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Londra, 25 marzo 4105 d.C

Non riuscivo ad alzare gli occhi da terra, i neri anfibi consumati e l'erba bagnata erano ormai diventati il punto fisso del mio sguardo. Non avevo il coraggio di condividere quel momento con nessuno, tantomeno con la mia squadra o Guren e la famiglia Owen al completo. Mi davano la colpa di quanto accaduto e in parte avevano ragione: avevo abbandonato un compagno, un amico, seguendo le regole e le sue ultime parole, senza neanche provare a salvarlo. Avevano ragione a riversare la loro rabbia nei miei confronti, li capivo, io facevo lo stesso. Se non fosse stato per me, Taro sarebbe ancora vivo: era tornato indietro per difendermi, sacrificando la sua vita per salvare la mia.

Avevamo sbagliato sin dal principio. Avremmo dovuto avvertire il resto della squadra subito, nello stesso momento in cui ci eravamo accorti dell'inganno. Nessuno dei due lo aveva fatto e ora Taro era morto, il suo corpo lasciato al di là del fiume, prosciugato da Lady Illary e chissà quali altri vampiri. Eravamo stati lenti, stolti, e ora chi in un modo e chi in un altro ne dovevamo pagare le conseguenze.

Strinsi i pugni, tirando su con il naso, e ascoltai le persone intorno a me piangere, i singhiozzi trattenuti e i silenzi dei soldati. Tutti nel Sichern lo conoscevano: non solo perché parte dell'esercito e di una delle nobili famiglie, ma soprattutto per la sua innata bontà d'animo. Taro aiutava sempre, chiunque, senza chiedere nulla in cambio. Amava ed era amato sia come soldato che come cittadino della zona sicura.

Mi avvolsi nel cappotto, il vento che iniziava a soffiare più forte spettinandomi i capelli. Una goccia di pioggia cadde sul mio naso, non mi mossi, rivolsi solo gli occhi al cielo, i grigi nuvoloni che si avvicinavano minacciosi.

Il tempo coincideva alla perfezione con il mio stato d'animo.

Volevo piangere, sfogarmi, liberarmi del dolore che stanziava nel mio cuore, eppure, come le nuvole, non lo feci. Trattenni ogni singola lacrima, come se non meritassi di sentirmi più libera. Incrociai per un breve istante l'occhiata triste di Guren, ma non riuscii a sostenerla. Spostai allora lo sguardo sulla tomba nera che a breve sarebbe stata sotterrata. A turno ognuno poggiò un fiore o un ricordo sulla bara, uomo dopo uomo, donna dopo donna. Non mi mossi, stringendo il distintivo di Taro tra le mani, l'unico oggetto che tornando nel Gefhar ero riuscita a recuperare.

«Andiamo insieme» sussurrò Nick, poggiandomi la sua mano calda sulla spalla e guidandomi.

Annuii, il viso chino. Intrecciai le dita al suo braccio, cercando nel caposquadra il coraggio di salutare Taro. Nick non obiettò quando mi poggiai a lui, forse capendo il mio bisogno di un sostegno. Lui, sempre schivo e distante, fu l'unico ad avvicinarsi.

Sfiorai con un dito la cassa vuota, lasciando con estrema delicatezza il distintivo sul lucido nero. Non dissi nulla, parole non servivano, e tornai al mio posto. Nick non si allontanò. Non fece niente di più che starmi vicino, un gesto più caloroso non sarebbe stato da lui, ma non mi lasciò e questo per me fu abbastanza. Rimase al mio fianco anche quando tutti se ne andarono, familiari compresi, il silenzio che continuò a parlare per noi. Fissavamo il vuoto, un cumulo di terra e una croce provvisoria di legno; nessuno dei due si muoveva o osava interrompere quell'intimo momento tra i nostri ricordi e quel che di Taro restava.

Restammo così, vicini e muti, anche quando iniziò a diluviare, la pioggia che trasformava la terra in fango e che scivolava sulle nostre guance nascondendo le lacrime.

«Nessuno ti ritiene responsabile» spezzò il silenzio Nick.

Io mi ritenevo responsabile.
Non risposi e lui sospirò.

«Ti accompagno a casa»

Alzai lo sguardo, stranita. Vidi subito che anche Nick, che mai mostrava le sue emozioni, aveva pianto.

«A casa?» chiesi confusa, la voce rotta che a malapena si udì.

Era raro che a noi soldati venisse permesso di trascorrere del tempo extra con la nostra famiglia. Potevamo vederla un solo giorno al mese, perché l'amore e l'affetto per l'esercito non erano che distrazioni dagli obblighi e i doveri. Era per questo che esistevano dormitori, palestre e armerie apposite nell'area riservata agli addestramenti, lontana non a caso dalla zona civile del Sichern, in cui vivevano e lavoravano i comuni cittadini. Per lo stesso motivo erano anche proibite le relazioni tra soldati e membri dell'esercito fino alla fine della leva militare, proprio per evitare che i sentimenti oscurassero il vero obiettivo: sopravvivere e proteggere.

L'addestramento iniziava in tenera età, a partire dagli otto anni, così da abituare i bambini alla lontananza dei genitori. Durava fino ai diciotto anni, ma era possibile operare sul campo già da prima se in possesso di ottime valutazioni in ogni materia d'esame e in tutte le prove fisiche, come nel mio caso e quello di Rin.
La leva era obbligatoria fino ai ventotto anni, ragione per cui prima non era possibile sposarsi o intrattenere legami amorosi con qualcuno. La punizione alla trasgressione dipendeva dalla gravità della stessa: poteva riguardare solo un aspetto economico oppure addirittura l'espulsione dal Sichern. Nel primo caso l'esercito non si impegnava più a finanziare le attività avviate dai familiari né tantomeno a garantire medicinali e cibo, nel secondo la sorte era decisamente peggiore.

«Il Comandante Howard ha concesso alla nostra squadra una settimana di pausa per riprenderci» spiegò, incamminandosi. Non aggiunse altro.

La mia casa non era che un piccolo appartamento. Si trovava in un condominio quasi abbandonato nei pressi del Tobard Garden, il parco utilizzato come cimitero, tant'è che non ci mettemmo molto ad arrivare. Poco vicino vi era l'unico ospedale della zona sicura, riservato solo ai più bisognosi a causa della mancanza di posti letto e della penuria di medicine. Queste arrivavano una volta al mese dalla Germania e spesso scadevano prima ancora di giungere a Londra.

«Cerca di stare bene»
Nick mi lasciò davanti la porta d'ingresso, salutandomi con poche parole. Aspettai che se ne andasse prima di bussare, la speranza che qualcuno mi aprisse nell'immediato.

«Naomi?»

Scoppiai a piangere, lanciandomi nelle braccia di mia madre, gli occhi ancora spalancati perché sorpresa di vedermi.
Si limitò a stringermi forte, accarezzandomi i capelli e baciandomi con amore la fronte. Sapeva già cosa fosse successo e sapeva come mi sentissi: tutti prima di vivere nella zona civile erano stati soldati. Il dolce profumo di casa mi investì appena misi piede nel piccolo salotto, un misto di rosa e vaniglia che ogni mese mi accompagnava sino al dormitorio restandoci per giorni.

«Tesoro, c'è Naomi»

Dalla cucina sbucò la faccia corrucciata di mio padre che vedendomi si illuminò immediatamente. Si avvicinò, le mani sui fianchi.

«Cosa sono quelle lacrime? Fammi subito un sorriso!»

Lo abbracciai di slancio e lui ricambiò così forte da togliermi il respiro.

«Papà...» annaspai infatti.

«Vado a svegliare Aaron» disse poi, lasciandomi finalmente andare.

«Vado io» lo anticipai, dirigendomi verso la mia vecchia camera. Mi era appartenuta solo per otto anni, eppure la sentivo come una delle poche cose davvero mie.

Passai prima dal bagno, sciacquandomi la faccia con l'acqua fredda. Non volevo che Ron vedesse la tristezza dipinta sul mio volto.

Entrai quindi nella stanza, facendo il meno rumore possibile. Era sdraiato sul letto, le labbra semiaperte e un rivolo di bava che gli scivolava dall'angolo della bocca

«Ron» lo chiamai con dolcezza.

Risi quando si lamentò, girandosi dall'altra parte, ricordandomi di quanto da bambina mi era difficile svegliarmi presto il mattino. Sulla mensola c'era ancora la trombetta che papà usava per farmi alzare quando facevo storie. La suonai.

«Sono sveglio! Sono sveglio!» gridò Aaron, aprendo gli occhi di scatto e mettendosi a sedere, la mano destra impegnata in un perfetto saluto militare.

«Eccellente, soldato! Adesso in piedi!» esclamai io.

Mi fissò per qualche istante, la bocca spalancata. Dovette toccarmi per realizzare che la sua sorellona fosse lì con lui e che non si trattasse solo di un un sogno. Iniziò ad urlare dalla gioia, abbracciandomi.

«Naomi!» sorrise, la finestrella tra i denti in bella mostra «Perché sei qui?» gli occhi luminosi di felicità.

La sua innocente domanda mi portò a trattenere di nuovo le lacrime, il pensiero che immediatamente corse a Taro e alla sua morte. Forzai un sorriso, cercando di mascherare il mio stato d'animo.

«Sono in pausa. Starò con te per una settimana»

«Ma è magnifico! Potremo fare un sacco di cose insieme!»

Gli spettinai la chioma biondo cenere con una mano, rendendomi conto di quanto fosse cresciuto in quell'ultimo mese. Gli enormi occhi marroni sembravano più chiari, presentavano infatti qualche sfumatura giallastra che prima non c'era, e il ciuffo dei capelli era leggermente più lungo. Anche qualcosa nel suo sguardo era cambiato: vi era un alone di maturità in esso, una presa di coscienza che non apparteneva a un bambino di dieci anni. Aaron sembrava più grande.

«Devo assolutamente farti vedere una cosa!»

Con la sua piccola manina afferrò il telecomando sulla mensola, da me costruito, e all'istante la carrozzina nell'angolo della stanza raggiunse il letto. Aiutandosi solo con la forza delle braccia riuscì in pochi minuti a sedersi sulla sedia a rotelle senza che nessuno lo aiutasse, un progresso che di certo rappresentava una piccola vittoria.

«Non è stupendo?! Non ho più bisogno di mamma e di papà!»

Lo guardai sorpresa e commossa, sentendomi fiera di avere un fratello come Ron.

«Certo che è stupendo»

Fin dalla nascita era stato un bambino bisognoso d'aiuto, aiuto che con il passare degli anni si era fatto sempre più necessario: per sedersi, alzarsi, vestirsi, andare in bagno... Ogni singola azione comportava la presenza di qualcuno al suo fianco. Un traguardo simile, raggiunto con le sole proprie forze, andava festeggiato.

«La carrozzina funziona?» domandai poi, curiosa del mio operato.

Un mese prima avevo infatti modificato la sedia a rotelle di mio fratello rendendola elettrica, così da permettergli di muoversi più autonomamente senza dover dipendere da nessuno. Avevo sempre avuto questa grande passione per i motori, passione che mi aveva permesso di terminare l'addestramento un anno prima del dovuto. Era grazie a Rin se ero stata in grado di apportare qualche cambiamento alla carrozzella. Conoscendo la situazione della mia famiglia, aveva fatto in modo di farmi avere dei pezzi -a mio parere introvabili-, appartenenti a progetti simili, mostrandosi per la ragazza gentile che tentava invano di nascondere. Non l'avrei mai ringraziata abbastanza per il suo aiuto perché decisivo nella costruzione di un oggetto tanto speciale.

Un tempo, quando la tecnologia aveva raggiunto il suo massimo splendore, tutti potevano godere di certi privilegi. Oggi una disabilità come quella di Aaron veniva ripudiata perché vista come un peso per la società, perché inutile dal punto di vista militare. Un uomo che non sapeva combattere era un soldato in meno per la causa.

«Sì, è geniale! Grazie ancora»

«Abbiamo due figli fantastici, vero Eglantine?» dichiarò mio padre, poggiandosi sullo stipite della porta.

Mia madre annuì con dolcezza, osservando la scena con estremo amore.
«Sono tutti la mamma»

Scoppiai a ridere, dimenticandomi per un breve istante del tanfo della morte.

Ero a casa.

Ero al sicuro.

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