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II: Miguel




Lì per lì non sono i suoni vicini a chiamarmi, quanto quelli lontani.

E' facile immaginare che le guardie non si facciano tanti problemi a fare rumore, camminando a passo pesante e scambiandosi due o tre parole fra di loro mentre proseguiamo. Ma più mi avvicino, più il silenzio che proviene dai distanti corridoi del penitenziario mi ghiacciano le vene. Per un lungo, terrorizzante attimo, chiudo gli occhi sigillando le folte ciglia superiori con quelle inferiori, estraniandomi da ogni luce, asciugandomi i palmi sudati delle mani sui pantaloni, concentrandomi sullo scalpiccio delle mie converse piuttosto che sul rumore costante ed incontenibile del cuore dentro al petto. Pare che mi sia stata piazzata una bomba ad orologeria fra le costole, che sta solo aspettando il momento più disgraziato per scoppiare.

Respiro troppo forte ed ho l'impressione che la paura mi stia mangiando il cervello con un cucchiaino, perché all'improvviso non riesco ad imprimere dentro alla testa un singolo pensiero sensato: ripenso a quello che ho lasciato a casa, a mio padre preoccupato, a Josh perennemente chiuso nella sua camera a giocare a quegli stupidi videogiochi sparatutto, con una rabbia silenziosa dentro e l'idea che l'abbia abbandonato. E per cosa? Un criminale. Immediatamente una fitta mi taglia lo stomaco ed ho l'impressione di dover vomitare, tanto che mi fermo di colpo e la guardia che mi conduce nota il silenzio dietro di lui, arrestando a sua volta la camminata. Si gira a guardarmi, perplesso.

Ma io non ricambio l'occhiata, benché ora abbia le palpebre sbarrate. Devo sembrare bianco come un cadavere, su questo non c'è alcun dubbio. Tanto che si avvicina, pur senza toccarmi, e mi avvisa con un tono calmo e sicuro: «Non può farle del male.» Il commento mi fa sentire forse anche peggio, perché so che quel criminale ha già fatto abbastanza: ha ucciso i miei genitori e ha rubato cinque anni della mia vita, persi in una spirale di memoria andata col tempo. Sull'onda di questa riflessione, riassumo un barlume di lucidità, adesso più essenziale di qualsiasi altro momento. Venire qui era qualcosa che dovevo fare. E non importa quanto i miei denti battano, perché digrigno la mascella producendo uno sgradevole strofinio.

«Lo so. Andiamo.» replico, in tono forse un po' sprezzante, ma non ci faccio caso. Perché passo dopo passo, raddrizzo la postura e alzo il mento, cercando di ostentare una sicurezza che non mi appartiene per nulla. Al tempo stesso, analizzo ogni centimetro del mio essere alla ricerca di qualcosa che faccia pensare che mi sia preparato fin troppo per l'incontro, un fatto vero, ma che non voglio emerga. Le converse blu notte consumate ai piedi, i jeans scuri strappati sulle ginocchia, una felpa grigio melange troppo grossa per me; tutto sommato un abbigliamento comune. Non si direbbe che io sia il figlio di un quarterback, ma ormai ho capito di aver preso da mia madre e ne rimpiango, perché in questo momento non so che cosa avrei dato per essere un colosso. Grande, grosso e senza paura. E poi ci sono i riccioli nocciola sparsi tutt'intorno alla testa come un'aureola di cioccolato, che per quanto cerchi di tenere a bada, non c'è verso che mi obbediscano.

Sembro una persona perfettamente normale. Un ragazzo banalissimo. Ma sto cercando di essere quel tipo di ragazzo che non ha paura di niente, anche se, mentre consegno l'autorizzazione firmata da mia nonna e mi preparo ad una rapida perquisizione, sento le gambe farsi di gelatina. Apro le braccia, lascio che mi tastino e mi tocchino alla ricerca di oggetti potenzialmente pericolosi, infine abbandono il mio unico effetto personale - uno zaino - prima di essere condotto davanti ad una porta di metallo, chiusa, che la guardia incaricata d'accompagnarmi apre con un crepitio elettrico: una specie di beez che mi riverbera nella testa un milione di volte, col silenzio che ci circonda. Dopo, è il mio turno di entrare. Esito.

Sì, esito per qualche istante fissando la soglia, con il cuore in gola e le dita delle mani e dei piedi che si sono fatti gelati, come se il sangue avesse smesso di fluire in quei punti. Getto un'ultimissima occhiata alla guardia al mio fianco, poi solco l'entrata della camera e sento la porta chiudersi dietro di me, con un nuovo rumore elettrico che sembra volermi dire: "Non puoi più scappare".

Il posto è molto simile a quelle camere da interrogatori che si vedono nei film: una parete con un riquadro a specchio - che tuttavia non sarà usato, non nel nostro caso -, le pareti di intonaco beige un po' scrostato, le pavimentazioni grigie ed un tavolo ancorato al pavimento, con due sedie di plastica da un lato all'altro, vuote. Lui non è ancora arrivato ma io mi siedo lo stesso, ben sapendo che se rimanessi in piedi a lungo, le mie gambe cederebbero alla paura e finirei per cadere a terra. Perciò prendo posto ed incrocio le caviglie sotto alla sedia, appoggiando i gomiti e rimanendo a fissare, con le palpebre strizzate in uno sguardo determinato, di micidiale concentrazione, il posto deserto di fronte a me. Da quel lato, ci sono degli uncini ancorati alla superficie di metallo del tavolo e un paio di spesse manette che, quando gli verranno messe ai polsi, lo renderanno innocuo. Ma questa è solo una supposizione.

Ed io sono solo un ragazzo che, si suppone, sia coraggioso e forse un po' incosciente. Dentro, la paura mi sta letteralmente mangiando.

Poi, all'improvviso, il beez che proviene dalla porta secondaria di fronte a me cattura la mia attenzione, e così abbasso le mani per nasconderle sotto al tavolo, iniziando a torturarmi dito dopo dito, infilandomi le unghie dentro al palmo per disegnare mezzelune rosse nella carne. Stringo i pugni così forte che mi si sbiancano le nocche delle mani, combattendo una lotta interiore fra il tenere gli occhi piantati sulla figura di Miguel Hebrew, oppure sul pavimento grigio intriso di polvere negli angoli della stanza. Per il terrore improvviso quasi ho l'affanno, ma mi mordo il labbro inferiore abbastanza forte da reprimere la cosa: mi limito a respirare furiosamente e poi buttare fuori aria dal naso come se sospirassi senza aprire la bocca. E alla fine la lotta interiore ottiene la sua vittoria: il mio sguardo si pianta sull'assassino, le mie iridi così nere e la mia occhiata così trivellante che spero possano scavargli un buco in mezzo alla pancia.

Fino a che non si volta verso di me. Non incontro i suoi occhi, perché non mi sta guardando. Fissa il tavolo davanti a sé come se cercasse di intravedere delle scalanature invisibili nella superficie di asettico metallo. Ma io mi congelo lo stesso, sentendo le budella attorcigliarsi per quella scintilla di delusione dentro al petto mista alla paura che persiste: anni ed anni ad immaginarmi come possa essere cambiato rispetto alle foto della sua adolescenza; anni a sperare che la prigione l'avesse distrutto. Anni a figurarmi il solito aspetto del carcerato, intessuto di tatuaggi e barba incolta, cicatrici e denti mancanti a causa delle troppe risse. Invece, non è affatto come credevo. L'uomo che ho davanti ha la pelle ambrata di chi passa le giornate sotto al sole, gli occhi azzurri di chi ha perso troppo tempo a guardare il mare e i capelli corvini tenuti corti, di chi non se li lascia crescere anche se si trova sull'orlo del degrado più assoluto. Non ha l'aspetto di un mostro.

Non si è nemmeno preso la briga di rendersi presentabile. C'è la sua divisa di un insopportabile arancio, colore che in questo ambiente neutro è un pugno nell'occhio, di cui tiene la parte superiore legata intorno alla vita, come una specie di meccanico in una mattinata di caluria estiva; mostra il torso scolpito ed ambrato come se ne fregasse dell'inverno e della decenza. Inarco ancora più gravemente le sopracciglia verso il basso, sentendo un grumo di rabbia e odio appropiarsi del mio corpo, della mia mente, di ogni singola fibra del mio essere. E nonostante la guardia gli ronzi attorno per togliergli le manette dai polsi ed allacciargli quelle fissate al tavolo, assieme ad una alla caviglia, io continuo a fissarlo come se quella terza persona fosse una mera intrusione, invisibile fra di noi.

A collegarci, un legame indissolubile fatto di morte, di perdita, e di quei cinque anni che solo lui conosce. «Avete mezz'ora, se finite prima, suoni il campanello rosso.» Sento il poliziotto rivolgersi verso di me, ma non oso staccare gli occhi dal moro, con la paura che una volta fatto, non riuscirei a trovare abbastanza coraggio da fissarlo di nuovo. Onestamente non riesco neppure a parlare, perciò annuisco vigorosamente col capo. Basta così. Tutto qui. Poi il silenzio, almeno fino a che non è lui ad esordire.

«Non pensavo ti avrei mai rivisto.»

I miei occhi trovano i suoi, si incrociano, ci si infioccano ed ingarbugliano, e quell'unico grumo di saliva che trattenevo fra le labbra ora scende fino alla gola seccandomi la bocca all'istante. Lingua e palato s'incollano insieme. Il tempo sembra fermarsi, il respiro mozzarsi. Ed è come se ci trovassimo sui due piatti opposti della bilancia. Il sangue sulle dita di uno che è il colpevole e dell'altro che è la vittima. Il protagonista e il villain, il santo e il pazzo. Tutto nella stessa frazione minuscola di vita, orribile eppure così... Vera. Tutto negli occhi azzurri di questo psicopatico.

Le mie pupille si dilatano appena, la bocca si schiude. Chi è capace di togliermi il fiato solo con quelle spoglie da miserabile carcerato, incatenato ad un tavolo e pavimento, ha più potere su di me di quanto immaginassi. Mi sembra quasi di percepire la mia carne e il mio sangue sulle sue mani, se solo mi ghermisse. Ed un brivido gelido mi scivola sulla schiena come sudore freddo, appiccicandomi la felpa alla pelle.

«Perché hai acconsentito a vedermi?»

Ho passato così tanto tempo a guardare il soffitto blu della mia stanza alla ricerca di un modo infallibile e micidiale per iniziare il discorso, ma tutti i miei propositi, tutti i miei programmi, si sono ridotti alla punta sottile di uno spillo, caduto nell'infinità enorme del sentimento che sto provando adesso. Smarrimento. Ma non voglio che lui lo noti, ecco perché scarico tutto nei pugni nascosti sotto al tavolo, di cui sento sanguinare i palmi scorticati.

Nonostante tutta la paura, non smetto neanche per un momento di guardarlo. Lo scruto mentre si umetta le labbra secche, palesando in maniera estremamente evidente la sua perplessità. E' perplesso? Un pazzo come lui può esserlo? Pensavo che fosse impossibile per un assassino psicopatico sorprendersi ancora di qualcosa, ma adesso che ci rifletto, anche io trovo la mia domanda strana. Insensata. Non me ne frega niente del motivo per cui lui ha accettato. Lui però aggrotta la fronte e, all'improvviso, scatta in avanti come una molla chiusa dentro ad una scatola.

Il movimento è così repentino e fulmineo che mi fa letteralmente sobbalzare: scatto in piedi, con la sedia che si sposta rumorosamente di diversi centimetri dietro di me, e i miei occhi quasi spiritati che fissano ogni suo movimento, con il terrore vivo che quelle catene possano spezzarsi e lui possa completare il lavoro che ha iniziato tanti anni fa. Mentre me ne sto in piedi, immobile, le ginocchia molleggiate come per proteggermi da qualsiasi aggressione in arrivo, guardo le vene tese sul suo collo, i muscoli che guizzano nel tentativo spasmodico di slanciarsi il più possibile dall'altro lato del tavolo, verso di me. Ha cercato di tendere le braccia, ma le manette gli fanno rimanere le braccia a tre quarti, neppure a mezz'aria. Nonostante ciò, l'idea di quel che possa fare se fosse libero, mi inquieta incredibilmente.

«Dodici anni, Angel.» Riesco benissimo ad avvertire il suo mormorio, nel silenzio che è nuovamente calato dentro alla stanza. Che le guardie abbiano avvertito qualcosa o meno, non mi è dato saperlo, perché nessuno entra dalle porte da cui siamo arrivati. Poi però rifletto per qualche attimo sulle sue parole. Su quel nome. Angel.

Sentito tante volte nei miei incubi, sogni, o in quei piccoli attimi in cui rimanevo incantato, perdendo la cognizione del tempo per fissare un punto imprecisato del mondo attorno a me. Angel... Non ho idea di cosa stia parlando, ma il nodo in gola mi si forma comunque. «Dodici anni che non ci vediamo e tu mi fai questa domanda del cazzo?» sbotta lui, con un'ironia troppo evidente per non notarla, tanto che finisce col ridere per farmi prova della sua incredulità, scuotendo il capo, per poi tornare a sedersi. La postura dritta come se nulla fosse, le braccia sul tavolo, e poi ingobbito come il personaggio cattivo di una brutta storia da non raccontare. Se solo non fossi tanto terrorizzato, se solo lui non fosse così fottutamente pazzo, probabilmente apprezzerei il suono vagamente spagnoleggiante della sua voce.

Invece, cercando di non barcollare a causa delle gambe tremanti, ritorno a sedermi, asciugandomi i palmi sudati misti a sangue sui jeans. «Cavolo volevo dire cavolo.» biascica a bassa voce, mentre io ricado sbigottito nel silenzio, tentando di riprendere fiato senza sembrare troppo agghiacciato anche solo per muovere un muscolo. Per un lungo e destabilizzante attimo mi fossilizzo sulla sedia, senza sapere se riprenderò a parlare. Le pupille però ritrovano quel briciolo di coraggio che mi era servito inizialmente e ricomincio ad osservarlo, anche se ho la testa ritratta all'indietro, appena schiacciata fra le spalle, come un uccellino spaventato. Lo vedo passarsi le mani affusolate fra i capelli, sul viso, come se cercasse di rilassarsi. Contraggo le dita dei piedi.

«Te lo dovevo.» risponde alla fine, tornando serio. Ricambia il mio sguardo e, nel mio, deve baluginare della paura evidente. Ecco perché ritorno a mascherarla con una quantità sovrabbondante di odio: strizzo gli occhi abbastanza forte da far sembrare le mie palpebre delle feritoie, le mie pupille delle frecce pronte a colpirlo. «Ma se tu sei qua per avere delle scuse, sappi che abbiamo finito di parlare.»

Le sue parole sono come un pugno nello stomaco. Sapevo che non sarebbe stato per nulla pentito di quello che ha fatto, ma sbattermelo in faccia in questo modo... Fa così male che per un momento le lacrime premono agli angoli degli occhi. Tuttavia, prima che possano anche solo palesarsi per inumidirli, mi sforzo a ricambiare quello sguardo fatto di palpebre strette, e della tacita sfida che questo pazzo sembra divertirsi a portare avanti. «Quindi dimmi Angel, perché sei tornato? Dubito che tu sentissi la mia mancanza.» Non smetto di puntarlo nemmeno quando si morde il labbro, lasciando andare il busto contro lo schienale della sedia. Poi, finalmente, alzo le mani martoriate dalla mia angoscia per posarle sopra al tavolo. Butto fuori un grosso respiro, il più grosso tutta la mia vita. Infine, parlo.

«Tu non mi dovevi proprio un bel niente. Non voglio nulla da un pazzo come te.» esclamo, e non lo sto neppure dicendo nel modo che vorrei. Sono deluso dalla poca aggressività dentro alla mia voce, che quasi ha il solito tono leggero e perennemente sussurrato, tipico di quelle persone che se ne stanno per i fatti propri. Che più che parlare, preferiscono guardare e dialogare attraverso gli occhi. Ma invece che un dialogo, il nostro scambio di sguardi sembra un duello. «Nemmeno delle scuse. Dimmelo tu, i mostri sanno chiedere perdono?» sibilo, inclinando appena la testa di lato, con un tono abbastanza sprezzante, adesso, da rendermi fiero.

Il suo sopracciglio si alza all'improvviso come un elastico, disegnando appena una ruga d'espressione sulla fronte. E' troppo giovane, credo, per avere dei veri e propri segni d'età. Quanti anni avrà? Sulla trentina, anno in più, anno in meno. Mentre lui è cresciuto, i miei genitori sono rimasti per sempre adolescenti, ed ora passano il tempo a marcire sotto terra. «Quindi posso tornarmene in cella.» replica, e non so se sia una domanda o una sorta di minaccia, come ad intimarmi di fare il bravo davanti a lui. La rabbia che mi si annida dentro alla pancia mi spinge ad afferrare gli orli del tavolo e a stringerli forte. Talmente tanto che iniziano a farmi male le dita: guardandolo dritto in faccia, riesco benissimo a vedere che i suoi occhi cadono proprio sulle mani, perciò ritorno a nasconderle sotto alla superficie di ferro, per non permettergli di studiare ancora le mie reazioni. Devono restano celate al di sotto dello strato di gelido silenzio che si è andato a creare nella stanza, aleggiando come un'ombra scura tutt'intorno a noi, anche se la luce elettrica della lampada appesa getta bagliori biancastri su entrambe le facce.

Mi blocco un momento, la lingua schiocca contro il palato mentre studio con la coda dell'occhio la porta d'uscita. So che è stato un errore venire qui, ma non posso ancora andarmene. Perciò mi affretto a proseguire col discorso. «Allora, perché hai ucciso i miei genitori? Perché non hai finito il lavoro?» Sa benissimo che mi sto riferendo a me stesso. «Perché non mi hai semplicemente lasciato lì?» offro un'altra ipotesi, lasciando trapelare il mio tono incredulo, stizzito. Perché portarmi con lui? E' una domanda che non smette di tormentarmi.

Man mano che vado avanti, noto che la sua espressione non si distorce, ma rimane con un sorriso detestabile sul volto che sembra voglia prendermi in giro. Sbeffeggiarmi perché ho osato venire a disturbarlo, perché mi sono sprecato a cambiare città e Stato solo per raggiungerlo, ed inoltre perché ho umiliato i miei nonni per averli costretti a firmarmi l'autorizzazione, in modo che potessi incontrare lo stesso uomo che ha ammazzato il loro figlio. Mi sono sentito meschino anche io, quando ho fatto quella richiesta, e ho letto il dolore che si dipingeva sul volto della nonna. Forse ho fatto il suo gioco. Forse era proprio quello che voleva: seminare nella mia mente il dubbio, che mi avrebbe portato a cadere nella sua ragnatela e a rovinare quello che ho intorno a me. Josh, i nonni... Posso solo aspettarmi che peggiori. Probabilmente ci sono cascato in pieno, ed ecco perché indirizzo una nuova occhiata alla porta. Forse faccio ancora in tempo ad andarmene.

La risposta a tutte le mie domande è talmente assurda che mi fa accartocciare la faccia in una specie di ringhio silenzioso. «Sono contento» dice, sviando ogni mio quesito, ogni mia richiesta, ogni chiarimento. Aggrotto appena la fronte, con un'aria particolarmente irritata, come se l'idea che possa essere minimamente felice per la sua miserabile esistenza mi faccia andare su tutte le furie. «Per quale diavolo di motivo?» sibilo, piccato. Lui è quello incatenato, a torso nudo nonostante l'inverno, rinchiuso in un penitenziario. Non io. Tanto che faccio guizzare la lingua sul palato in modo da schioccarla, infastidito, voltando per qualche istante gli occhi da un'altra parte. Come se l'idea di saperlo mi disinteressasse completamente; eppure gliel'ho chiesto.

«Temevo saresti diventato uno stronzo, uno di quelli che guardano gli altri dall'alto in basso.» Mi risponde lui, con un tono imperturbabile, mentre io faccio capitombolare le pupille su di lui a tutta velocità, ancora una volta di stucco. La sua lingua guizza sulle labbra, nemmeno si preparasse ad un grande discorso. Che so che mi turberà. «Quando eri piccolo non facevi che fare domande su domande, non stavi mai fermo, Angel.» Per un momento boccheggio, come se mi mancasse l'aria. Io non mi ricordo nulla di quel periodo. Non ho idea di come fossi, né di com'era lui, che in cinque anni di rapimento aveva deciso di crescermi per chissà quale motivo al mondo. Il passato, per me, resta un segreto ancora da svelare. Perché è come se fossi nato al quinto anno di vita: il giorno in cui i poliziotti sono venuti a prendermi, è stato lo stesso giorno in cui ho ricominciato davvero a vivere. Il giorno in cui Noah Sanders è nato. Ecco perché mi sento in dovere di puntualizzare, di far capire che non ho intenzione di cedere ai suoi nomignoli.

«E smettila di chiamarmi Angel. Il mio nome è Noah.» Mi pento non appena glielo dico. Il fatto che ora possa chiamarmi per nome, mi fa drizzare i capelli sulla nuca. Ma lui reagisce arricciando le labbra in una smorfia di disappunto. Se prima ha avuto gli occhi chiusi, come ad assaporare i dolci vecchi tempi, adesso torna a fissarmi. «Hai ragione, dimenticavo che tua madre non ha avuto abbastanza tempo per segnarti all'anagrafe.» Le mia bocca si stringe in una linea così sottile da sbiancare. Non ha avuto abbastanza tempo perché lui l'ha buttata giù dalla finestra dell'ospedale.

Digrigno i denti, tendendo la mascella, cercando di trattenermi dall'urlare un'imprecazione. Eppure, quando lo vedo sbadigliare con totale noia per la cosa, un moto di rabbia mi penetra nella pelle così violentemente che batto un pugno sotto al tavolo, facendo avvertire chiaramente un tonfo sordo. Lui non lo nota. O fa finta di non notarlo. «In ogni caso lei non faceva che starnazzare in giro dicendo che ti avrebbe chiamato Angelina perché era certa saresti stata una bambina.» La sua guancia si scuce in un sorriso divertito, e al tempo stesso io gli scocco un'occhiata truce. «Non parlare così di mia madre.» sussurro, a bassa voce, così tanto che non credo mi abbia sentito. Infatti continua: «Persino la coperta in cui eri avvolto era rosa, diciamo che è stato molto ironico scoprire che eri un bambino.» Mentre alza le spalle, io comprendo che Angel deve essere stato il suo modo di chiamarmi in quegli anni. La consapevolezza mi colpisce come un fulmine. Capisco qualcosa di molto più importante di un semplice nome. Tutte le notti, tutte le volte in cui mi sono girato e rigirato nel letto, sognando una voce morbida che mi sussurrava una ninna nanna al nome di Angel... Tutte quelle volte io stavo pensando a lui. E non ne avevo la minima idea.

«E lo ammetto.» continua, passandosi una mano fra i capelli scuri per ravvivarseli all'indietro, mentre io inizio a guardarlo sotto una nuova prospettiva. E la cosa mi spaventa. «Come nome Angel mi piace molto, forse perché io mi chiamo Miguel, come l'arcangelo.» I suoi occhi di zaffiro scintillano per qualche istante, a guardarmi, ed io lascio andare una sonora risata di disprezzo, scacciando la pallida memoria della sua voce che tentava di farmi addormentare quando ero piccolo.

«Non dire stronzate. Tu non hai proprio nulla di angelico.» sbotto, subito dopo quella mia risata aspra e secca, per tanta cattiveria nella voce. E l'amarezza, che non si scinde mai dalle mie frasi, che ne sono sempre così intrise. Ma a lui quella frase provocatoria sembra non importare affatto. Invece, inclina il capo di lato come un gatto davanti ad un uccellino. «Il nostro tempo sta per scadere Angel.» replica, ed io nella mente sto sibilando di nuovo, ancora, che mi chiamo Noah. Se solo lo guardassi con più attenzione, con più accortezza, con lo sguardo sgombro dall'odio, allora noterei la tensione nei tratti, la cupezza, come se volesse restare ancora. Nonostante il sorriso che mi mostra. Eppure non lo noto.

«Forse non mi crederai, ma sono felice di averti rivisto.» Quelle parole mi fanno male al cuore, ecco perché chiudo gli occhi per qualche istante, cercando di non sentire ancora le lacrime riaffacciarsi sul viso. Per me è stata una prova di coraggio venire qui, qualcosa di doloroso, difficile. Il pensiero mi ha tormentato per l'intero mese come un macigno piazzato sulle spalle. E Miguel Hebrew è felice. Mi sembra un ultimo modo per farmi male, ancora più male di ricordarmi che lui è sempre stato nei miei sogni, inconsapevolmente. Permango con le palpebre abbassate, sentendo le porte che si aprono con i loro ronzii, rumore seguito dai passi delle guardie carcerarie. «Sei diventato molto più bello di quanto avrei mai potuto immaginare.» conclude, aspettando che i suoi controllori gli liberino i polsi per legarli nuovamente, ancora, in una prigionia che non finirà certo oggi.

Mi mordo l'interno della guancia così forte da sentire il sapore del sangue in bocca, poi apro gli occhi e incontro i suoi, un'ultimissima volta. «Alla settimana prossima.» Mi dice, mentre io lo guardo come se volessi fulminarlo e ridurlo in un mucchietto di cenere. Dopo tutto quello che ha detto, e al tempo stesso tutto quello che non ha menzionato, so finalmente cosa fare. Ho ottenuto una volta per tutte la risposta essenziale: non ho bisogno di parlare con lui, perché so che non risponderà. Anzi, proverà ad usare ogni più piccolo mezzo per destabilizzarmi, come è riuscito a fare fino ad ora. Anche solo restare nella sua stessa stanza, ora, mi sembra un errore madornale. La nonna aveva ragione.

«Non ci rivedremo.» rispondo, con un tono duro, mettendomi in piedi. «Non ha più alcun senso incontrarti, perché ora sono sicuro di una cosa.» Mi sporgo appena dall'altro lato del tavolo, ben sapendo che le guardie si stanno preparando per portarlo via, e scortare me verso l'uscita. «Potrai anche avermi dato un nome e avermi cresciuto per cinque anni. Ma io non me lo ricordo affatto.» Le labbra si stropicciano in un sorriso amaro, crudele e colmo di dolore. «Perciò tu per me non esisti.» Lo guardo negli occhi. «Non sei mai esistito.» E poi, finalmente, giro l'angolo del tavolo e mi dirigo all'uscita, dove è ferma la guardia che mi aspetta. Non mi volto a guardarlo. Esco e basta.

E lo faccio meccanicamente come una specie di robot, ma bianco come un cadavere, gli occhi sbarrati eppure incapaci di vedere e affrontare il mondo intorno a me. Almeno fino a che non metto piede fuori dal penitenziario, entrando dentro alla mia auto. Lì, mi premo i palmi sugli occhi e scoppio in un pianto fragoroso, tremando, finalmente libero di crollare.



***

*NDA*

Hola a tutti!
Per questo capitolo e tutti quelli a venire in cui ci sarà il personaggio di Miguel, ringrazio infinitamente giuli_milani, che è responsabile delle sue battute e reazioni. Grazie donnaH <3

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