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Prologo


Notte di Halloween 2001

L'intreccio di furia dentro Miguel fremette, un tremolio di odio, ebrezza, brama di sangue, tutto in un singolo cigolio di legno contro legno, in un fruscio di dita che sembravano tremare non per la paura, bensì come se un demone lo avesse scosso dall'interno. Strofinò debolmente la punta della mazza da baseball contro il parquet, molle la sua presenza eppure agghiacciante, per il modo placido in cui mosse il capo di lato, quasi avesse voluto immaginarsi una maniera migliore e ancora più cruenta per uccidere. Gli occhi che si specchiavano contro la porta di legno ancora chiusa, da dentro all'abisso nero che erano i fori della sua maschera.

Una maschera bianca ed immacolata, che per tanto contrasto fra il suo candore e la tenebra del mantello che portava addosso sembrava quasi fluttuasse nel nulla, per gli sfortunati che lo avessero visto al buio. Vestito come un inespressivo mietitore ma senza falce, con i lembi arricciati della tunica che gli lambivano la punta delle scarpe.

La spietata vuotezza delle sue pupille e la durezza delle labbra che premettero le une contro le altre quasi non si riuscivano a notare, con quel suo costume addosso. Se solo avesse provato ancora dei sentimenti, allora avrebbe avvertito il mostro di una terribile inquietudine lacerargli lo stomaco, per colpa di ciò che stava per commettere... Ma era molto più comprensibile che fosse lui il mostro, dal sangue freddo e calcolatore che gli scorreva nelle vene, ora più di tutti gli altri giorni. Questa notte più di qualsiasi altra al mondo.

Nelle orecchie continuava a ronzare il suono persistente della musica, che rimbombava in ogni stanza di quella villa lussuosa in maniera tanto perentoria che più che sembrare un suono ricordava una di quelle puzze di rancido che permangono anche se ti liberi dell'immondizia. Non ne sembrava infastidito. Lasciava che quel ritmo bombardante gli entrasse nella testa, accordandosi al battito del suo cuore, per nulla frenetico. Lento, come se camminasse sul filo del rasoio con la paura di cadere.

Ma lui non aveva paura.

Dentro al mantello riusciva a sentire il piatto della lama fredda che premeva contro la pelle nuda e questa sensazione gli conferiva... Soddisfazione. Il coltello era infilato dentro all'orlo dei pantaloni, perfettamente incastrato, in bilico come se fosse stato pronto ad usarlo da un momento all'altro. Ma non ne avrebbe avuto bisogno, non subito. Doveva prestare pazienza.

Intanto, da qualche parte, in netta vicinanza con quella stanza, fra qualche corridoio sporco di patatine e festoni, si udì il suono di voci mischiate all'isterico boato della musica. Qualche esclamazione che a lui non sfuggì. Quella era la festa che aveva organizzato lui, quella era casa sua, e nulla poteva sfuggirgli.

- Povera Theresa! - E poi risatine, ancorate a quell'inconfondibile tono ilare che gli fece contorcere le dita dalla collera. Ma era una rabbia gelida, di quelle che ti scorrono nelle vene come il ghiaccio, una rabbia calma. Un caos calmo. Dentro di lui c'era l'ordine perfetto, come una tavola apparecchiata ad arte per il lauto banchetto che ci sarebbe stato. Dietro alla sua maschera bianca, c'era un macabro appetito per le stragi che fra qualche secondo avrebbe saziato.

A terra, la vibrazione di un messaggio accese il display di quel vecchio cellulare, illuminando in bagliori azzurri gli orli del mantello nero. Gli bastò abbassare le pupille, senza muoversi di un millimetro, come uno di quei vecchi quadri a cui vengono tagliati gli occhi per poter spiare dentro ad una stanza. "Arrivo topolina! :P " Lesse meccanicamente la risposta al messaggio che lui stesso aveva scritto, non appena era riuscito a sottrarre il telefono ad una delle invitate alla festa. Poi, tornò a fissare la porta senza spostarsi, continuando ad avere una mano poggiata sul pomello della mazza, come una sorta di bastone da passeggio. Gustandosi il piacere dell'attesa e l'esaltazione di rivivere dentro alla sua testa, mille volte, quello che avrebbe fatto di lì a poco. Immaginandoselo ancora, e ancora, e ancora.

Fino a che non sentì il suono di passi in avvicinamento: passi pesanti, come quelli di un ragazzo abbastanza alto e piazzato da produrre quel rumore. Sapeva che stava per fare il suo ingresso, ed infatti lo sguardo cadde sopra alla maniglia della porta con una certa febbrile euforia, ma non si scompose minimamente. Poi, l'uscio si spalancò e si chiuse velocemente, mentre quel celebre giocatore di football lanciava un sorriso dentro alla stanza, immaginandosi uno scenario completamente diverso. Ciò che gli si parava davanti, invece, era un'inquietante figura incappucciata di nero, ed una maschera bianca ed inespressiva che lo fissava insistentemente, come se avesse potuto carpire ogni sua singola debolezza.

- Oh. - esclamò di botto, alzando le sopracciglia. Nonostante un certo nodo d'angoscia gli si fosse piantato in mezzo alla gola, lo ricacciò deglutendo piano. Quella era una festa di halloween. Una festa di commemorazione, in verità, ma pur sempre a tema. Perciò buttò fuori una risata nervosa e rivolse alla misteriosa figura un cenno del mento. - Scusa amico, ho sbagliato stanza! - E si voltò, pronto a lasciarsi alle spalle quella sensazione di sbagliato che lo stava cogliendo ingiustificatamente.

Ma non fu mai in grado di riaprire la porta.

Quell'immobile e silenzioso mietitore aveva già estratto il coltello, e l'urlo lacerante che venne ricacciato dopo, lo potè sentire soltanto lui. La musica nascondeva il resto. Perciò continuò ad affondare la lama dentro alla spalla di quel ragazzo, così forte da arpionarlo col petto contro l'anta della porta, così in fondo da sentire la punta delle dita conficcarsi dentro alla ferita, farsi strada nella carne viva. Non gli piacevano i guanti che indossava. Gli impedivano di sentire il sangue imbrattargli le mani, ficcarsi sotto alle sue unghie a restare per giorni, ricordandogli con piacere quello che aveva fatto. Ma non li tolse.

Piuttosto, continuò a tacere e a sentirlo imprecare e poi piangere. E dopo a implorare e pregare a squarciagola di lasciarlo andare, di non fargli del male, perché non voleva morire, aveva giusto vinto una borsa di studio per il college. A Miguel sembrò un suono piacevolissimo. I patetici ultimi voleri di un patetico tipo che non valeva nulla. Probabilmente avrebbe ascoltato i suoi versi di dolore fino alla fine, continuando a ficcargli le dita nella carne per momenti lunghissimi. Ma poi le preghiere gli ricordarono quelle di Theresa, e quei versi lamentosi gli fecero venire in mente i gemiti soddisfatti del porco. Perciò si staccò, lasciandogli il coltello nella spalla, per prendere finalmente fra entrambe le mani la mazza da baseball.

Un suono ancor più piacevole fu l'inconfondibile rumore del suo cranio che si spaccava, cozzando in un armonioso incontro con il legno saldo della sua arma e battendo ripetutamente contro la porta. Ricordava quel momento in cui, nella fiera estiva del paese, qualcuno rompeva le angurie in un'armoniosa esplosione di succo rosso. Uno spruzzo di sangue chiazzò la sua maschera di scarlatto, ma continuò ad abbattersi contro la testa dell'individuo fino a che non sentì più alcun grido. Il corpo del ragazzo smise di reggersi sulle gambe: restò a penzolare dalla lama conficcata nella spalla, con le caviglie molli e la testa fracassata piegata contro alla porta, rigata di sangue.

Per un momento l'assassino rimase a guardarlo estasiato, come sperando di imprimere nella sua mente quell'immagine. Poi, strappò via il coltello dalla carne della prima vittima ignorando il tonfo del corpo che cadde a terra, di cui lui sollevò il braccio per trascinarlo ad un angolo della stanza, lasciando una scia di sangue che continuava a spargersi intessendo sul pavimento una ragnatela di strisce cremisi. La stanza si riempì dell'odore della morte e Miguel ci sguazzò con un delizioso sorriso nascosto dietro alla maschera, indugiando, indolente, negli attimi di tempo che passò a ripulire il coltello con i lembi neri del suo mantello.

Tuttavia, non era ancora finita. La serata di halloween era appena all'inizio.

Ecco perché si prese tutto il tempo per ripetere quella trappola, per adescarne il secondo, a cui sfracellò il cranio ancor prima che potesse vedere quello spettacolo raccapricciante. Lasciò che pezzi delle cervella rimanessero sparsi sul parquet e che gli orli della sua veste nera s'inzuppassero di sangue. Nelle suole delle sue scarpe erano rimasti incastrati brandelli di carne, e se spostava il peso del corpo poteva sentire un insopportabile rumore appiccicosiccio... Ma non importava. Sapeva solo che l'ultimo verme schifoso l'avrebbe ucciso con estrema lentezza. Gustandosi ogni suo grido, ogni suo lamento, ogni sua più piccola parola pregna di dispiacere.

E così tornò ad aspettare, restando immobile al centro della stanza, per poi avanzare verso la porta con passi pesanti. Aggressivi, come con un'aura negativa dietro, lugubre, di giudizio. Sembrava quasi che con quei suoi passi avesse voluto far sentire anticipatamente la pressione del fastidio che l'ultimo dei tre gli provocaca. Una pressione quasi violenta, quasi l'assassinio fosse stato l'altro a commetterlo, invece che lui. Un male come il veleno che gli aveva sporcato il cuore e la mente.

Poi, il popolare e avvenente capitano della squadra di football fece il suo ingresso. Tyler sapeva che molti, a scuola, lo invidiavano. Ma era il problema di tutti i quarterback: o ti amavano, o ti odiavano. E lui capeggiava l'intero liceo, così che avrebbe potuto spazzare via l'ultimo brandello di quegli sfigati che gli remavano contro. Adesso, però, una buona parte della sua boriosa sicurezza si era volatilizzata, mentre a sopracciglia aggrottate cercava di capire che cosa avesse voluto dire il messaggio che gli avevano mandato cinque minuti prima.

"Hai perso i tuoi amici? Vieni a riprenderteli."

Solo un paio di preziosi secondi dopo si accorse del sangue. Ma non fu abbastanza rapido da evitare l'incombere della figura ammantata di nero, che s'era appiattita contro la parete accanto alla porta, in trepidante attesa del suo arrivo. Riuscì solo ad avvertire il botto della mazza contro la testa, che gli fece fischiare le orecchie e lo fece barcollare sulle gambe. Aveva i riflessi pronti, ma il pavimento era scivoloso di qualcosa che, nel buio, non riusciva a vedere: cadde ginocchia a terra e strinse i pugni sul pavimento sporco, stordito.

Le luci che provenivano dall'esterno, però, erano abbastanza presenti da gettare bagliori fra le tapparelle abbassate: gli occhi caddero sulla pozza di sangue sopra cui era seduto, e poi sui corpi martoriati dei suoi amici, ammucchiati in un angolo della stanza, scomposti sul parquet come bambole di pezza. Prima di sentire il morso della nausea afferrargli la bocca dello stomaco, lanciò un grido di terrore misto a furore, in un indescrivibile miscuglio di raccapriccio. Subito dopo, sopraggiunse il dolore.

Boccheggiò, abbassando lo sguardo all'altezza del suo ventre, scioccato nel vedere la punta di un coltello che spuntava dal suo stomaco con un tremendo luccichio rosso. Quella era il suo sangue. Poi, una maschera bianca spuntò da dietro alla sua spalla, guardandolo fisso, gli occhi vitrei ed intensi in maniera tale da trasmettere gelo e ferire al tempo stesso. Come pugnali, come se nelle trame dell'epidermide di Tyler fossero intessuti insulti. Che lanciò un secondo urlo, come se avesse riacquistato all'improvviso la voce.

- Proverai quello che ha provato lei. - Il suono della voce di Miguel che rimbombava dietro alla maschera, arrochita dalla brutalità del sangue che regnava tutt'attorno a loro, suonava così insana da sembrar disumana. - Desidererai quello che ha desiderato lei. - Sibilò, sputando le parole quasi fossero veleno, alitando il fiato caldo contro l'orecchio del ragazzo, che era talmente agghiacciato, ora, da non riuscire a muovere la lingua. - La morte. -

L'incappucciato gli strappò la lama dalla schiena e gli strattonò i pantaloni abbastanza da abbassarglieli. Doveva mantenere la promessa. Fare a lui quello che l'altro aveva fatto alla sua Theresa. Perciò lo sbattè a terra e si slacciò la cintura, facendo scivolare giù la zip per liberarsi da ogni impedimento. Violentarlo non sarebbe stato così difficile per lui, considerata la faccia dai lineamenti sensuali del capitano di football. Perciò, gli afferrò i capelli in un pugno e gli tirò la testa all'indietro con uno scatto violento, inchiodandolo con i suoi occhi, che spuntavano dalla maschera.

Voleva vedere la sua espressione. Voleva osservare le sue iridi scure incupirsi e stravolgersi per la sofferenza. E le sue labbra tremare.

Si limitò a sputarsi in una mano, passandosi rapidamente il palmo sulla virilità per rendersi l'ingresso più facile e, dopo, entrò nel corpo di quel verme con un colpo secco. Senza il minimo ripensamente o esitazione: semplicemente dando una spinta di fianchi troppo forte. Abbastanza da far gridare l'altro, abbastanza da ringhiare dal piacere improvviso che provò. Un ringhio che si amplificava per ogni spinta e per ogni suo grido. Per ogni volta che biascicava fra le lacrime la parola Scusa.

Quando ebbe finito di vederlo rantolare, urlando e sputando sangue, smise di abusare di lui e si rialzò in piedi, ben sapendo che quel verme sarebbe rimasto a terra.

Faceva tutto molto, molto lentamente. Voleva godersi il momento. Ma non si fece affatto pregare quando afferrò la sua mazza da baseball e la scaraventò sulla testa dell'ultimo schifoso essere in vita. E la scagliò ancora. Più andava avanti, più si cullava nel rumore appiccicoso di cervella che si spappolavano, pian piano, riducendo la faccia in brandelli, in pezzi d'ossa e materia grigia. Il sangue... Il sangue amalgamava tutto. Ogni rabbia, ogni violenza, ogni dolore. Ecco perché non smise di infierire sul volto del capitano di football, fino a che non rimase solo poltiglia sul pavimento. Non meritava di morire con una faccia.

L'ultima cosa che rimase ai tre, fu godersi il piccolo flash proveniente dal cellulare di Tyler. Una bella foto funebre, per una degna festa di commemorazione a tema halloween.

***

Nella stessa notte di halloween, nella stessa città della Virginia, e poco meno di un'ora dopo, una ragazza sorrise stringendo un neonato al petto.

Era intenta ad accarezzargli il minuscolo nasino con la punta del polpastrello, con un'aria stanca e meno insoddisfatta del previsto. Aveva partorito da poco, ma le infermiere, dopo aver pulito il bambino, le avevano dato il permesso di tenerlo ancora un poco. Quel figlio era un errore, e avrebbe dovuto disfarsene quando poteva, ma non se ne era accorta subito, ed un po' per paura, un po' per vergogna, aveva posticipato la dura verità fino a quando non era stato troppo tardi. Tyler non si era preso nemmeno il disturbo di passare con lei un momento come questo, anzi, aveva pensato bene di andarsene ad una festa. Del resto, quale adolescente avrebbe desiderato diventare padre?

Sull'onda di quel pensiero, si ritrovò a sbuffare. E a mischiarsi con quel suo verso ci fu la vibrazione del cellulare lasciato sul comodino, in attesa di un solo messaggio da parte del suo ragazzo. Sussultò. Non se lo aspettava. Quando aprì il suo cellulare richiudibile con uno scatto del pollice, si sorprese nello scoprire che, in verità, si trattava di un MMS. Quell'idiota le aveva inviato una foto, probabilmente della festa. Alzò gli occhi al cielo, aprendo il messaggio, un attimo prima di congelarsi davanti al contenuto.

"Il papà ti invia i suoi saluti."

Il telefono le cadde dalle mani e, nello stesso istante in cui aprì la bocca per urlare dall'orrore, l'allarme anti-incendio dell'ospedale iniziò ad ululare il suo ruggito d'emergenza. La porta dell'elegante stanza privata della cheerleader si aprì con un solo strattone, ed invece di veder affacciarsi un'infermiera trafelata che l'avvisava dell'evacuazione, i suoi occhi scrutarono ben altro.

Un grido le morì in gola, mentre gli occhi azzurri di lei incontravano due voragini nere intagliate in una maschera bianca ed impassibile, schizzata di sangue rappreso. Il cuore perse un battito e, mentre si strappava via le flebo dalle braccia, si slanciò giù dal letto con tutta l'intenzione di scappare. Ma l'unica via d'uscita era la porta e sapeva che, per passarci, doveva prima superare quella figura incappucciata. Che ora si avvicinava a lei, incombendo lentamente come l'ombra scura della morte. Le gambe non ressero e cadde a sedere a terra, trascinandosi con il braccio libero in un angolo della stanza.

- Ti prego... Ho un figlio... Non farci del male... -

Il tono implorante, gli occhi colmi di terrore, il neonato stretto al petto... Nulla fu abbastanza da evitare ciò che stava succedendo. L'incappucciato si fermò davanti a lei, una volta messa spalle contro al muro, specchiandosi nei suoi occhi pieni di terrore. Era quello che voleva. Lo aveva desiderato per così tanto che aveva pregustato sulla lingua il sapore di quei quattro individui annientati e ridotti a brandelli. Ma poi il suo sguardo si piazzò sul neonato, un fagotto con gli occhi ancora chiusi e i pugnetti serrati ad acciuffare l'aria. All'improvviso, il braccio che ciondolava al fianco di Miguel si allungò verso la ragazza: la mano si aprì e con il palmo libero le fece cenno di alzarsi.

Non disse nulla, neanche quando lei sembrò rincuorarsi, cullarsi nella convinzione di essere stata risparmiata. Continuò perentoriamente a tacere, guardandola posare il bambino sul letto, fino a che non rimase a fronteggiare soltanto lei. Fu proprio in quel momento che si tolse la maschera. Cadde a terra, e lì vi rimase. Al suo posto, mostrò il volto profondamente incavato dall'odio e dalla rabbia gelida che non lo abbandonò nemmeno per un istante.

- Ora buttati. - pronunciò, con estrema calma. Estrema. Fatale, si direbbe. Non le diede neppure la possibilità di fuggire. L'afferrò ancor prima che si mettesse a correre e l'accompagnò alla finestra di quel sesto piano, imperturbabile, mentre il bagliore della luce d'allarme, rossa e lampeggiante, gli illuminava la faccia di toni cremisi, facendolo assomigliare più ad un diavolo che ad una persona in carne ed ossa.

Gli occhi stessi di Miguel sembravano promettere a quella ragazza, mentre la spingeva a forza giù da quella finestra, che si sarebbero rivisti all'inferno.

L'ultima cosa che lei guardò, fu la faccia di quel ragazzo incappucciato che la vedeva cadere, per poi sfracellarsi al suolo in una pozza di sangue.

Si sarebbero rivisti all'inferno.

***

*NDA*

Hola a tutti i lettori, i nuovi e i vecchi!

Finalmente posso dire di essermi tolta un piccolo desiderio: una storia horror, un bell'intreccio slasher. Ah, non vedo l'ora di addentrarmi nella vicenda, davvero. Comunque, faccio un enorme ringraziamento a giuli_milani che mi ha aiutata tantissimo, e che continuerà a farlo "muovendo" un personaggio molto particolare della storia. Scoprirete leggendo. Che dire? Spero che l'intro vi sia piaciuto, ringrazio anticipatamente chi leggerà e supporterà questa stora, e...

Al prossimo, primo capitolo! ^^

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