III: Dimitrij
Catturato Miguel Hebrew, il rapitore del bambino di halloween
Miguel S. Hebrew (21), l'adolescente che nella notte più buia del 2001 ha istigato al suicidio la giovane Alyssa Thompson e, come le autorità locali sostengono, ha brutalmente ucciso tre compagni di scuola, i cui corpi martoriati sono stati rinvenuti lungo la A15, è stato finalmente ritrovato lo scorso giovedì 24 febbraio, a sud del Delaware.
Miracolosamente, a quanto è trapelato dall'ospedale Saint Marie dove è ricoverato il piccolo (5), non c'è traccia di alcun tipo di violenza sul corpo. L'avvocato del Signor Hebrew, l'acclamato Nathan Green, ha dichiarato il silenzio stampa in seguito alle gravi accuse avanzate dalle famiglie delle vittime verso il suo cliente, che sembra abbia già guadagnato la nomea di "Mostro di Sunset Lane".
Sebbene siano stati rinvenuti all'interno della camera d'ospedale della Thompson una maschera bianca ed un mantello con il DNA del giovane Tyler Coox, si attendono nuove notizie dal primo processo, da cui si presume una riduzione della pena per mancanza di prove dirette fra i delitti e il signor Hebrew, ed inoltre la minore età di quest'ultimo all'epoca del fatto. Da alcune fonti certe, però, si sostiene che possa aver avuto un crollo psicotico a seguito dei gravi problemi nella famiglia dei ricchi magnati Hebrew, già segnati dalla perdita della figlia nell'estate del 2001.
L'appena maggiorenne, ora sotto arresto, non si è mostrato favorevole al rilascio d'interviste, ma la redazione di Sunset Lane continuerà ad indagare. Restate informati, lettori.
J. Castro – 28 febbraio
«Che razza di bastardo.» sibilo, chiudendo la pagina internet del giornale locale, insieme alla sezione del lontano 2006. Anche se ho riletto mille volte gli articoli e i servizi giornalistici di quell'anno, nei momenti come questi finisco per andare a cercarli ancora. Specialmente dopo lo sgradevole incontro di ieri pomeriggio. Pensavo che la domenica fosse un giorno perfetto per andare a trovare quell'uomo, invece, dormire stanotte è stato più difficile di qualsiasi altra al mondo.
Ed ora, lunedì mattina del mio primo giorno di scuola, non mi sento affatto pronto per affrontare la realtà. Ecco perché vado ad appoggiare la fronte contro il manubrio del mio fidato pick-up rosso, con il mio sospiro pesante che si mischia al sottofondo di Lithium dei Nirvana, anche se la musica ogni tanto s'inceppa a causa della radiolina vecchia che fa qualche fatica a captare le stazioni fuori dalla Virginia.
Rialzo la testa, massaggiandomi la radice del naso, prima di prendere il cellulare e cercare nei pochissimi numeri in rubrica il nome di Josh. Il pollice si blocca a mezz'aria, in un attimo di esitazione, come con la paura di sentire dall'altra parte la segreteria telefonica. Ma alla fine cedo, e lui mi risponde immediatamente, bloccando il primo squillo.
«Ehi, campione.» rispondo, sorridendo impacciatamente, mentre abbasso il volume della canzone. «Mi hai risposto. Sono contento.» La malinconia che sporca un poco la mia voce, dopo soli due giorni, già si percepisce.
Mentre parla, raccontandomi che da lui non è cambiato assolutamente nulla, io sistemo distrattamente i documenti dell'iscrizione sul cruscotto dell'auto, e i miei occhi nerissimi si lasciano attrarre dal giallo accecante di uno scuolabus, che risale la strada su cui io ho parcheggiato, passandomi davanti e poi superandomi per risalire la collina.
«Davvero?» commento un piccolo aneddoto sui disastri di nostro padre con le donne, con un leggero risolino, prima di sentire, non troppo lontano dalla mia auto, il rumore di un portone che sbatte. E' tanto improvviso che mi fa voltare di scatto la testa, il cellulare per poco non mi scivola dalle dita. Poi, uno scalpiccio di passi che battono sul marciapiede, ed una macchia blu e azzurra che corre e si sbraccia in direzione dell'ormai lontano autobus.
«Eh no! Merda!» sbraita, buttando a terra il borsone blu per esprimere il suo malcontento. La voce mi suona molto familiare e, quando mi allungo verso il finestrino del passeggero per guardarlo meglio, mi accorgo che è lo stesso strano ragazzo che ha la camera da letto di fronte alla mia. Lo stesso che mi ha salutato poco dopo averlo beccato a ballare chissà che cosa. Ora che siamo così vicini, posso studiarlo meglio: ha la pelle mulatta di un bel color nocciola, il naso dritto e minuto a discapito della solita idea che tutte le persone di colore debbano averlo a patata. E poi un principio di fossetta solo sulla guancia sinistra, anche da serio come adesso, ed i capelli corvini che creano un fitto reticolato di ricciolini così minuscoli da mostrare una linea perfetta sulla sua testa.
«Devo chiudere, Jo. Scrivimi un messaggio ogni tanto.» saluto mio fratello, e il suono della mia voce nel silenzio mattutino, macchiato soltanto dal meccanico via vai di auto, spicca abbastanza da farmi notare dal ragazzo.
Fa un passo indietro, sbatte le ciglia e inclina appena il collo. Quando riesce a vedermi, seduto sul posto del guidatore con le chiavi infilate nella toppa ma il motore ancora spento, si illumina in un sorriso raggiante, spalancando gli occhi. Afferra di nuovo il borsone per issarselo in spalla e stringe più forte la borraccia di plastica viola da cui ne esce solo una cannuccia.
«Oh! Ciao vicino!» esclama, aggrappandosi con la mano libera allo sportello dal lato del passeggero, che per un caso sfortunato del destino ha il finestrino abassato al massimo. Neanche volessi invitarlo a chiacchierare. «Noah Coox giusto?» Mi mostra un sorriso che risplende di bianco, rispetto al bruno chiaro delle sue labbra sottili. «Sei praticamente su tutti i giornali della città!» Mi fa un cenno all'auto, con l'indice, mentre quel borsone minaccia di cadergli un'altra volta. «Posso?» Mi sorprendo che con tutta quella fretta nel parlare mi abbia chiesto il permesso. Gli faccio un cenno affermativo del mento: visto che è il mio vicino di casa, sarebbe strano rifiutarmi di dargli uno strappo fino a scuola. Anche io sto andando lì, a mio malincuore.
«Ah, grazie a Dio!» Spalanca la portiera e prende posto, sistemando tutti i suoi "bagagli" appallottolandoseli ai piedi. «Sai, ieri ho passato tutta la notte a guardare le repliche della sesta stagione di RuPaul's Drag Race, quindi mi sono svegliato un po' tardi.» inizia, allacciandosi la cintura sopra quella che mi sembra una divisa da cheerleader in versione maschile. Lo comprendo da quel classico stile tutto ginnasti, strisce ed iniziali sulla maglietta. Decisamente non la tenuta di un giocatore di football. «In più, la mattina ci metto una vita a preparare il mio frullato macrobiotico, così finisco per perdere lo scuolabus un casino di volte.» Alza gli occhi al cielo, come ad immaginarsi tutte le sue corse inutili. Poi, come per avvalorare le parole, succhia la cannuccia deglutendo più volte qualsiasi brodaglia abbia preparato. Il silenzio cala per qualche istante. Almeno finché non si gira a guardarmi con le sopracciglia aggrottate. «Be', che aspetti a partire?»
Come risvegliatomi dalla sorpresa, mi drizzo a sedere sul sedile, sbattendo le palpebre. «Ehm... Ah, sì, sì.» Giro la chiave ed imposto la marcia, mettendo in moto. «Comunque, sono Noah Sanders.» rettifico, pigiando l'acceleratore per risalire la collina. Il sole spunta da dietro ad una coltre di abeti, spargendo qualche filo di luce fra la fitta vegetazione che circonda tutte le strade. «Come mio padre adottivo.» mormoro, a voce più bassa, fissando la strada che s'allunga di fronte a me.
«Oh...» Emette un verso, non tanto di sorpresa quanto di partecipazione. «Sappi che sbatterti in prima pagina è stato davvero di cattivo gusto.» Mi volto a guardarlo, con un sorriso di gratitudine che m'incurva delicatamente le labbra, prima di ritornare a guardare dritto di fronte a me, svoltando a destra. «Ma sai, in questo buco di città non accade mai nulla. A parte...» La sua voce s'incrina, ed io so a che cosa sta pensando, tanto che il mio sguardo si rabbuia. Scuote il capo. «A proposito, io sono Leonard Mikeller.» Arriccia le labbra in un sorrisetto. «Per gli amici Leo, l'astro nascente del cheerleading maschile.»
«Wow...» rispondo, e se avessi le mani libere ora mi starei grattando la nuca con un fare piuttosto imbarazzato. Le cheerleader non sono esattamente carine e coccolose come vogliono far sembrare. In ogni scuola ci sono almeno una ventina di arpie che sculettano con una divisa colorata, lasciandosi passare per le dive della città. Temo che qui non sia diverso, ma un cheerleader maschio che è anche il mio vicino di casa? Questo non era proprio nelle mie previsioni.
«Ehi, non è mica così sorprendente, e.... Oh. Mio. Dio. Quegli stivaletti sono qualcosa di favoloso!» Scruta le mie scarpe con ammirazione. «Sotto quella matassa di riccioli c'è un Chicagoan con stile, vero Noah?» I suoi occhi nocciola scintillano, ammiccando divertito al mio indirizzo.
Il mio nervosismo da primo giorno si dissipa, strappandomi una vera e propria risata. Non aveva pensato che un paio di stupidi stivaletti alla caviglia, di pelle nera ed opaca, potessero farlo approvare in quel modo. Lascio scaricare la risata mentre l'insegna della Sunset High School si avvicina sempre di più. «Guarda che non sono di Chicago!» Scuoto la testa, divertito.
«Ma non sei dell'Illinois?» Sembra perplesso.
«Certo, ma non tutti i cittadini dell'Illinois vengono da Chicago!» continuo, con le labbra premute fra loro come per contenere un moto di sincero divertimento. Più avanti, riesco già a vedere una mandria di adolescenti muniti di zaino; alcuni in bici, altri in skate, altri ancora scortati dai genitori o, come me, con la propria auto. Giro per entrare nel parcheggio, finché...
«Uff, hai sgonfiato un mit...-» La frase rimane bloccata dalla mia brusca frenata, quando una Harley Davidson nera ci taglia all'improvviso la strada, senza nemmeno fermarsi a vedere se mi ha beccato di striscio. Sbatto una mano sul manubrio, di stucco.
«Ma che cazzo...» Apro il finestrino, pronto a fare una sparata al guidatore, ma è già sparito dietro lo scuolabus nel suo guizzo nero e fulmineo. «Ma chi cazzo è quel pazzoide?» Indico la strada davanti a noi, costernato. «Ci stava quasi per prendere in pieno!» Scuoto la testa, sbuffando, prima di riprendere a guidare alla ricerca di un parcheggio. Leo, la mia nuova conoscenza, prende un lungo sorso di frullato, riempiendosi le guance.
«E' solo un tizio.» esordisce, una volta finito, scuotendo la mano nell'aria come per liquidare la faccenda. Alzo le sopracciglia. «Solo uno dei più fighi della scuola.» Storce le labbra. «Peccato che si dice faccia parte di una gang di motociclisti. E che non parli con anima viva da tipo un anno.» Leva gli occhi verso l'alto. «Probabilmente non sa manco l'americano.»
Aggrotto la fronte, ancora più perplesso di prima.
«Dimitrij Jones. Madre russa e padre americano. Si è trasferito qui l'anno scorso.» spiega, scrollando le spalle, mentre io parcheggio l'auto in uno dei pochi posti liberi rimasti. «E' più grande di noi di un paio d'anni, ma fra il cambio di continente e il pettegolezzo dell'espulsione nella sua vecchia scuola, praticamente fa il terzo come noi.» continua, svuotando la borraccia dell'ultimo residuo di quel frullato, per poi gettare con nonchalance la cannuccia dal finestrino. Non mi chiedo nemmeno come faccia a sapere che sono del terzo anno, visto che la mia data di nascita corrisponde col grande fatto di cronaca di cui la città non ha fatto altro che sparlare negli ultimi diciassette anni.
«Sembri sapere tante cose.» Inclino il capo di lato, mentre lui solleva il borsone per poggiarselo sulle ginocchia.
«Ehi carino, io so tante cose di tanta gente!» Mi fa l'occhiolino, evidentemente sentendosi molto orgoglioso della cosa. Mi viene un po' da ridere, ma mi limito a sollevare i lembi delle labbra. «Comunque, devo scappare. Sono in ritardo per gli allenamenti mattutini.» Appoggia una mano sulla maniglia della portiera, prima di voltarsi a guardarmi. «Vuoi dei consigli salva-vita?» Mi limito a fare un cenno col capo. «Non arrivare mai in ritardo alle lezioni di spagnolo, non addormentarti a quelle di matematica, ama il prof di letteratura e lui amerà te. E se il prof di ginnastica sbaglia il tuo nome non osare correggerlo, tanto lo fa apposta! Oh, e soprattutto...» Esce dal pick up, sistema tutti i suoi averi sulle spalle e poi mi guarda attraverso il finestrino, puntando l'indice contro il vetro mezzo aperto. «Gira a largo da Dimitrij, porta guai.» Sorride. «Ma immagino che non sarà tanto difficile.» Detto quello, indietreggia, sventolando la mano a mo' di arrivederci. «Ci si becca in mensa!»
Mentre esco dall'auto anch'io, lo guardo correre via nella sua macchia di colore blu e bianca. Tutto sommato non sta iniziando così male. O almeno questo è quello che credo.
***
Ci sono le code al supermercato. Ci sono i momenti d'attesa alla posta. E poi ci sono le segreterie scolastiche. Non credo ci sia nulla di più noioso.
Quando finalmente concludo di consegnare ogni singolo documento, con fototessera e firme varie in allegato, mi rendo conto che la campanella è suonata da un pezzo. Ho passato così tanto tempo seduto sulla scomoda sediolina di plastica di fronte alla segretaria del preside, una donnona dalla faccia rossa con i capelli biondi tutti increspati e gli aloni di sudore sul golfino rosa fragola, che quasi mi sono dimenticato del tempo che passava. Almeno finché non ho sentito il trillo della prima ora risuonare.
Non so quanto tempo sia passato da quel rumoraccio, ma sono finalmente fuori, con il foglio dei miei orari fra le mani e la combinazione per il lucchetto del mio nuovo armadietto. Mi guardo intorno: le file di armadietti grigi s'affastellano lungo i muri in una distesa infinita, alcuni pieni di adesivi o scritte, altri ancora sterili e spogli; i pavimenti di piastrelle altrettanto grigie puzzano un po' di detersivo al limone, mentre le pareti di un giallo-arancio spento sono coperte per lo più da volantini di corsi aggiuntivi per i crediti, o gruppi sportivi. Dal soffitto pendono alcuni stendardi con il logo di quella che presumo sia la squadra di football.
Non c'è nulla che non vada, eppure il silenzio creatosi sembra innaturale. Sospeso, come se mi trovassi in un mondo a parte, e potessi percepire anche la caduta di uno spillo a qualche metro di distanza. Deglutisco, ascoltando il rumore dei miei passi, mentre proseguo con lo sguardo rivolto ai numeri sugli armadietti. Nel mio vagabondaggio, ad un certo punto, giungo sino ad una vetrinetta lucida, che esibisce una serie di trofei, targhe e foto degli eventi più importanti del liceo. Sono quasi sul punto di proseguire, ma poi noto, fra le vecchie immagini, la faccia del mio vero padre. E' issato sulle spalle dei suoi compagni di football, con le guance sporche di fango e un trofeo innalzato verso l'alto. Nelle vicinanze c'è perfino mia madre, che mostra un sorriso a trentadue denti, tenendo sollevato il pon pon blu.
Sono talmente assorto dai dettagli nella fotografia che, quando il rumore di una porta che sbatte risuona nel silenzio, quasi faccio un balzo dallo spavento. Mi giro di scatto verso il corridoio deserto, ma riesco soltanto a vedere la porta del bagno dei maschi che, per il colpo brusco, invece che chiudersi è rimbalzata sui cardini, restando aperta a cigolare lentamente, in modo sinistro.
«C'è qualcuno?» domando, sentendo la mia voce riecheggiare fra le pareti arancioni. Nessuna risposta. Scuoto leggermente la testa, sospirando. Deve essere stata una folata di vento, ed io sono ancora in tensione per questo primo giorno. Mordendomi un labbro, lancio un'ultima occhiata alla vetrinetta, con uno strappo di nostalgia al petto: avrei voluto conoscerli, avrei voluto che mia madre mi chiamasse Angelina, e poi scoprisse che doveva cambiare i suoi piani. Sollevo le dita, posandole sulla superficie fredda e trasparente, come a mo' di carezza. Ed è così che lo vedo.
Riflesso vicino alla mia immagine, alle mie spalle, piccolo come se si trovasse a qualche metro di distanza, c'è una figura incappucciata di nero. La maschera bianca ed inespressiva punta lo sguardo verso di me. Mi volto di scatto, congelandomi sul posto.
"... Rinvenuti all'interno della camera d'ospedale della Thompson una maschera bianca ed un mantello con il DNA del giovane Tyler Coox..."
Mi si secca la bocca all'istante, tanto che per un attimo mi limito a fissare quella persona, chiunque essa sia. Non si muove. Sta semplicemente a fissarmi. Il cuore prende a battermi più veloce, ma all'improvviso realizzo: qualcuno pensa di fare uno scherzo di cattivo gusto al nuovo arrivato.
«Pensi che sia divertente, coglione?» sibilo, anche se la mia voce non è affatto minacciosa come vorrei. Sembra più impaurita. Stringo i pugni. «No! Non fa ridere per niente!» Digrigno di denti, rendendo la presa sui miei documenti tanto forte da stropicciarli. «Perciò tornatene dai tuoi amici e dì che lo scherzo di pessimo gusto non ha funzionato!» sbotto, arricciando la fronte in un'espressione furente. Per qualche attimo mi limito a fissarlo con una certa rabbia, nei pochi secondi che dovrebbero precedere il mio allontanamento: dovrei girare i tacchi e andarmene come se nulla fosse. Dovrei.
Ma poi lo scintillio di qualcosa di metallico mi fa bloccare sul posto. Dai lembi del mantello incominciano a sporgere le punte di un paio di forbicione. Impallidisco, il sangue mi si ghiaccia nelle vene e i miei passi, involontariamente, iniziano ad indietreggiare. Di conseguenza, quella figura incomincia a camminare con la stessa lentezza con cui io arretro. Entrambi come se camminassimo su un sentiero minato. Però poi batto la schiena contro la vetrinetta.
E così l'incappucciato inizia a correre verso di me.
Quasi come se nella mia testa si fosse attivato un comando magico, mi volto ed inizio a correre. Svolto nel corridoio, mettendo un passo davanti all'altro senza guardare dove sto andando. I miei occhi scandagliano con terrore le pareti ricoperte dagli armadietti, alla disperata ricerca di una porta, di una stanza in cui rifugiarmi, invece mi sembra che quella fila di metallo grigio continui all'infinito. Mi guardo indietro, angosciato: i lembi neri del mantello svolazzano appena, le mani guantate sono serrate sulle forbici e quella maschera continua ad essere imperscrutabile. Il suo modo vuoto e fisso di guardarmi fuggire ed incespicare sulle piastrelle scivolose mi inquieta così tanto che sento le gambe iniziare a tremare.
Inciampo, cado ginocchia a terra e ci rimango, almeno per l'angosciante frazione di secondo che mi serve per guardarlo avvicinarsi, alzare le forbici per caricare il colpo, e poi... Scatto in avanti. La luce verde dell'uscita d'emergenza è come un'ancora di salvataggio, tanto che tendo le braccia e mi arpiono al maniglione orizzontale spingendolo verso il basso, per poi spalancare la porta e ritrovarmi fuori. Fulmineo, la richiudo alle mie spalle e ci appoggio la schiena assieme a tutto il peso del corpo. I documenti e la borsa con i libri mi scivolano dalle dita prive di forza, mentre mi accascio a terra con gli occhi sbarrati dalla paura, scosso da un'ondata di respiri affannosi. Non grido neppure per chiedere aiuto... Non ho abbastanza aria per farlo.
Non respiro.
Strizzo gli occhi, con i suoni che all'improvviso diventano troppo distanti: il gracchiare di qualche corvo in lontananza, il frusciare delle chiome degli alberi nel vento, il battito di qualcuno che spingeva contro la porta... Finché due mani possenti non mi afferrano da sotto alle braccia e mi tirano su, usando la forza per farmi stare in piedi.
La prima cosa che riesco a focalizzare è un giubbotto di pelle nera. Quando sollevo un poco la vista, riesco a notare il collo nero di un dolcevita, un intrico di rose rosse tatuate che sporge dai lembi della maglia all'altezza della gola, e poi un viso che mi è sconosciuto, dalla carnagione così eburnea che dubito abbia mai visto la luce del sole estivo. La mascella ben definita, i tratti appena affilati, le labbra carnose che tengono intrappolate una sigaretta arrivata quasi al filtro. La mia analisi prosegue fino al naso dritto, e poi più su, verso gli occhi dal taglio sottile che mi squadrano attentamente, nello stesso modo in cui lo sto guardando io. Ha un ciuffo morbido di capelli biondi così chiari che perfino le ciglia sono pallide, e le iridi di un colore così difficile da interpretare che cercare di capirlo è un buon modo per riprendere fiato.
Riflettono tutto ciò che gli sta intorno: se mi guarda negli occhi, i suoi sembrano neri. Ma con un raggio di sole iniziano a colorarsi d'ambra, e verso il cielo nuvoloso di grigio. Sono come delle biglie di vetro trasparente. Abbasso lo sguardo, ritornando a fissargli il petto ampio: è così alto e con delle spalle tanto larghe che non mi stupisce la facilità con cui mi tiene sollevato, come se fossi un bambino. Ma poi noto il casco che gli pende da un polso, capisco che il suo è un giubbotto da motociclista e subito comprendo di chi si tratta.
Lo stesso tizio che mi ha tagliato la strada. Lo stesso di cui mi ha tanto parlato il mio nuovissimo amico cheerleader. Dimitrij Jones.
Mi dimeno per liberarmi, cercando di riprendermi come posso, annaspando per provare a spiegargli che un pazzo mi stava inseguendo, che probabilmente stavo per morire e che forse è ancora là dentro ad aspettarmi. Ma sono così scosso che non mi escono le parole. Lui però mi lascia andare e, con un gesto fulmineo fra indice e pollice, fa saltare via la sigaretta ancora fumante a terra.
«Primo giorno e già crei problemi?» esordisce, incurvando le labbra in un impercettibile sorriso che, a primo impatto, mi sembra maligno. Il suono della sua voce è profondo e basso, la lingua sporcata da un accento affilato quasi inudibile, un suono che ricorda un vetro che s'infrange, e che si nota soltanto se si fa estrema attenzione. Mi sfiora il fianco con una mano, scostandomi dalla porta. «Buona fortuna, Lentiggini.»
Dette quelle parole con un tono un po' sprezzante, apre l'uscita d'emergenza e se la chiude alle spalle sbattendola, con un tonfo che un po' mi risveglia dalla paralisi. Non ho detto neanche una parola, ma di una cosa mi sono accorto.
A quanto pare l'americano lo sa parlare, lo stronzo.
***
*NDA*
Hola!
Che dire per questo capitolo? La creazione del cheerleader è maturata dopo le grandi discussioni fra me e giuli_milani, che tifa per lui e mi implora di non fargli del male. Chissà c: Spero che Dimi vi abbia suscitato un po' di curiosità e...
Alla prossima ^^
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