzo di pancake, che mi scende a fatica in gola, e che nella bocca ha il sapore della segatura, nonostante tutta la dolcezza dello sciroppo. Lo sguardo mi cade sul cellulare, poi sulla televisione, sul puntino arancione della palla che passa da un giocatore all'altro, e subito dopo alla mano di mio nonno che si alza e si abbassa per bere in una tazza del caffè, stringendo nell'altra la lattina birra. Poi, la vibrazione accanto al mio fianco mi fa letteralmente sobbalzare dal tavolo, con un tintinnio di posate e bicchieri.
"Ho delle notizie assurde!!!!"
Il boccone di pancake mi va di traverso, ed inizio a tossire così forte da dovermi reggere al tavolo. E' Leo, ovviamente. Sto imparando a capire che soltanto lui potrebbe mettere così tanti punti esclamativi in una stessa frase. A parte ciò, il contenuto non mi piace per niente.
"2 min, il tuo pick-up"
In verità, non lascio passare nemmeno un secondo: mi fiondo all'ingresso combattendo con le maniche della giacca e biascicando a mia nonna che la spremuta era fantastica, per poi issarmi lo zaino in spalla senza rendermi conto della cerniera aperta. Salvo i quaderni all'ultimo secondo, indaffarato a richiudere tutto mentre ancora cammino. Abbastanza da scontrarmi con il mio vicino, che mi acchiappa per le spalle.
«Ehi, buongiorno!» esordisce, ridacchiando con un tono di voce acidulo, ma tutto sommato coinvolgente. Non mi chiede niente, ovviamente: apre lo sportello della macchina e salta su, semplicemente, come se fosse il co-proprietario della mia auto. «Sbrigati!» Ed in effetti mi sbrigo. L'ansia che mi circola nel corpo fa tendere ogni più piccolo nervo, perfino le dita dei piedi. Mentre cerco le chiavi, mi tremano le mani. «Si tratta di Carter.» incomincia, con la voce trafelata di chi ha fretta di parlare di un sacco di cose insieme ma non riesce a stare al passo col ragionamento.
Il mio sangue si gela. Mi volto a guardarlo con un'espressione agghiacciata sulla faccia. E' ovvio che stia cercando di creare suspense, ma il tentativo mi sta facendo venire un infarto. Eppure, so già che cosa dirà, ed è per questo che appoggio la fronte contro il volante, sconfitto. Voglio sparire dalla circolazione, o mettermi un sacchetto in testa sperando che funga da mantello dell'invisibilità. Ma ciò che dice dopo, è più sorprendente di qualsiasi cosa mi aspettassi. «E' morto.»
«CHE?!»
Deve essere un sogno, questo. Deve essere il mio inconscio che cerca in qualche modo di consolarmi vista la malasorte che mi circonda come una nuvoletta nera sulla testa. Ma mi rialzo così rapidamente dalla mia posizione curva che sbatto la testa contro la testiera del sedile, e così sono certo che non sia un sogno.
«Lo so, lo so, è sconvolgente!» esclama, con gli occhi spiritati di chi potrebbe mettersi a battere le mani da un momento all'altro. «L'hanno proprio messo sotto. Investito. Stecchito.» Scuote la testa. «E lo so che non bisogna parlar male dei morti ma... Ehi, era veramente uno stronzo.» Scrolla le spalle. «E' giustizia divina!» Mentre lui continua, biascicando sul karma e su quanto gli dispiaccia per i genitori – non ho capito bene se per la perdita o per averlo messo al mondo anni fa – io resto in silenzio.
Metto in moto e, taciturno, guido fino al cortile della scuola senza commentare e senza ascoltare per davvero il continuo parlottare del cheerleader, stavolta senza la divisa blu e bianca della mattina precedente. Adesso, una calma improvvisa e stordente ha preso possesso del mio corpo e, anche se sento le mani tremare dal sollievo, ancora non voglio proferire parola, come se avessi paura di veder spuntare qualcosa di infamante su di me da un momento all'altro. Magari nel testamento di quel tizio. «... E così, alla fine, tutta la scuola è in lutto.»
Torno alla realtà giusto mentre spengo il motore, con lo sguardo che si perde fra la folla davanti al cancello, fra le chiome tinte o naturali, i diversi tipi di zaino, vestiti colorati, divise sportive.
«Il potere dei giocatori di football...» mi limito a dire dopo il lungo silenzio, con una certa amarezza, fissando gli agglomerati di studenti tutti raccolti in gruppo per spettegolare sulla situazione.
Da quel poco che ho scoperto di Carter, dubito che qualcuno sia davvero triste per la sua sorte. Eppure, sento venirmi la pelle d'oca al pensiero che lo stesso ragazzo con cui ieri stavo litigando, adesso non c'è più. E' morto. Morto per davvero, con tanto di foto appesa davanti alle cancellate e una nuvola di fiori tutt'intorno, a creare un macabro altare proprio in mezzo all'ingresso. Fra tutti i teenager di Sunset Lane si avverte uno strano clima: un misto di eccitazione e negatività. Qualcosa di ispiegabile, eppure perfettamente comprensibile, se contestualizzato in un paesello in cui non accade mai nulla, ma con un tanto passato oscuro.
Il risvolto positivo nella situazione, per me, è che non sono più la notizia succulenta sulla bocca di tutti. Il bambino di halloween sta pian piano passando nel dimenticatoio, e nessuno mi tratta più come se fossi un lebbroso, girando al largo. E non è l'unica: se Carter è morto, allora non ci sarà nessuna foto o video compromettente, e nessuna minaccia. Per questo, mi preparo a raccontare i fatti di ieri al mio nuovissimo amico, per quel che può valere.
«Comunque, a proposito di Carter. Ieri è succes...»
Non ho il tempo di finire la frase che, superata la gradinata che precede l'entrata nella hall scolastica, una ragazza ci si pianta davanti. Senza nessun fare molesto in verità, più con un certo charme, con un movimento lento della mano sul fianco e il capo che pende di lato, come una modella che si mette in posa a fine passerella. Mi basta un'occhiata generale per comprendere subito che, in questa scuola, dev'essere una che conta: i boccoli biondi rigonfi intorno al capo come tanti piccoli sprazzi d'oro, gli occhioni azzurri da angelo, il nasino all'insù, le labbra naturalmente rosate... Una barbie in divisa da cheerleader ci soppesa per un brevissimo minuto, il tempo di rivolgerci un sorriso mieloso.
«Buongiorno, Leonard.» comincia la creatura ultraterrena, che mi stupisce già per aver chiamato il mio vicino col suo nome completo. I suoi occhi si fermano su di me e deglutisco, sentendomi all'improvviso completamente fuori posto, come un pesce in macelleria. «Noah Sanders...» I suoi occhi scivolano su tutta la mia figura, e sono certo che stia valutando marca e costo di ogni mio indumento, fermandosi giusto ai miei piedi. «Belle scarpe.» commenta, alzando lo sguardo su di me, di nuovo. Non si potrebbe mentire sul fatto che abbia un certo carisma, ma in tutta quell'espressione zuccherosa c'è qualcosa che non mi piace. Come quando, per mangiare una medicina troppo amara, la si ricopre tutta di zucchero.
E poi, Leo mi sta tempestando di gomitate: nessuno dice niente, segno che la ragazza sta effettivamente aspettando che io dica qualcosa. Mi schiarisco la gola.
«Grazie.» replico, sperando che sia la risposta giusta.
«Tua madre è un esempio per tutte noi. Sai che in parte è grazie a lei se possiamo partecipare alle gare di cheerleading?» Sposta il peso da una scarpa all'altra, con un movimento che fa oscillare tutte le pieghe della minigonna, mentre io scuoto la testa. «Hai la sua stessa bellezza...» Solleva una mano, e quasi mi aspetto che mi sistemi il colletto della giacca, oppure mi dia una scrollata alla zazzera di capelli nocciola, invece mi indirizza un ricciolo dietro all'orecchio. «E tuo padre, so che aveva un ingaggio importante. Che grave perdita per il mondo del football...» Scuote lentamente il capo, prima di allungare le labbra pescate in un sorriso soave. «Mi aspetto grandi cose da te.»
E' una frase che suona in maniera piuttosto ambigua, perché non ho idea di quale strana ipotesi si sia fatta in testa, su di me, ma lascio correre e balbetto qualcosa che dovrebbe sembrare una risposta affermativa, o un imbarazzato ringraziamento.
«Comunque, stasera c'è la festa di commemorazione per il povero Carter, a casa mia. Siete entrambi invitati, ci tenevo a dirvelo di persona.» conclude, con un ultimo carezzevole sorriso. «Oh, non è il caso di invitare anche quel tuo amico sempre col computer.» Si ferma, aggrottando la fronte con un'espressione perplessa che dura per un brevissimo secondo, tornando ad un lieve divertimento. «Temo di non ricordare il suo nome.» Io invece, capisco immediatamente che parla di Charlie. Il tono in cui afferma di non ricordarsi come si chiama, ha qualcosa di estremamente irritante. Ma il lip gloss sulle labbra, l'odore che le aleggia intorno, il modo in cui i capelli le cascano sulle spalle... Vorrebbe far credere che non ci sia nulla di sbagliato in lei.
«Noah...» Mi rivolge un cenno del capo. «...Leonard.» E ci gira attorno in una nuvola di profumo al gelsomino, mentre mi volto a guardarla come intontito dalla strana aura intorno a lei. Non è come nei film. Non ha nessuna stupidotta che le ronza intorno per farsi da supporto. C'è semplicemente il suo cipiglio regale, carismatico e, ora che finalmente si è allontanata, potrei dire in qualche modo altezzoso.
«Oddio, siamo vivi, che bello.» sospira il ragazzo al mio fianco, arricciando il naso nocciola come avvertendo una strana puzza.
Per un momento non dico niente, almeno finché non ritorno in me. «Ma quella chi era?» Mi volto a fissarlo: il verde mela del maglioncino a scacchi, i jeans chiari, i ricciolini minuti ritti sulla testa come il pelo di un gatto spaventato. «Che problema ha con Charlie? E... Una festa di commemorazione? Sul serio? Fate sempre così quando la gente muore?» E dubito che si tratti di veglia funebre tipo vestiti neri, cibo confezionato per la famiglia, preghiere silenziose, album sfogliati senza nessuna gioia. Ho il lontano ricordo di esserci stato, una volta, quando ero piccolo.
Comunque, riprendo fiato dopo la cascata di domande. Di solito è Leo a parlare troppo veloce.
«E' Helen, la ragazza del capitano di football. Una di quelle tipe che possono decidere il tuo destino in questa scuola.» Sta ancora fissando il punto in cui se n'è andata, con le braccia sui fianchi e una posa da "mi sto facendo un selfie dall'alto", vista la boccuccia raggrinzita e il mento sollevato.
«Pensavo che la lista delle persone di cui preoccuparsi fosse finita...» borbotto fra me e me, con un sospiro pesante e uno sguardo piccato alla mia felpa nera, chiedendomi perché abbia deciso di mettermela proprio oggi, dopo l'analisi di quella barbie cheerleader. Ora che il ricordo del profumo e dell'intonazione ferma della voce sta svanendo, inizia a sembrarmi un po' meno zuccherosa e un po' più fredda.
«Be' sì, se sei invisibile non hai di che preoccuparti.» aggiunge Leo, che sembra non sapere che cosa voglia dire il termine "invisibilità". Sicuramente anche domani si vestirà con un nuovo maglioncino da pugno nell'occhio. Ma, adesso che ci rifletto, il problema deve essere proprio questo: Charlie. Da quel che ho capito, è proprio da lui nascondersi dietro ad un computer, dietro al paio di occhiali, a loro volta dietro al ciuffo di capelli. Il mio vicino non si è sprecato neppure di metterci una buona parola, con quella Helen. «Il problema è la popolarità. Può ridurre in briciole la tua reputazione solo con una cazzata inventata sul momento, se non gli vai a genio. E se ti ordina di fare qualcosa... Devi farlo e basta.»
Ora inizio a capire tutto: è la dittatrice della scuola. «E se sei nella squadra del cheerleading è ancora peggio! Insomma, è lei che decide dove piazzarti sulla piramide e, fidati...» Mi poggia una mano sulla spalla. «Nessuno vuole stare a terra, a sorbirsi i piedi puzzolenti di qualcun altro sulle spalle!» Mi strappa un vago risolino, ma lui è terribilmente serio. «Sai, all'inizio della scuola, prima che Matt decidesse di ignorare il football... Quei due avevano una storia.» Mi ricordo bene: Matt sarebbe il suo fidanzato, quello di cui straparla quando non ha più nessun argomento in serbo. Sto iniziando a crearmi una mappa mentale di tutti i nomi e le facce, anche se ho già dimenticato parecchie persone.
«Non si sa chi dei due abbia lasciato l'altro, eppure, quando sono entrato nella squadra sono rimasto nella posizione nascosta per mesi e mesi con la scusa di essere un uomo!» Scuote la testa, allibito. «All'epoca tutti sapevano che ci eravamo messi insieme. Fece parecchio scalpore.» Mi si avvicina all'orecchio, coprendosi la bocca con la mano. «E comunque, fra le cheerleader ci sono certe tizie alte come dei giganti... Era ovvio che ce l'avesse con me!» Si scosta, strapazzandosi senza successo i riccioli sul capo. «Tutt'ora, quando mi guarda... Secondo me vorrebbe fulminarmi!»
«Ah... Davvero?» Alzo un sopracciglio, ma lui si schiarisce la voce.
«Il succo è: non metterle i bastoni fra le ruote e non avvicinarti al capitano... O a qualsiasi altro ragazzo su cui lei metta gli occhi quando lui è distratto.» Quindi il discorso di Joil in mensa aveva il suo senso: basta stare lontano dalle ragazze gelose. Solo dopo qualche secondo ritorno in me.
«Ehi, guarda che sono un ragazzo! Perché diamine dovrei avvicinarmi a...» Non ho nemmeno il tempo di finire la frase che scoppia in una risata fragorosa.
«Il mio gay-radar non sbaglia mai! Mai!» Mi sbatte una manata sul posteriore così forte che faccio in balzo in avanti. «E con quel sederino d'oro, scusami ma è ovvio!» Rimango a bocca totalmente spalancata, con le sopracciglia così alte che potrebbero schizzarmi via dalla fronte e nessuna buona parola con cui ribattere. La sorpresa mista ad uno scandalizzato divertimento parla al posto mio.
Poi, all'improvviso, la campanella ci fracassa i timpani e il rumoreggiare metallico di armadietti che sbattono copre ogni mio tentativo mal riuscito di rispondere. Leonard-il-vicino-molesto mi pizzica una spalla prima di issarsi sulla schiena lo zaino ed iniziare ad indietreggiare. «Senti Noah, ci vediamo a lezione di scienze! Non vedo l'ora di sezionare ranocchie con te!» mi urla prima di svanire fra la folla, con il braccio sollevato come unico segno della sua presenza, almeno finché non lo abbassa e viene del tutto inghiottito dal resto degli studenti.
Sospiro. Io gay? Non mi sono mai soffermato a pensarci. E' vero, l'unica storia che io abbia mai avuto con una ragazza è stata alle medie ed è durata per due giorni... Ma non mi sono mai piaciuti i ragazzi. Credo.
Decido di smettere di pensarci e approfittare degli ultimi minuti liberi che mi rimangono per chiamare Josh e rimanere aggiornato sulla situazione a casa, senza perdere troppo tempo, perché non voglio rimanere completamente solo in corridoio. Di incrociare di nuovo un inquietante uomo mascherato, non ne ho assolutamente intenzione.
***
Mi piacerebbe raccontare di bisturi che affondano nelle pance di viscide rane, a loro volta inchiodate ai tavoli dell'aula di scienze, ma... Le lezioni sono state così terribilmente noiose che non posso farcela. Per fortuna, nessuno ha tentato di picchiarmi o spaventarmi, perciò sono arrivato vivo fino alla fine delle lezioni pomeridiane, dichiarando ufficialmente l'inizio del mio percorso scolastico nel nuovo liceo.
Ore ed ore dopo, con indosso i vestiti più "originali" che ho nell'armadio – Leo mi ha implorato di mettermi almeno una maglietta colorata – e un'espressione decisamente spaesata, parcheggio il pick-up dietro alla fila indiana di macchine che circondano tutta la casa, uscendone per poi assicurarmi di averlo chiuso bene. Non voglio certo correre il rischio che qualcuno se la prenda per posizionarla sul ciglio del bosco, ad aspettarmi. Sto cercando disperatamente di ignorare quello che è accaduto ieri, ma senza successo. Ancora mi assillano troppe domande: che è successo nel bosco? Perché ero senza vestiti? L'unica cosa su cui devo smettere di preoccuparmi, è la minaccia. Se Carter è morto, allora posso stare tranquillo.
Con le mani nella giacca jeans piena di pellicciotto, strascico gli stivaletti sull'asfalto e proseguo da solo verso l'ingresso. Niente Leo al seguito, perché per una volta ha deciso di farsi accompagnare con un po' d'anticipo dal suo ragazzo; al contrario, Joil e Amy, a quanto ha detto lui, arriveranno più tardi. Perciò non mi resta che farmi strada in solitudine e con un certo disagio. Sento quasi la mancanza del mio vicino, adesso che non c'è lui a sparlarmi nell'orecchio senza fermarsi un attimo. Pur di non sentirmi tanto fuori posto, mi concentro sui dettagli.
La villa di Helen ricorda alla lontana una fusione fra una lussuosa villa coloniale, con le colonne bianche che affiancano il portone di legno e statue di leoni così finti da creare un effetto terribilmente kitsch, specialmente a causa dell'architettura ultra-moderna che ostenta il resto della casa: tetto piatto e asimmetrico, muri a vetri sul soggiorno, piscina riscaldabile che emana zaffate di vapore e giardino zen tutt'intorno, con una serie di pouf colorati in uno stile etnico-africano che con la tradizione giapponese proprio non c'entrano nulla. C'è un'accozzaglia di così tanta roba costosa e diversa messa insieme che non saprei proprio su che punto soffermare gli occhi.
Ad ovviare al problema c'è già l'ampia folla d'invitati – probabilmente la maggior parte della scuola – che, fermo davanti al cancello di ferro battuto bianco, riesco perfettamente ad osservare. Alcuni sono ad oziare in piscina, godendosi l'acqua calda in netto contrasto col freddo della stagione, altri sparpagliati a bere e chiacchierare in giardino, altri ancora spaparanzati in massa sui divani del soggiorno, ed è facile notarli viste le pareti rivestite di vetrate. Sugli alberi che separano la residenza dal bosco sono stati sparpagliati fili di lucine, gli stessi fili che si estendono per i cancelli e il giardino, gettando un bagliore fioco su tutti gli invitati.
Dopo un lungo respiro, tentando di racimolare un briciolo di coraggio necessario ad affrontare una mandria di coetanei pettegoli, comincio a camminare: tengo lo sguardo dritto, ma lo sento che, man mano che proseguo, in molti smettono di chiacchierare per lanciarmi qualche sguardo, neanche troppo fugace. Spostare lo sguardo sulle mie scarpe è una lotta quasi impossibile, ma riesco a raggiungere la porta senza farlo nemmeno per un momento. Mi fermo sul portico, notando il piccolo tavolino di legno su cui è stata sistemata una candela accesa e una foto di Carter: ha il classico bicchiere da festa stretto fra le dita, di quelli rossi che tengono in mano tutti proprio adesso; il braccio sollevato come in un brindisi e l'espressione un po' fatta. Se solo non sapessi come gli altri che è morto e che questa è la sua festa di commemorazione, crederei che la foto sia stata scattata proprio stasera, qui.
Scuoto la testa e proseguo: la porta è aperta, la musica inaspettatamente non è troppo alta, ma abbastanza ritmata da infastidire lo stesso. Probabilmente il remix di qualche hit dell'estate scorsa, riciclata per l'inverno. Prima di immergermi fra gli invitati prendo il cellulare e chiamo Leo: implorerei qualsiasi cosa pur di sentire quella sua vocina logorroica dall'altro lato del telefono, perché qui da solo mi sento un pesce fuor d'acqua.
"Hey hey stellina, hai chiamato Leo! Scusa se non rispondo, ma evidentemente sto facendo qualcosa di molto più figo! Lascia un messaggino e se mi stai simpatico ti richiamerò~"
Sbuffo, chiudendo la chiamata senza aggiungere altro. Lui conosce tutti, ogni faccia, ogni nome, ogni diceria utile: fino ad ora non mi sono accorto di quanto la sua presenza mi salvasse. Adesso, però, mi basta superare l'androne e solcare la soglia del soggiorno, per ritrovarmi al centro dell'attenzione. In molti si voltano a fissarmi, lasciando morire il brusio sulle loro bocche, e chi non si è ancora accorto di me viene avvisato dalla persona al fianco con uno scossone. Per un momento resto semplicemente paralizzato, gli occhi neri che schizzano da una faccia all'altra come inchiostro spruzzato alla rinfusa su una pagina bianca, le mani che si arricciano in una girandola di dita e pellicciotto dentro alle tasche del giubbotto jeans.
Ma, alla fine, qualcosa si rompe dentro di me. Forse è la mia pazienza, forse sono quei freni che mi spingono a restare zitto quando mi conviene di più. Ma adesso basta.
«Sì, i miei sono stati ammazzati da un pazzo proprio in questa città! Sai che sorpresa!» annuncio, sentendo le guance iniziare a riscaldarsi dal nervosismo misto al crescente imbarazzo di essermi esposto così tanto. E poi continuo a camminare, con la fronte arricciata in un'espressione corrucciata e i piedi che calpestano con una certa enfasi il parquet di legno scuro, alla ricerca di un angolino dove affondare e, possibilmente, sparire. Un intento che viene subito guastato dall'arrivo della proprietaria, pronta a fare gli onori di casa.
«Oh, ciao Noah. Sei venuto, quindi... Mi fa piacere.» Mi mostra un sorriso pieno di denti bianchi e un filo di rossetto rosa, posandosi una mano sui fianchi fasciati da un vestito altrettanto rosa confetto, così aderente da strizzarla come una sardina. Lei però sembra completamente a suo agio. Nonostante i troppi grumi di mascara nelle ciglia, o il numero esagerato di ferretti fra i capelli. «Cibo e bevande sono lì.» Mi indica i tavoli pieni di alcol e stuzzichini. «Fa' come se fosse casa tua.» ridacchia in una maniera quasi snervante e mi fa un cenno col capo, intimandomi di seguirla verso un mastodontico divano in pelle trapuntata verde. Guardandomi intorno, capisco che un po' tutti si comportano come se questa fosse casa loro: ognuno fa quel che vuole e sì, sto parlando di quei due che fanno sesso sul divanetto vicino alla piscina, perfettamente osservabile da qui. Distolgo lo sguardo.
«Guardate chi vi ho portato.» Ci sono troppe facce per focalizzarsi su alcune in particolare e poche, fra di esse, sono in grado di spiccare veramente. Un nutrito numero di ragazzi della squadra di football – e lo capisco dalle maledette giacche sempre sfoggiate addosso, sono quasi certo che non le lavino nemmeno – si affastellano intorno ai braccioli di pelle, mentre poche ragazze sono sedute. E' facile comprendere chi sia il capitano, dal modo in cui tutti gli stanno attorno ad ascoltarlo e dall'aria seria e matura che i chiaroscuri sul viso mettono in mostra. Alto, pelle scurissima, muscoli possenti perfettamente delineati dai vestiti che porta addosso, capelli cortissimi ed occhi castagna di una sfumatura così chiara da assomigliare all'ambra. Il sorriso appena sporcato da una flebile nota di noia ed indolenza. «Noah Sanders.»
Tutti si voltano a guardarmi, ed io mi sento un cucciolo di panda chiuso dietro alle sbarre, esibito ad una banda di estranei turisti che potrebbero solo mettermi a disagio.
«Ma non assomiglia per niente a suo padre!» sbraita una ragazza, con un tono di delusione neanche troppo celato. L'unica cosa che potrei davvero commentare, di lei, sono quelle palle da bowling che si ritrova all'altezza del petto, talmente sproporzionate rispetto al resto del fisico da far venire un po' da ridere. «Belle, vero?» Intercetta il mio sguardo e si illumina, palpandosi un seno come se niente fosse. «Me le ha regalate mio padre questo Natale!»
«Ohh, Sydney!!» risolini e schiamazzi tutt'intorno.
«Ah...» Mi gratto la nuca, cercando di fare buon viso a cattivo gioco per non lanciarle uno sguardo allibito o scoppiarle a ridere in faccia, e non certo nel modo malizioso e compiaciuto come gli altri. «Ehm... Hai visto Leo?» torno a rivolgermi ad Helen, cercando di non sembrar troppo sconsolato. Se fossi più attento, noterei un vago risolino maligno intrappolato all'angolo delle labbra. Eppure non lo scorgo.
«L'ultima volta che ci ho fatto caso, saliva al piano di sopra. Diceva di dover usare il bagno...» La ringrazio con un breve cenno del capo, iniziando ad incamminarmi a grandi passi verso le scale. «E' l'ultima porta in fondo al corridoio!» riesco a sentire, un attimo prima di perderla nel groviglio di note musicali e remix per nulla orecchiabili, destreggiandomi fra le luci soffuse e i numerosi gradini dell'ampia scala all'ingresso. Più mi guardo intorno e più mi sento disperso fra i meandri di questa villa: maschere pseudo azteche, stampe liberty, statue classiche messe negli angoli un po' a casaccio. Arrivato al primo piano, seguo il corso del corridoio facendo scivolare le dita sul corrimano.
La zona è immersa nella penombra, appena illuminata dai bagliori colorati dei faretti seminati per la piscina, che sbirciano dalle finestre anche a quest'altezza. La musica elettronica e il brusio in sottofondo sono lontani, ovattati, contribuendo a gettare un'atmosfera sospesa, quasi sinistra, nel modo in cui l'ombra si riflette su qualche statua. Ma poi raggiungo l'ultima porta e mi fermo, senza toccarne la maniglia: è già aperta. Socchiusa, per la precisione, tanto che un filo di luce biancastra s'infiltra all'esterno, tagliando di netto l'ombra tutt'intorno a me.
Apro la bocca, pronto ad annunciare il mio ingresso chiamando il nome del mio fantomatico vicino di casa. Al sentire di un verso, però, la richiudo di botto con un cozzare sordo di denti.
«Aah! Dio... Leo...» Una voce a me sconosciuta – e decisamente maschile – sospira forte, ma non riceve alcuna risposta, cosa che mi rende un pelo perplesso. «Non... qui.» continua lo sconosciuto, mentre io avvicino la faccia a quello spiraglio per capire cosa stia succedendo.
«Mmhppf!!» Per un momento la situazione non mi sembra molto chiara. «Dai, Matt... Che te ne importa... E' un secolo che non lo faccio.» cinguetta la voce del ragazzo dalla pelle nocciola, con un tono intinto di una malizia per nulla fraintendibile.
Mi ritrovo a sgranare gli occhi davanti alla situazione che, inavvertitamente, sto spiando: un tipo biondo è appoggiato al lavello col bacino, una mano che si aggrappa alla ceramica vicino alla sua schiena, l'altra posata sulla testa di ricciolini di Leo. Lui, invece, se ne sta inginocchiato ai suoi piedi, le labbra fin troppo vicine al cavallo dei pantaloni dell'altro, donando attenzioni a ciò che è nascosto da un lembo aperto dei jeans e le sue dita.
E' una situazione così assurda che sgrano gli occhi e richiudo la porta di botto, avvampando dalla testa ai piedi per poi scostare la presa dalla maniglia, come se scottasse. Beccare il nuovo amico che fa un pompino ad un altro ragazzo è una delle cose più imbarazzanti che mi sia mai successa ed è troppo tardi per darsi alla fuga, visto che la porta si riapre e me li ritrovo davanti entrambi. Il bruno si ripulisce la bocca con il dorso della mano ed un'aria per nulla colpevole, quasi elettrizzata, mentre l'altro, pur senza arrossire, sembra a disagio proprio come me. Per un momento non dico assolutamente niente, mi limito a schiarirmi la voce. Alla fine, bisbiglio un: «Scusate...» a voce bassa, gracida come se mi facesse male la gola.
«Naah, non è morto nessuno! Anzi meglio, ora posso avere il piacere di presentarti il mio ragazzo!» esclama il più basso fra i due, riuscendo con la sua sfacciataggine a stemperare la vergogna generale, che lui decisamente non prova. Sembra quasi compiaciuto dal fatto di essere stato beccato. «Lui è Matt. Te ne ho già parlato, no?» Sì, circa in un migliaio di messaggi. «Avanti, fate conoscenza! Tutti i miei amici devono andare d'accordo e adorarsi a vicenda!» Batte le mani come un esaltato mentre io trattengo un sospiro a stento e il sorriso del bel ragazzo pare colorarsi di un esasperato divertimento.
«Ah sì, io sono-»
«Oddio Noah, ma come ti sei vestito?! Almeno gli stivaletti vanno bene, ma il resto...» Il mio sopracciglio sinistro sobbalza verso l'alto come un elastico, quando Leo ci interrompe ancora una volta squadrandomi dalla testa ai piedi, scuotendo fortemente la testa. «Vabbe' eh, io scendo giù che devo andare a prendere un po' d'alcol... Scommetto che Helen vorrà fare uno dei suoi giochi tipo obbligo o verità» Scuote la mano nell'aria, come scacciando qualche brutto pensiero materializzatosi accanto alla sua testa in una nuvoletta immaginaria. «e non devo essere sobrio quando arriverà quel momento!» Detto quello, se la svigna camminando a grandi passi per il corridoio e saltellando giù per le scale, sparendo dal nostro campo visivo.
Per un istante cala un brevissimo silenzio, almeno finché non lancio al biondo un'occhiata d'intesa. «Ma è sempre così?»
«Sempre.» risponde, con un sorrisetto appena accennato che distende la buffa fossetta posta al centro del mento. Ora capisco che cosa intendeva per "Surfista californiano", vista la pelle abbronzata, i capelli giallo pagliericcio legati in un minuscolo codino sulla nuca e la collanina con un paio di perline colorate che spunta dai lembi della camicia di flanella rossa. «Ma mi piace.» scrolla le spalle. «E' come una radio, ma non devi prenderti il disturbo di cambiare canale.» E di spegnerla, se per questo, visto che pare un'impresa impossibile farlo stare zitto.
Poi, finiamo per chiacchierare del modo assurdo ma coinvolgente che ha Leo di conoscere le persone – e criticare i loro vestiti – e, non prima di essermi scusato per l'ennesima volta per averli inavvertitamente spiato, scendiamo le scale insieme. Al piano di sotto, la situazione si è fatta ancora più caotica. Qualcuno deve aver alzato la musica, perché si fa fatica a parlare senza urlare; la folla si è infittita ancor più di prima e farsi strada fra la massa di gente che balla senza lasciarsi fare la doccia da bicchieri di vodka è un'impresa quasi impossibile.
Dopo qualche spallata e una certa fatica, scorgiamo il soggetto dei nostri dialoghi sul divano, spiaccicato fra le tette di Sydney Jackson e un'altra tipa di cui ho già dimenticato il nome. In una mano regge una bottiglia di budweiser, in un'altra un bicchiere pieno di qualcosa di piuttosto forte, a giudicare dalla sua espressione. Ci nota subito ed infatti sobbalza, sporcandosi i pantaloni di birra. «Appeeena in tempo amiiishi!» Fa segno di avvicinarci agitando la mano, nello stesso momento in cui la musica torna ad abbassarsi e una calca di persone si concentra attorno al medesimo divano.
«Oh, no...» Il biondo sembra avere qualche brutto presentimento, glielo leggo in faccia. Ma non smettiamo di avvicinarci, accolti con sguardi, risatine e qualche brindisi che schizza alcol ovunque. Nel cerchio di divanetti, poltrone e sedie sparpagliate riesco a ricavare un angolo libero, specie perché molti sono seduti a terra, a gambe incrociate sul tappeto persiano, tutti con lo sguardo rivolto verso Helen e i suoi abbaglianti occhi azzurri. E' lucidissima. Sicuramente non avrà bevuto nemmeno un goccio, al contrario degli altri.
Matt si è già seduto accanto a Leo, cercando di riparare alla sua potenziale sbronza decidendo per lui quale delle due cose fargli bere. «Alloooooraa! Che shi fa?» biascica lui, dondolando la testa sulla spalla del suo ragazzo. La proprietaria di casa, dopo un attimo di riflessione, volge lo sguardo in fondo al salotto. Oltre la calca di gente. Oltre il paralume di seta cinese. Oltre la soglia della stanza. Fissando esattamente qualcosa all'ingresso. Qualcuno.
«Oh... So esattamente cosa faremo ora.» Un sorriso scaltro le scuce una guancia, poco prima di iniziare a camminare verso l'entrata di casa sua, con la folla che le si apre intorno a ventaglio. Il mio errore, probabilmente, è quello di voltarmi a guardare chi è riuscito a catturare la sua attenzione. Sì, imperdonabile errore.
«Oddio, non ci credo!» Anche gli altri lo notano. «Ma chi l'ha invitato?!» E' la mia prima festa in questa città, ma pare che la presenza di Dimitrij Jones sia una novità per tutti quanti. «Sicuramente Helen...» Smetto di ascoltare i pettegolezzi in sottofondo e rimango come un imbecille a fissarlo per un paio di minuti. E' troppo alto per adattarsi a tutti gli altri, troppo biondo e troppo pallido per essere americano. Troppo diverso per conformarsi ai giocatori di football con le loro fottute giacche, o per avvicinarsi alle galline con le tette rifatte come regalo di Natale.
Veste di nero come ad una vera festa di commemorazione, il che, a giudicare dalla musica alta, la quantità d'alcol e le luci colorate, è una vera sorpresa. E' quasi ammirabile. E poi c'è la t-shirt nera che circumnaviga le linee dei muscoli del torace, lo scollo tondo che non nasconde minimamente l'intrico di rose rosse tatuate al lato della gola, i jeans neri che delineano la lunghezza vertiginosa di quelle gambe, la giacca di pelle che disegna il percorso delle spalle larghe; e quelle ciglia chiarissime che fremono per qualche secondo senza soffermarsi nemmeno per un momento sulla ragazza che ha di fronte, zigzagando fra gli angoli del salone come se cercasse qualcuno in particolare. Il suo sguardo si sofferma su di me.
Gli occhi cangianti, di quell'indefinibile colore chiaro, mi fissano per qualche attimo, assorbendo e vivendo delle luci colorate che baluginano intorno a lui. Poi distoglie lo sguardo e si concentra su Helen. Ma sono certo che, per quell'istante, abbia guardato solo me.
Mi nascondo frettolosamente dietro alla spalliera del divano, affossandomi fra i cuscini nel tentativo di farmi inghiottire dall'imbottitura, eppure serve a ben poco, una volta che il russo e la biondina spuntano nel cerchio e si siedono a loro volta. Lui senza soffermarsi a fissare nessuno, ma accendedosi una sigaretta con molta nonchalance e il rumoreggiare dello zippo d'argento che si apre. Dal canto mio, mi fisso la punta delle ginocchia con un grande interesse.
«Niente obbligo o verità, questa volta!» esclama quindi la bionda, battendo le mani fra loro, con un tintinnio di braccialetti dorati sui polsi. «Faremo un gioco che Carter adorava... Sette minuti in paradiso.» Non è l'unica a sapere di che cosa sta parlando, visto come le ragazze, ma soprattutto i ragazzi, lasciano andare schiamazzi, fischi, volgarità a mo' d'approvazione. Perfino Leo si mette a ridacchiare, benché il suo ragazzo lo stringa a sé più forte. Geloso di quel che potrebbe capitare? Probabile. «Per chi non conoscesse le regole» Prende una bottiglia di vodka vuota, sistemandola sul tavolino al centro. «La prima persona che verrà indicata dalla bottiglia, sarà bendata e accompagnata nel mio stanzino delle scope, per poi essere raggiunta da una seconda persona scelta dalla sorte.» Sorride con un'aria compiaciuta. «La porta sarà chiusa a chiave dall'esterno, perciò quelle due persone saranno intrappolate per sette minuti... E potranno fare di tutto.»
Le due ultime paroline mettono in moto la testa e i ricordi, e gli scenari che mi ronzano per la mente sono vari e turbolenti. Prima Leo in ginocchio davanti a Matt, poi il pugno di Carter dritto sul mio naso. Sesso o botte. E' improbabile che, in un gioco del genere, qualcuno si metta a chiacchierare del più e del meno.
«Divertiamoci.» La sfumatura sadica nella voce lascia intuire che il suo unico divertimento sarà mettere nei guai le persone. Spero solo che non sia obbligatorio partecipare, forse faccio ancora in tempo ad andarmene. O forse no, visto che la bottiglia inizia a roteare, il vetro scivola senza intoppi sul legno liscio e poi... La mano pallida della stessa ragazza la ferma. «Ragazzi, lasciate che per questo primo giro scelga io chi bendare.» Avviene un brevissimo scambio di sguardi d'intesa, come se tutti sapessero qualcosa di cui io non so nulla. E non mi piace. «Noah!» Sobbalzo. «Ti va di cominciare?» Qualcuno le passa una sciarpa, che sventola nella mano come un fazzoletto bianco agitato prima di un triste addio.
Per un momento penso sia stato tutto pianificato sin dall'inizio. Possibile che io sia solo paranoico? «N-no, io...» balbetto. «Io non gioco.» Deglutisco, sperando che non insista.
«Ohh, andiamo.» cinguetta Helen, mentre si sporge sulla sua poltroncina accavallando le gambe, con un sorriso sinistro che le fa luccicare il rossetto rosa. «Hai vissuto per cinque anni con un pluriomicida, che sarà mai uno sciocco giochetto?» Uno scintillio cattivo le si legge nello sguardo, mentre il mio si incupisce immediatamente. Ecco com'è fatta davvero la biondina più influente della scuola: una vipera mascherata da angioletto. Gli occhi di tutti saltellano da me a lei, come se assistessero ad una partita di ping pong. Riesco perfino a sentire le iridi chiarissime di quell'irritante ragazzo biondo. A cosa starà pensando?
"Sei proprio un codardo" Di certo.
Mi alzo in piedi, strappandole la benda di mano. «Dove sarebbe questo stanzino?» sibilo, stringendo le palpebre senza poter rifiutare la sfida dopo quelle parole. Molti iniziano a fischiare, alzando i pugni ed urlando il mio nome come se stessi per andare a combattere nella fossa dei leoni. Forse sarebbe meglio.
Alcuni addirittura si alzano per venire a vedere la scena: mi legano la benda intorno agli occhi, mi tengono per le spalle, mi guidano sino ad una porticina che qualcuno apre, e poi mi chiude alle spalle. «Non togliere la benda fino a che non arriverà la seconda persona, o avrai una penalità!» mi gridano da dietro, poco prima di udire un rumoreggiare di passi che si allontanano e, di nuovo, la musica.
Il puzzo di stantio e candeggina renderà questi sette minuti ancor più insopportabili, ma intanto aspetto in un silenzio impenetrabile l'arrivo dell'altro/a malcapitato/a che deciderà l'esito di questo sgradevolissimo gioco. L'attesa è ancora più angosciante dei sette minuti stessi, perché ho il terrore di capitare con uno degli amici di Carter; così come ho il terrore di finire spalmato sulle tette di tipe come Sydney, rischiando il soffocamento. L'ipotesi che mi mettano le mani addosso in ogni caso è ormai accertata. Per lo meno, accetto di buon grado di tenermi la benda, così la mia faccia non sarà troppo stravolta all'arrivo di chissà chi, avendo tempo per elaborare il tutto.
Non passa nemmeno un minuto, che torno a sentire passi. Piuttosto pesanti, anche; ma per qualche ragione non sono accompagnati da quelli della folla. Chiunque sia, è solo, o al massimo accompagnato da un'unica persona. La maniglia cigola, la porta si apre, la luce del corridoio filtra anche attraverso la benda illuminando di poco la mia cecità. Poi un tonfo, anta che si chiude, chiave che scatta. Buio.
«....» Schiudo le labbra; le parole mi rimangono proprio sulla punta della lingua, ma alla fine esito e resto in silenzio, aspettando che succeda qualcosa. Ed è proprio ora, con le mani che mi formicolano, lo stomaco che si attorciglia con una punta di angoscia ed adrenalina, gli occhi chiusi e il corpo fin troppo vulnerabile, che sento di poter fare qualsiasi cosa. Ballo sul filo del rasoio, in bilico, le labbra schiuse, il mento non troppo alto, i riccioli cadenti sulla fronte e la lingua che preme fra i denti, aspettando. La schiena appoggia contro un armadio di ferro, lo spazio è tanto ristretto che le nostre ginocchia si toccano.
Poi, avverto uno spostamento nell'aria. Qualcuno che s'inclina sopra di me, delle labbra che mi sfiorano il lobo dell'orecchio suscitandomi un profondo brivido elettrico lungo la spina dorsale, mani ruvide che scivolano sulla nuca, s'infiltrano fra i riccioli, sciolgono il nodo della benda. La sciarpa cade a terra. Quando il ragazzo abbassa lo sguardo ed io scorgo i suoi brillanti occhi cangianti, quasi scuri per colpa del buio intorno, per poco non mi do ad una fuga precipitosa. Ma lo stesso istinto che mi ha attirato a guardarlo al suo ingresso nella fresta, ora me lo impedisce. Senza contare la porta chiusa a chiave.
«Ciao, Lentiggini.» La voce di Dimitrij, profonda e affilata dall'accento slavo, scivola nei miei canali uditivi come una carezza vocale. Sulle labbra carnose si dipinge un sorriso pericoloso, ben lontano dal tipo di pericolosità di Helen. Qualcosa di più intricato, contorto, tossico. Piacevole, in qualche modo. Tanto da lasciarmi senza parole, le labbra spalancate dalla sorpresa. «Ci incontriamo ancora.» sogghigna, stringendo le palpebre in due fessure come se non fosse poi così rallegrato dalla notizia.
«Ehm... Già...» biascico, come un uccellino spaventato, sentendo il groppo in gola farsi ancora più persistente, abbastanza da obbligarmi a deglutire rumorosamente. E lui lo sente, tanto che sorride con un'aria di ostentato trionfo. Faccio finta di non notarlo, ma intanto rimpiango l'assenza di quella benda.
«Non perdiamo i nostri sette minuti.» Il suo volto si avvicina pericolosamente al mio, il cuore inizia ad accelerare, il mio battito diventa così forte da riuscire a sentirlo pulsare nelle orecchie, trapanandomi i timpani. La punta del naso dritto stuzzica il mio. Le labbra sono terribilmente vicine e lo sguardo cangiante con cui mi scandaglia riesce a farmi andare in pappa il cervello. E' come se volesse cucirmi addosso a lui, attrarre ogni mia particella per legarla alla sua pezzo per pezzo in una pericolosa danza di sguardi che suggerisce la sua imminente vittoria. La mia sconfitta.
«Che vuoi fa..» Coglie l'attimo in cui le mie labbra restano mezz'aperte e approfitta di quel preciso incastro: la bocca s'incrocia alla mia, i denti cozzano appena fra loro, la lingua, sinuosa come quella di un serpente, scivola fino a raggiungere l'altra. E all'improvviso smetto di respirare. Sì, all'improvviso mi dimentico il modo in cui si fa. I miei pensieri si riducono ad un puntino minuscolo che si perde nell'immensità del cosmo, della Virginia, di questa maledetta cittadina, di questo angusto stanzino.
In qualche modo il mio corpo si ribella, mi divincolo, appoggio una mano sul petto per allontanarlo ma le dita tastano la durezza dei muscoli sotto la maglietta, sorprendendomi di sentire il calore del suo corpo, la vitalità, la velocità con cui il suo torace si gonfia e sgonfia. Smetto di ribellarmi quando la sua mano ruvida raggiunge la mia guancia per spingere più forte la bocca contro la sua, e l'altra mi strattona la schiena schiacciandomi contro di sé, premendo sulla colonna vertebrale come se ogni vertebra fosse diventata il tasto di un piano da suonare.
Dopodiché, tutto quanto crolla. I timori, le dicerie, le paure, l'esitazione, le regole. Ogni freno crolla come un castello di sabbia, come una minuscola tessera da domino che s'abbassa per distruggere l'immensa costruzione di tasselli che, nei miei diciassette anni di vita, ho impilato nell'attesa che questo bacio li facesse cadere tutti. Un bacio che è talmente focoso e travolgente da rischiare di farmi salire in cielo come un palloncino ad elio troppo gonfio. Il tempo diventa un ricordo lontano, una cornice anonima intorno ad un quadro la cui arte attira fin troppo l'attenzione.
E il sapore delle sue labbra... Sa di tabacco e di qualcosa di agrumato, come l'arancia o il limone, abbastanza frizzante da stordirmi. Rendermi ebbro. Più di qualsiasi alcolico io abbia bevuto fino ad ora. Potrei facilmente ubriacarmici.
Allontana la bocca per farmi riprendere fiato e nell'attimo di lucidità che si succede al bacio, la mia faccia si accende come una torta di compleanno. Potrebbero fumarmi le orecchie dalla vergogna, potrei sciogliermi per il caldo torrido che si è raccolto nello stanzino, o per lo sguardo che mi rivolge mentre si lecca le labbra suscitando mille "Perché?" fra i miei pensieri. Non ho il tempo di continuare a respirare che torna a posare le labbra sulle mie guance, sulla mascella, sul collo. Sembra quasi pulsare, respirare dalla mia pelle, inebriato.
«Dimitrij...» squittisco, quando la sua lingua preme sulla curva della gola e una scarica elettrica mi attraversa le gambe, facendomi arricciare le dita dei piedi. E' la prima volta che dico il suo nome, ma suona più come una domanda, quasi gli stessi tacitamente chiedendo che diamine stia facendo. Eppure, mi irrigidisco un poco quando sento la mano spostarsi dalla mia guancia, proseguire verso il collo, percorrere le clavicole, accarezzare il petto, spostarsi sullo sterno, scivolare sul ventre ed infine arrestarsi all'orlo dei pantaloni. Gli afferro il polso, deglutendo ancora una volta. «Che stai facendo... Aspetta...»
«Che c'è...» Sorride con un'aria sardonica, provocatoria. «Hai paura?» Lascia andare una risata bassa, che sporca l'americano in maniera ancora più evidente con l'accento straniero.
Mi sono quasi dimenticato quanto questo ragazzo fosse simpatico.
«Ma lasciami!» lo spintono all'improvviso, facendo ricorso all'ultimo spiraglio di coraggio che mi rimane, anche se mi sento le gambe molli, il cervello scombussolato. Mi spingo contro la porta affrettandomi a girare la maniglia come un pazzo, sperando che si riapra in fretta. Ma la serratura è ancora chiusa a chiave, ed io sono ancora intrappolato insieme a questo tipo.
«Non avere fretta. Abbiamo ancora un minuto.» dice, alle mie spalle, quasi gongolando al mio mal riuscito tentativo di fuga. Faccio finta di non averlo sentito, prendendo a battere un pugno contro la porta.
«EHI! FATEMI USCIRE!» urlo, più infuriato che altro, sebbene il corpo mi stia andando ancora a fuoco, e non certo per la rabbia. Specialmente perché il suo petto s'appoggia alla mia schiena, il suo viso sbircia da sopra alla mia spalla e la sua mano sbatte contro l'anta di legno, proprio accanto alla mia testa. Come intrappolandomi ancora di più di quanto già non lo sia.
«Cerchiamo di andare d'accordo quest'anno, N o a h.» sibila nel mio orecchio, facendomi venire la pelle d'oca sulla nuca. Il fatto che sappia il mio nome mi sorprende ancora di più di sentirglielo pronunciare in quel modo, come se fosse una cosa perversa. Poi, all'improvviso, la porta mi si apre davanti e spuntano Sydney la tettona e un paio di tizi che gridano in coro: «TEMPO SCADUTOO!» Al momento giusto.
Praticamente me la do a gambe: li supero con delle spallate e un'espressione torva stampata sulla faccia, i denti digrignati e le guance paonazze, diretto verso il portone per andarmene senza guardarmi indietro. Non importa che Leo arrivi immediatamente al mio cospetto, strattonandomi per un braccio con la sua aria alticcia.
«Ehiehiehi! Che è shuccessho?Dove shtai andando??!!» biascica, con gli occhioni resi più liquidi e lucidi da tutto l'alcol che ha in circolo. Lo strattono, accigliato.
«Me ne vado da questa festa del cazzo.» borbotto, controllando frettolosamente di avere ancora in tasca le chiavi della macchina prima di giungere all'ingresso.
«Ma....» Apre la bocca, cercando una motivazione valida per fermarmi. Finché.... «EHI RAGAZZI!» Qualcuno grida. «CARTER HA POSTATO UNA STORIA SU INSTAGRAM!» La mia testa scatta fulminea verso la voce, gli occhi si strabuzzano, il sangue mi si gela nelle vene. Non può essere. Non è stato investito? Non è morto?
«No...» L'intero oziare della festa sembra arrestarsi quando tutti mettono mano allo smartphone per rendersi conto della veridicità di quelle parole. Tutti sconvolti abbastanza da non capire come un morto abbia fatto una cosa tanto stupida come postare su un social. Ma io sto pensando a tutt'altro. Sto pensando al bosco. Ai miei vestiti che bruciavano. Al mio corpo inspiegabilmente nudo. A quel messaggio di minaccia. «No...» il sussulto capitombola fuori dalle mie labbra ancor prima di averlo pensato.
Perché poi i volti degli invitati si illuminano osservando il display, poco prima di distorcersi dalla sorpresa, dall'orrore. Qualcuno lascia cadere il cellulare a terra, coprendosi gli occhi. «No no no no...» Corro a strappare il cellulare di mano alla prima persona che mi capita.
Il video dura per pochi secondi, ma quello che vedo non è per nulla ciò che mi aspetto. Perché nella prima inquadratura c'è la faccia di Carter, imbavagliato con un pezzo di scotch, immediatamente dopo affiancata da una seconda faccia. Se così si può chiamare una maschera. Bianca, circondata da un cappuccio nero come la tenebra intorno a loro, in cui si distingue malamente una distesa d'alberi. Il ragazzo respira frettolosamente, scuote la testa, guarda l'indivudo mascherato piangendo. Ma quello sconosciuto, lo stesso che ho visto in corridoio a scuola, lo stesso che la stampa ha descritto come il mostro di Sunset Lane, fa dondolare un coltellaccio davanti all'inquadratura. Poi, un guizzo d'acciaio e la gola del mio compagno di scuola viene recisa da parte a parte, con una cascata interminabile di sangue.
L'ultima cosa che mostra il video è uno schizzo rosso che sporca l'inquadratura. Fine della storia. In quello stesso istante, il mio cellulare vibra: lo afferro, accendo lo schermo e trovo un messaggio da un mittente anonimo.
"Sei pronto a giocare?"
E capisco che devo tornare a fare visita all'assassino dei miei genitori, perché qualcuno sta cercando di imitarlo.
***
*NDA*
Hola a tutti!
Lo so lo so, dovrei smetterla di scrivere questi papiri chilometrici, ma almeno mi faccio perdonare per la lunga assenza, no? A parte ciò, spero che questo capitolo vi sia piaciuto, data la lunghezza scriverlo è stato un po' un parto. Ringrazio tanto quel koala impanato di Soul_Mirror che mi ha betato il capitolo e...
Alla prossima ^^
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