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Capitolo I - All Comes Down

[ Tony Stark/Peter Parker - Victorian!AU - Romantico/Scientifico ]

Capitolo I. All Comes Down

Non aveva mai creduto in Dio, Tony Stark. Nemmeno quando aveva quasi rischiato di morire dopo l'esplosione di quel laboratorio, dove frammenti di metallo e vetro gli si erano conficcati nel petto; troppo vicini al cuore per sperare di sopravvivere, eppure era stata la scienza di nuovo a salvarlo. Si era aiutato da solo, con quel magnete incastrato nella gabbia toracica, che attirava i frammenti e li allontanava dal cuore. Gli permetteva di poter vivere una vita normale, nei limiti del possibile, almeno. Quanto bastava a godersela. Per questo Tony Stark era convinto che, il poco tempo concesso su quella terra, fosse in realtà una condanna. Quale Dio privava le sue creature della bellezza della vita, dando loro un limite? Come poteva esistere un'entità superiore, capace di una crudeltà del genere? Sbuffò, a quel soffocante pensiero. Non esisteva una risposta, a quella domanda, se non: siamo soli, non c'è nessuno a vegliare su di noi. Siamo artefici del nostro destino ed io vado avanti lo stesso, dopotutto.

Si sistemò gli occhiali di protezione sul naso, e prese un lungo e frustrato sospiro, prima di ricominciare a saldare la maschera. Quella che faceva parte di un set; quello di una armatura: la sua. Quella stessa che usava per combattere il crimine quando vi era bisogno, per un puro inguaribile egocentrismo, più che per la giustizia. Accadeva sempre più spesso, che la indossasse e per quanto si fosse ripromesso che avrebbe smorzato quei momenti passati infilato in quel cumulo di rottami, ne era quasi succube. Come era successo con l'alcool, tempo prima. Sperò potesse passargli anche quella dipendenza.

La porta vibrò con un fragore che lo fece trasalire, ad un tratto. Alzò lo sguardo sull'orologio appeso al muro e, arricciando le labbra, si chiese chi accidenti potesse essere a quell'ora – le undici, davanti la porta del suo appartamento sconfinato nella campagna più rupestre. Solo pochi eletti ne conoscevano l'ubicazione e non tanto perché non voleva essere trovato, solo perché a una manciata di persone interessava andare a fargli visita, di tanto in tanto. Si trascinò stancamente verso l'uscio. Con una mano si afferrò la nuca e se la grattò sbuffando. Era stanco morto e le visite notturne gli avevano sempre dato un gran fastidio. Spalancò la porta e un groviglio di confusione lo pervase. Per un attimo riconobbe solo la figura di Stephen Strange, che entrò in casa senza tanti complimenti, tenendo in braccio qualcosa avvolto da una coperta. Tony cercò di mettere in ordine le idee, prima di tutto chiudendosi la porta alle spalle quando quello entrò, e scese il silenzio, rotto solo di tanto in tanto dal dottore che cercava, invano, di riprendere fiato.

«Un letto. Un divano. Hai qualcosa dove posso appoggiarlo?», domandò Stephen. Tony gli indicò una brandina appena vicino all'entrata del suo studio, con una calma che, ne era certo, altri non avrebbe mantenuto allo stesso modo.

«Che succede?» Incrociò le braccia al petto, mentre l'uomo adagiava con estrema cautela quella figura completamente nascosta dal lenzuolo. «Hai portato un morto in casa mia?», chiese, e quando Strange alzò gli occhi sui suoi, non ci volle molto per capire che la faccenda era più grave di quel che credesse. Il medico tirò via la coperta e rivelò, sotto a quel cumulo umidiccio di stoffa, la figura accaldata e dolorante di un ragazzo. La sua espressione indurita e gli occhi stretti, erano la più pura e terrificante rappresentazione del dolore più atroce. Fece un passo avanti, istintivamente.

«Chi è?»

«Un mio allievo. È successo qualcosa, Stark. È venuto da me, chiedendomi aiuto. Ogni minuto che passa, peggiora. Ha la febbre alta e, se continua così, temo che morirà. E non voglio. Perciò sono qui.» Strange lo guardava supplichevole, e Tony alzò le sopracciglia, stupito. Era raro che l'uomo si abbassasse a chiedergli il suo aiuto. In anni di conoscenza era forse successo un paio di volte, non di più, ma stavolta sembrò addirittura diverso. Forse perché c'era di mezzo un ragazzino, un giovane studente di medicina, uno a cui Strange magari teneva in particolar modo.

«Non hai idea di cosa possa essergli successo? Tu sei un medico. Che accidenti vuoi che faccia? Non sono ferrato nel tuo campo», sbuffò, tornando a guardare il ragazzo che, nel frattempo, aveva alzato una mano per posarsela sulla fronte, nell'inutile ma umano tentativo di trovare del sollievo.

«Perché non è del mio campo, che si tratta. Pensavo fosse una malattia, un virus. No, Tony. Qui si tratta di qualcosa di peggio. Forse un avvelenamento e io non so più che fare per aiutarlo.»

«Continuo a non capire che cosa potrei mai fare. Mi dispiace molto per lui, e vorrei davvero dirti che sono in grado di aiutarlo, ma t-»

«Ti sei tolto quegli accidenti di pezzi ferrosi dal cuore con un magnete. Possiamo trovare un modo per togliere il veleno dal suo corpo, allo stesso modo? Possiamo almeno provarci?», lo interruppe Strange, apprensivo, mentre il suo sguardo passava da lui al suo allievo. Tony lo fissò per secondi interminabili, prima di sbuffare e fare un ulteriore passo avanti.

«D'accordo. Come si chiama?»

«Peter. Peter Parker.»

Tony storse la bocca e, chinandosi su di lui, tentò un approccio diretto. Era il suo unico modo di ricavare informazioni: non girarci intorno e andare dritto al dunque. «Peter. Mi senti? Sei con noi?»

Il ragazzino cercò di aprire gli occhi, ma li chiuse immediatamente, annuendo però debolmente, sfilando un braccio da sotto al lenzuolo, palesemente alla ricerca di un poco di fresco. Era sudato; il viso arrossato e cianotico. Le labbra secche e screpolate, ormai quasi dello stesso colore della pelle. I capelli castani appiccicati alla fronte, fradici. Due anelli viola intorno agli occhi.

Un morto che camminava.

«Ricordi qualcosa? Qualcuno ti ha offerto da bere? Hai ricevuto qualunque cosa da uno sconosciuto? O anche da un amico. Ogni informazione è preziosa, ai fini di capire cosa ti sta succedendo, ragazzo.» Peter rispose con un flebile diniego della testa, prima di tornare a sprofondare la testa nel materasso; la bocca spalancata in cerca d'aria da incanalare nei polmoni. Respirava a malapena. Quei rantoli mettevano i brividi e Tony non riuscì a far altro che chinarsi su di lui e dargli dei leggeri schiaffi sulle guance. Non doveva addormentarsi, o avrebbero rischiato di non vederlo riaprire gli occhi. Strange lo guardava come se potesse davvero risolvere la cosa in un batter d'occhio, e Tony non aveva idea di cosa fare per poter aiutare quel ragazzino. Era in ballo e avrebbe ballato, ma c'era il rischio di vederlo spegnersi da un momento all'altro.

«Peter, ascoltami. Rimani con noi e guardami», lo incalzò, e quando quello aprì di nuovo gli occhi, si lasciò sfuggire un sorriso trionfante, «Qualsiasi cosa ci è d'aiuto. Sei in grado di dirci se è successo qualcosa?»

Peter allora strinse gli occhi. Tony ebbe paura che potesse aver solo causato ulteriori dolore in quel giovane, forzandolo ad usare più energie di quel che era provvisto, ma quando lo vide scostare le coperte e allentare il collo della maglia per liberare un pezzo di spalla, fu tutto chiaro. Due buchi. Due minuscoli buchi campeggiavano sulla sua pelle lattescente, cadaverica. Due cicatrici in fase di rimarginazione, che però sembravano tutt'altro che curate. Doveva averlo morso qualcosa, un animale. Forse velenoso, mortale e Tony ripercorse a ritroso, nella testa, uno dei suoi viaggi in India, dove i veleni e gli avvelenati erano quasi di routine.

«Avvelenamento animale. Immagino un serpente o qualcosa del genere», dedusse e Strange si chinò sul giovane allievo per studiarne esattamente il punto che Tony gli aveva appena indicato. Sussultò.

«Non sappiamo di cosa si tratta. Potrebbe essere qualsiasi cosa. Un veleno che non conosciamo.»

«R-ragno.» Peter se lo lasciò sfuggire da uno sbuffo tra le labbra, che poi serrò di nuovo, cercando di contenere quel dolore che veniva da dentro. Un dolore racchiuso nelle vene, nei muscoli. Qualcosa di troppo difficile da immaginare. Stava combattendo con impulsi e controllo. Era ammirevole, ma Tony sapeva che non sarebbe durato a lungo. Diventava bianco ogni istante di più. I cerchi intorno agli occhi prendeva un colore più livido ad ogni nuova occhiata. Lo stavano perdendo e, per quanto Tony non avesse idea di chi fosse quel ragazzino, si sentiva in dovere di tentare almeno di salvarlo e permettergli di continuare la sua vita come ogni suo coetaneo. L'idea però che aveva visto gente morire per molto meno, non era di conforto.

Un ragno. Ce n'erano un'infinità, di specie di aracnidi velenosi, e molti di questi erano mortali. Quasi fulminanti. Aveva bisogno di più informazioni, sebbene anche conoscerne la natura non avrebbe portato chissà a quale soluzione, ma tentare era doveroso. Non farlo avrebbe reso quella perdita un fallimento totale. Si sedette sulla brandina e, chinandosi di nuovo su di lui, sospirò. «Peter, ho bisogno di sapere l'aspetto del ragno, anche solo per capirne la specie. È l'unico modo per cercare di creare un antidoto e aiutarti. Mi serve che tu faccia un ultimo sforz-» Peter urlò. Si contorse per un attimo e annaspò aria, prima di alzarsi di scatto e prenderlo per il colletto; se lo tirò contro e Tony sentì il cuore fermarsi un istante per la paura di quella reazione improvvisa.

«Per favore, fate qualcosa! Brucia! Brucia! Non lo sopporto più!» Lo urlò con tutto il fiato che gli era rimasto in corpo. Lasciò la presa sulla sua maglietta e si accasciò di nuovo sulla brandina, piangendo di dolore. Si stringeva una mano intorno al petto, inarcava la schiena.

«Diamogli qualcosa per il dolore!», sbottò Tony e Strange schioccò la lingua, frustrato.

«Pensi che non ci abbia già provato? Non funziona niente e non posso esagerare con i medicinali. Se vanno in contrasto col veleno, rischiamo di ucciderlo noi», gli rispose, posando poi una mano sulla fronte di Peter e aggrottò la fronte. «È bollente. Avrà la febbre oltre i quaranta gradi.»

«Allora diamogli un sonnifero e facciamolo dormire», propose Tony, e Stephen sembrò perdere la calma.

«Per non vederlo risvegliarsi? E se morisse nel sonno?»

«Beh, almeno non soffrirà!», esplose Tony, e di fronte allo sguardo sconvolto del medico, tirò un grosso respiro e si passò una mano tra i capelli. «Strange, io non so che fare. Non so come aiutarlo! Non è né il mio campo né il tuo. Non saprei a chi affidarlo, e sta morendo. Non ho idea di cosa potrei inventarmi. Clerck ha classificato duecento specie di ragni velenosi, ed ognuno di loro agisce in modo differente.»

«Togliamogli quell'accidenti di veleno dal corpo, allora! In qualunque modo. Ogni tentativo è un passo verso la sua salvezza.»

Tony assimilò quel silenzio – subito dopo quelle parole, fissando Stephen dritto negli occhi; iridi supplichevoli di un aiuto che, lo sapevano entrambi, non era detto avrebbe dato i suoi frutti. L'unico rumore, stridente e logorante, erano le urla di Peter che – a Tony lo colpì – tentava in tutti i modi di tenere strette tra i denti.

«Diamogli della morfina o qualcosa di forte. Per lo meno, mentre tenteremo di fare qualcosa, qualunque cosa essa sarà, non se ne andrà da questa vita in preda ai dolori. So che è dura accettare che possa morire, ma è una possibilità. Questa premura gliela devi, dottore

Stephen gli riservò un'occhiata dura, per nulla intenzionato ad accettare quell'eventualità, ma non c'era alcuna certezza, in quei tentativo e, per bontà divina – anzi, umana – quel ragazzino meritava un po' di sollievo, specie ora che le sue urla si erano trasformate in qualcosa di troppo graffiante, per poterle sopportare. Peter si aggrappò al braccio di Strange, nel palese tentativo di chiedergli aiuto, e il dottore, dopo avergli lanciato un'occhiata spenta di ogni speranza, infine annuì. Tony si alzò dalla brandina, nel solo e frettoloso tentativo di recuperare una dose di antidolorifico. Lo cercò tra i suoi attrezzi e in alcune dispense. Non appena identificò la morfina in un barattolo di vetro, tornò nel salotto.

«Acqua», ordinò a Strange, indicandogli una brocca poggiata sul tavolo, mentre si sedeva di nuovo sulla brandina, e alzava la testa del ragazzo, che urlò di più. Cercò di ignorare delle lamentele, quei graffi nella psiche, e quando riuscì ad infilare nella bocca di Peter la pasticca, lo aiutò a bere. «Un ultimo sforzo, ragazzo. Manda giù.»

Ci volle del bello e del buono per riuscirci, e quando finalmente Peter annuì debolmente, lo adagiò di nuovo sul cuscino, passandogli poi una mano sulla fronte per scostargli i capelli che gli si erano applicati alla fronte. Lo guardò, sperando di vederlo presto più tranquillo. Non sapeva chi era, eppure l'ingiustizia della sua gioventù spezzata a quel modo, gli faceva rabbia. Aiutarlo era una missione. Un'egoistica missione, atta solo a dimostrare – e dimostrarsi – di nuovo migliore di Dio.

«Sto pensando ad una trasfusione», sbottò Strange. «Mischiare il sangue e alleggerire il veleno potrebbe essere una soluzione.»

«E con quale attrezzatura, se posso chiedere? Non ho nulla del genere, in questa casa. Nemmeno nel mio vecchio laboratorio. Dobbiamo debellarlo, nel modo più casereccio possibile, perché più di questo non abbiamo. Lo sai.»

«E allora cosa proponi?», chiese Stephen, poi lanciò un'occhiata a Peter, il quale il respiro si era fatto leggermente più regolare. Il suo petto aveva smesso di muoversi come se l'aria avesse smesso di riempirgli i polmoni. Tony vide il dottore rilassare le spalle, poi lo guardò di nuovo. «Unguenti o medicine non funzioneranno. Non abbiamo l'antidoto, non sappiamo che tipologia di ragno stiamo combattendo. Tony, ha una zia sola che lo aspetta vivo, e ho la responsabilità su di lui. Non posso permettermi di fallire. È sotto la mia protezione, finché è a Londra. È una promessa della medicina, un ragazzo esemplare, un genio. Sarebbe una grave perdita, non solo per la sua famiglia.»

Tony si sentì colpito nel profondo da quelle parole; non tanto per quello che Strange gli aveva confidato a proposito di quel ragazzino, ma per il fatto che si era sentito per un attimo coinvolto. Aveva vissuto più o meno la stessa situazione, in passato, quando suo padre era vivo e vedeva in lui il futuro della sua industria e lui... lui era stato capace solo di fare di testa sua e deluderlo ogni volta, finché non era morto e non aveva potuto ammirare suo figlio che metteva su un impero tutto suo. Le parti, in quel caso, erano invertite ma si sentiva fin troppo affine a quella storia. Posò lo sguardo su Peter. Dormiva, ora. Le urla erano cessate, ma tremava di freddo. Le sue labbra erano viola, secche e spaccate al centro. Gli occhi chiusi erano ancora contornati da quella sfumatura di morte e dolore, che non riuscì a sostenere per troppo.

«Ho un metodo. Un vecchio rimedio che a volte ha funzionato. Una somministrazione calcinata in un bicchiere d'acqua e due chiare d'uovo. So che sembra assurdo ma è una possibilità. Prima però...»

«Deve vomitare», concluse Strange, annuendo. Doveva conoscere quel metodo anche lui, sebbene non sembrasse esattamente il ritratto di una persona convinta, ma avevano pochi tentativi e decisamente poco professionali. Si trattava di un vecchio metodo tramandato di generazione in generazione, di cui non era ben chiaro perché funzionasse, in taluni casi. Provare, però, significava non stare con le mani in mano, in attesa di vedere quel petto smettere di muoversi e, inesorabilmente, lasciare che Peter si spegnesse nel sonno, senza nemmeno accorgersene.

Tony si alzò in piedi e prese una bacinella. La porse al dottore, dando a lui l'arduo compito di permettere al ragazzo di rigurgitare e liberarsi – almeno in parte – del veleno che quel ragno gli aveva iniettato col suo morso. Tornò a dedicarsi alla ricerca delle due cose di cui aveva bisogno e, quando tornò, trovò il medico ancora troppo indaffarato in quella difficile operazione. Sbuffò, cercando di non farsi prendere dal panico e, scostandolo, decise di pensarci lui. Strange era troppo nervoso; troppo preso da quella situazione per comportarsi come avrebbe dovuto. Tony fu più freddo; fece chinare Peter sulla bacinella e gli infilò due dita in gola. Non ci volle molto prima che il ragazzo rigurgitasse succhi gastrici e alimenti, del tutto incosciente mentre lo faceva. Lo adagiò di nuovo sul letto e iniziò a preparare l'infuso, dividendo con attenzione le uova. Quando poi mischiò tutto con un cucchiaio, portò di nuovo l'attenzione sul petto di Peter.

«Respira a malapena», constatò, e Stephen fece palesemente finta di non averlo sentito. Premette un fazzoletto bagnato contro la fronte del suo allievo, e rimase semplicemente in silenzio, a guardarlo. Tony si avvicinò e gli fece cenno di alzarlo, per poi forzarlo a bere quella roba, nel solo ed unico tentativo di fallire. Lo sapeva. Quel metodo era una menzogna, una stronzata colossale, ma era sempre meglio di niente.

«Quanto tempo ci vuole prima che faccia effetto?»

Tony si sedette sulla brandina. Appoggiò stancamente le mani sulle ginocchia e chiuse gli occhi. Se non fosse accaduto tutto quel trambusto, probabilmente in quel momento sarebbe stato a letto a dormire da un pezzo, anche se ne aveva qualche dubbio. «Il tempo di metabolizzare l'intruglio. Sperando che dia i suoi frutti. Dobbiamo aspettare. Quindi,» esordì, lanciandogli un'occhiata stanca, «è un tuo allievo e studia medicina. Da dove viene?»

«Cardiff. Ha perso i genitori quando era bambino e lo hanno affidato agli zii paterni. Viene da una famiglia che non avrebbe potuto permettergli di studiare, ma ha dimostrato le sue capacità durante un mio congresso a Liverpool. Ho deciso di finanziare i suoi studi.»

«Non ne sapevo niente. Non è una storia che racconti spesso», rispose Tony, alzando le sopracciglia, stupito da quel fatto. Stephen non era esattamente la persona gentile che si stava dimostrando in quel momento. Per certi versi erano spesso simili, specie su quell'atteggiamento menefreghista e egocentrico. Erano entrambi troppo consapevoli delle loro capacità, così tanto da dimenticare il più delle volte l'esistenza degli altri. Eppure Strange sembrava diverso, quando parlava di Peter. Un po' come se, in quel giovane, ci vedesse le sue occasioni perse, un buon carattere che non gli era mai appartenuto e che avrebbe voluto possedere.

«In primis perché Peter è una persona estremamente riservata. Semmai dovessi avere il piacere di parlarci, scoprirai che è dotato di una personalità sensibile e impacciata; un insicuro, sotto molti punti di vista, ma assai dedito alle sue passioni. Ti piacerebbe, forse.» Lo disse continuando a premere il fazzoletto sulla fronte del giovane, poi ridusse la bocca in una linea sottile. «Poi non ho mai avuto il vizio di elogiare i miei allievi. Nessuno di loro. Non è una cosa da me.»

«No, non lo è. C'è voluto il morso di un ragno, per farti uscire fuori un po' di apprensione.» Tony cercò di buttare via un po' di ironia, nel solo tentativo di non appesantire quell'attesa con troppi dubbi e paure. Aspettare era la loro unica speranza, ma Strange non sembrava propenso a dare adito a quella che non era una certezza. Tony avrebbe voluto dirgli che non c'era bisogno di dubitare, che i fatti avrebbero parlato chiaro, ma quando lo vide chinarsi su Peter, serrò la mascella.

«Parker.» Lo chiamò Stephen, piano. «Parker?» ripeté, stavolta con una vena di preoccupazione nella voce. Peter era bianco, molto più di quanto non lo fosse stato poco prima. Aveva leggermente aperto la bocca, quel tanto da far uscire un sottile respiro innaturale. I suoi occhi erano rilassati, ma le pupille, sotto alle palpebre, non si muovevano più in preda al sonno indotto dalla morfina. Strange gli prese il polso e si allarmò. Gli premette due dita contro la carotide e si alzò immediatamente, iniziando senza esitazione a fargli un massaggio cardiaco.

«C-che succede? Che succede?», domandò Tony, alzandosi anche lui di scatto e avvicinandosi.

«Non respira più, il cuore si è fermato! Quella cosa non funziona. Sta morendo!», sbottò Strange e lui non seppe che fare. Indietreggiò, rischiando di cadere – fu per quel motivo che si aggrappò ad una sedia poco lontana; la mano sulla fronte e gli occhi sbarrati, increduli, di fronte a quella verità. Lo avevano sedato, gli avevano dato quel rimedio inutile ed ora quel ragazzino stava morendo, lentamente. Si sentì inerme, inutile e tremendamente in colpa. Gli girava la testa.

«Parker!», urlò Strange, continuando a premere le mani contro il suo petto. Tony vide un braccio del ragazzino penzolare dalla brandina, molle e bianco come un cadavere. «Peter

Strange si fermò, dopo quell'ultimo richiamo. Accostò l'orecchio sul cuore di Parker e, riemergendone un minuto dopo, strinse i pugni. Tony non seppe cosa fare, cosa dire, mentre fissava le spalle del dottore. Fece un passo avanti; una mano premuta contro il petto luminoso, dove il suo reattore Arc era perfettamente incastrato nella gabbia toracica. Lo sentì pulsare. Non ebbe il coraggio di chiederglielo, ma sapeva la verità perché il silenzio che era sceso, non aveva buone notizie da dargli. Il suo rimedio non aveva funzionato, e non c'era stato altro che avrebbero potuto fare. Prese la sedia e si sedette a fatica, con una mano tra i capelli e il cuore che batteva, come se potesse esplodere da un momento all'altro.

Lo avevano scomunicato; non avrebbe nemmeno potuto pregare per quell'anima pura e non seppe esattamente come sentirsi, se non altro che in colpa.

Peter Parker, infine, era morto.

Fine Capitolo I

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