Sei di picche.
Le cose belle sono difficili.
Il pomeriggio gli sembrò volare, e Ben si sentì per tutto il tempo come dentro una bolla. Non era proprio felicità quella che provava, quanto più leggerezza. La sua mente era ancorata alla realtà a causa delle faccende da sbrigare con delle prenotazioni sbagliate, ma al tempo stesso si sentiva come un'entità senza corpo che fluttuava attorno alla scrivania. L'unico segnale che gli ricordava di essere fatto di carne e ossa era Tonic, che di tanto in tanto andava a leccargli i piedi scalzi facendogli il solletico. All'ennesimo tentativo di ottenere attenzioni da parte del cane decise di chiamare Doug per farlo portare a passeggio mentre lui controllava le ultime cose davanti al computer.
L'orologio segnava le sette, era il momento di chiudere tutto e prepararsi. Prima, però, cercò nelle schede delle prenotazioni il numero di stanza di Deva: 394, terzo piano. Ben sapeva che prima o poi l'avrebbe convinta ad uscire con lui, ma non pensava bastasse solo il secondo tentativo dato il carattere scontroso della ragazza. Era sicuramente molto più interessato a lei rispetto alla ragazza della scorsa notte, ma per rubargli il cuore serviva qualcosa in più di un paio di grandi occhi verdi. Poi si ricordò, fermandosi improvvisamente al centro della stanza, della notte in cui l'aveva riconosciuta al Mirror. Il volto mascherato, la sottoveste nera lucida che cadeva morbida sul suo corpo, le lunghe gambe, i capelli raccolti... portò entrambe le mani tra i capelli al ricordo dell'unica ballerina vestita del night club che l'aveva fatto entrare in un'altra dimensione in soli tre minuti.
Mentre sceglieva i vestiti da indossare continuava a rivivere quei beati tre minuti cercando di visualizzarli nella sua stanza da letto: era più in sintonia con quell'ambiente lei delle ultime ragazze che erano state lì in quei mesi. Più Ben cercava di allontanare quella visione, più si presentava insistente e nitida davanti ai suoi occhi. Non poteva e non voleva farsi troppe aspettative, perché qualcosa dentro di lui gli faceva pensare che Deva non avrebbe accettato né ora né mai di salire nella sua suite e sgattaiolare fuori nelle prime ore della mattina ancora mezza nuda.
Quando arrivò davanti la camera 394 fu sorpreso di trovare la porta socchiusa. Si avvicinò incerto e bussò tre volte, poi la voce della ragazza lo invitò ad entrare. La trovò sdivacata contro la testata del letto, le gambe incrociate e i piedi scalzi, e pensò di vedere due persone sintetizzate in una sola: il volto truccato e i capelli più ordinati di quanto li avesse visti nei giorni passati ma il corpo avvolto nel pesante pigiama grigio invernale, mentre teneva in mano un bicchiere di vino. Per lo meno, pensò Ben, avevano una cosa in comune.
«Com'è che si dice?» iniziò Ben, lasciandosi cadere su una sedia vicino il letto, «Ah, sì. L'eleganza di una donna non si vede dal vestito che indossa ma dal portamento».
«E la serietà di un uomo dalla sua puntualità» ribatté, porgendogli un bicchiere pieno.
«Parli proprio di me allora» disse lui, dopo aver controllato l'orario: le otto spaccate.
«Dove mi porti?» chiese Deva, posando il suo bicchiere sulla mensola accanto al letto e stiracchiandosi.
«Hai preferenze?».
«Me lo chiedi davvero o vuoi che ti risponda "fai tu"?». Lo guardò inarcando le sopracciglia, come se aspettasse un qualsiasi passo falso da parte sua per sbatterlo fuori dalla sua stanza, poi aggiunse: «Ho fame e temo di rimanere digiuna nei posticini chic che frequentano gli uomini come te. Fai fare a me».
Ben la guardò divertito e fu tentato di dirle "Forse dimentichi dove ci siamo incontrati qualche sera fa" ma non osò. Aveva poche informazioni ancora su quella ragazza e di conseguenza poche carte da potersi giocare, quindi doveva farci molta attenzione.
«Io mi vesto. Fai come se fossi a casa tua» disse infine Deva con un occhiolino. Si avvicinò all'armadio e dopo aver preso i vestiti si infilò in bagno. Ben la osservò minuziosamente e nel gesto di chiudere la porta del bagno riconobbe un tentennamento: voleva lasciarla aperta di proposito. Alla fine abbassò poco la maniglia in modo che la porta non si incastrasse bene nello stipite e fece finta di non accorgersene. Stava già iniziando a stuzzicarlo.
«Vuoi farti spiare per caso?» la punzecchiò Ben, deciso a prendere le redini del gioco.
«Voglio vedere quanto sai resistere» ammise lei, «sappi che dallo specchio ti vedo».
Per i seguenti dieci minuti, Ben si concentrò su ogni minimo dettaglio della stanza, dalle orribili tende che avrebbe fatto cambiare fino all'angolo destro del soffitto dove un piccolo frammento di vernice si era staccato negli anni. Tutto pur di non sbirciare attraverso quello spiraglio da dove, con la coda dell'occhio, ogni tanto captava movimenti indistinti che lo rendevano ancora più bramoso di sapere quale parte del corpo stesse vestendo. Gli sarebbe bastato vedere anche un dito in quel momento, una caviglia, una ciocca di capelli... bevve un sorso di vino per nascondere il sorriso malizioso che si stava formando sul suo viso, deciso a non farsi scoprire da Deva.
Quando la ragazza uscì dal bagno, Ben si sentì vincitore del primo tempo. Era riuscito a tenere a bada la voglia matta di spiare dalla fessura e ora poteva dettare lui le regole del secondo tempo. Lasciarono la stanza e, una volta scesi nella hall, furono bloccati da Dan che si fiondò su Ben ignorando la sua compagnia.
«Pensavo che volessi riposare, ho detto a Abbie che sarei tornato presto, ma posso sempre chiamare...» disse entusiasta, convinto che Ben volesse continuare il giro dei locali che durava da quasi una settimana.
«Conosci la signorina Thompson, immagino» lo interruppe, e Dan finalmente posò lo sguardo su una Deva sorridente e a suo agio, «sono impegnato questa sera, vecchio Dan». Senza aggiungere altro lasciarono un Dan imbarazzato e uscirono dall'albergo. Il freddo secco e pungente di novembre penetrava fin dentro le ossa, ma almeno aveva smesso di piovere. Presero la macchina di Ben e Deva lo condusse qualche isolato più avanti, fermandosi davanti un bistrot sull'altro lato del marciapiede.
Da dentro il locale proveniva una luce calda e accogliente che li riscaldò ancor prima di entrare, mentre dalle finestre si vedevano due camerieri dividersi tra i pochi tavoli occupati. Una volta dentro, sembrava essere entrati in una tipica locanda nordica il 24 dicembre: un piccolo camino a legna in fondo emanava calore in tutta la stanza un po' stretta ma lunga, tavoli in legno erano disposti in fila indiana mentre panche dello stesso legno scuro percorrevano tutta la lunghezza della parete di sinistra. Sulla destra vi erano due piccoli tavoli posti sotto le finestre e un grande bancone che sfornava grossi boccali di birra per i clienti.
Ben e Deva presero posto in uno di quei tavolini vicino le finestre apparecchiati per due e, mentre aspettavano il cibo, decisero di continuare con il vino invece di mischiare alcolici.
«Mi hai portato nel villaggio di Babbo Natale. Cosa ho fatto per meritarmelo?» le chiese, provocando le sue risate. Non conosceva quel bistrot, ma aveva un'atmosfera così accogliente, calda, di casa che non poteva fare a meno di guardarsi intorno entusiasta. «No, sul serio, pensavo di essere stato abbastanza meschino con quelle minacce...».
«Non siamo la stessa cosa io e te, Ben» rispose lei, le guance arrossate e gli occhi vispi che lo stuzzicavano.
«E tu che cosa sei? Sentiamo».
«Innanzitutto, una persona che si fa i fatti suoi» ribatté, e Ben si sentì arrivare addosso quella frecciatina a regola d'arte. «Ho perso una scommessa».
«Cosa...»
«Ho fatto una scommessa con Mike Wilson, sai, il proprietario del Mirror, è un mio caro amico» aggiunse vedendo la faccia confusa di Ben, «e ho promesso che se avessi perso, avrei ballato per il compleanno del suo ospite speciale».
«Lo sapevo che stavi ballando per me» disse lui ammaliato, non riuscendo a trattenersi. Era la verità: da quando aveva visto quella ragazza mascherata salire sul palchetto aveva avvertito sparire tutto il resto della sala alle sue spalle.
«Non sentirti speciale» rispose lei improvvisamente fredda, «che esperienza del cazzo. Un covo di frustrati, ecco cos'è». Ben capì così che quei tre minuti che per lui erano stati idilliaci, per Deva erano qualcosa che adesso ricordava con sdegno, e decise di non tornare più sull'argomento.
Scoprì con piacere che non era una ragazza permalosa. Era scontrosa, sì, alle volte un po' acida, ma sapeva ridere e sapeva scherzare. Non gli dispiaceva essere presa in giro, anzi la stimolava a sciogliersi e prendere confidenza. Non sembrava ancora nemmeno brilla dopo il secondo bicchiere di vino - senza contare quello che si era scolata in camera - e Ben pensò che dovesse essere o troppo brava a contenersi o che fosse davvero una degna compagna di bevute.
«Ora tocca a te. Ho accettato di uscire con te ad una condizione» precisò la ragazza, poggiando la testa tra le mani e osservando Ben pretenziosa. Lui pensò in fretta: aveva da un lato un'inspiegabile spinta di accennare il perché della sua terapia a Deva, ma non poteva lasciarsi andare. La dottoressa aveva impiegato ben quattro mesi per fargli aprire bocca, perché mai avrebbe dovuto lasciarsi andare con una sconosciuta? La fiducia va conquistata, pensò. Se le avesse mostrato le sue debolezze, sapeva che un giorno non molto lontano lei le avrebbe usate contro di lui come armi.
«Hai ragione» rispose infine, «e sarai accontentata. Ma non oggi».
«Sei un imbroglione!» esclamò indignata, ritraendosi sulla sedia.
«Non ho mai detto quando l'avrei fatto».
Dopo qualche protesta, alla fine si arrese e poterono lasciare il bistrot senza litigare per strada. Decisero di raggiungere a piedi una piazza poco lontana dove si svolgeva una piccola fiera: una ventina di gazebo bianchi posti uno di fronte all'altro per formare un corridoio ospitavano dalle esposizioni di artigianato al cibo di strada, passando per stand di caramelle o tiri al bersaglio, fino a vendita dell'usato con vinili e vecchi abiti vintage. Stare dietro a Deva era come rincorrere una bambina piena di energia: lo trascinava da un punto all'altro della piazza, vinse un orribile cappello a cilindro verde acido al tiro al bersaglio costringendo Ben ad indossarlo, comprò un sacchetto pieno di caramelle gommose e finirono per tirarsele in faccia, ma il bello di tutto questo era che Ben ci stava. Non opponeva alcuna resistenza bensì si divertiva sempre di più, così continuarono a girare per i vicoli del quartiere, fin quando si imbatterono in una cartomante e Deva lo convinse a fermarsi per farsi leggere le carte.
Scelse sei carte dal mazzo, poi ne scelse una la signora e iniziò a scoprirle.
«Re di cuori: uomo d'affari. Jack di fiori: corteggiamento.» disse la signora rivolta a Deva leggendo le prime due carte, e Ben si sentì chiamato in causa. «Sei di picche: lite. Tre di fiori: capacità di sopportazione. Sette di quadri: rischio. Dieci di picche: situazione bloccata».
Ben e Deva si guardarono, tentando di reprimere le risate. Lui non credeva per niente in quelle cose, anzi era del tutto convinto che la cartomante stesse sparando cose a caso.
«Ma aspetta, perché qui c'è la settima. Asso di fiori: rinascita».
Se ne andarono confusi ma divertiti e incuriositi. Era da tempo che Ben non passava una serata così spensierata e allegra, e si rese conto che il merito era tutto di quella frase scritta su un bigliettino la mattina stessa dalla dottoressa Mitchell. Più si avvicinavano al Bittersweet Hotel, più nella mente di Ben si facevano vivi a intervalli regolari spezzoni della visione di Deva che balla per lui nella sua camera da letto.
Quando furono nell'ascensore la tensione era alle stelle. Nonostante la ragazza premette il pulsante del terzo piano, Ben decise che era il momento di agire. Si avvicinò piano guardandola fisso negli occhi, mentre con una mano finalmente le accarezzava i capelli, ma quando fu a un soffio di distanza dalle sue labbra, Deva lo fermò.
«Non ho intenzione di venire a letto con te».
Ben cambiò atteggiamento. Fu forse la prima o la seconda volta che fu rifiutato in tutta la sua vita, provocandogli quasi indignazione. All'improvviso si sentì così pieno di sé, così orgoglioso, così superbo e arrogante che si allontanò dalla ragazza in uno scatto, mentre le porte dell'ascensore si aprivano sul terzo piano.
«E io non ho intenzione di perdere tempo con te».
«Bene!» sbottò Deva indignata, «allora racconta pure tutto al mio capo! Non hai potere su di me, Ben Barnes». Uscì di corsa dall'ascensore senza voltarsi, né Ben tentò di fermarla. Non voleva trattarla male, ma era più forte di lui: ogni volta che le cose si facevano serie o complicate, reagiva attaccando e scappando via.
Quando si distese nel suo letto, da solo, cercò di allontanare il senso di colpa che sentiva crescere sempre di più dicendosi di aver fatto la cosa giusta per il suo bene. Ma solo un paio d'ore più tardi, dopo aver pensato alla serata trascorsa con la ragazza e alla sua ultima uscita spettacolare, riuscì a prendere sonno.
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HOLA! Come avrete ben capito, ho problemi di insonnia e aggiorno sempre la notte. Ad ogni modo, torniamo a noi. Ben è fatto così purtroppo, è da una vita che scappa, come può fidarsi all'improvviso di "una qualunque"? Ma forse non ha ancora capito veramente con che tipo ha a che fare: "non hai potere su di me". Voglio parlare di Deva come una donna forte e spero di essere sulla traccia giusta con queste prime battute, ma di lei sapremo di più andando avanti. Intanto, come al solito vi chiedo un parere! grazie di cuore.
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