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Dentro il sogno.


"Il dolore atterrisce

oppure rivoluziona."

Antonia Chiara Scardicchio.


Fu un attimo, e Ben si ritrovò disteso dolorante sul pavimento. Era confuso, non capiva cosa stesse succedendo: se fino a qualche istante prima sentiva solo urla e rumori, adesso non sentiva più niente. Lottava per tenere gli occhi aperti, ma ogni battito di ciglia sembrava indebolirlo sempre di più. Lentamente e con dolore, girò il capo alla sua destra per accorgersi che la sua mano stringeva ancora quella di Deva. La ragazza, per quanto fosse spaventata, sembrò essere indenne, e quando finalmente incrociò lo sguardo di Ben gli si avvicinò strisciando sul pavimento.

L'ultima cosa che vide furono i suoi occhi verdi spalancati dal terrore, poi il buio.

Ben voleva continuare a dormire, aveva paura di aprire gli occhi e realizzare ciò che fosse successo. Sentiva persone parlare, voci indistinte chiacchieravano di sottofondo mentre pian piano riprendeva conoscenza. La prima cosa che vide quando aprì gli occhi fu la flebo attaccata al suo braccio destro: capì di essere in ospedale.

«Buongiorno, dormiglione» la voce calorosa del suo amico e collega Daniel lo fece voltare dal lato opposto con un leggero sforzo. Il dolore era molto più sopportabile rispetto all'ultima volta che era stato sveglio. «Ti fai sempre desiderare, eh?».

Ben gli sorrise, e anche questo piccolo gesto gli costò. Non capiva se non aveva la forza di parlare o semplicemente non ne aveva la voglia. Più prendeva conoscenza, più realizzava quanto paranormale fosse quella situazione.

«Dov'è?» biascicò, tentando di mettersi a sedere. Una fitta acuta sotto la clavicola sinistra gli diede una scossa e quando portò la mano in quel punto, scoprì un grosso cerotto sotto il camice che indossava. Era successo davvero, allora? Non era stato solo uno strano incubo, gli avevano davvero sparato.

«Chi, la psicopatica o la tua Giulietta?».

«Devo essere impazzito». L'idea che Crudelia Storm, in preda a un attacco di gelosia sanguinaria, avesse tirato fuori dalla sua Chanel una pistola e gli avesse sparato al petto era assurda, così tanto che Ben la trovava quasi divertente.

«Non è stata facile da fermare, Ben» iniziò a spiegare Dan, porgendogli un bicchiere d'acqua, «dopo averti sparato le guardie l'hanno assalita, ma la pazza è riuscita a fare fuoco un'altra volta e...».

Ben aveva paura di sentire il resto della frase. Improvvisamente immaginò Deva svenire accanto a lui sul pavimento della hall, immersa nel suo stesso sangue...

«La signorina Thompson sta bene» lo rassicurò il collega, notando la sua espressione atterrita, «ha scansato il colpo. Ha preso Nesbitt, invece. Anche lui si riprenderà. Quell'altra è stata arrestata».

Troppe informazioni in troppo poco tempo, Ben si sentiva ancora più disorientato. Solo in quel momento si accorse che dalla finestra della stanza entrava un sole splendente più unico che raro per quel periodo dell'anno.

«Da quanto dormo?».

«Due giorni. Potevi fare di meglio».

Ben rise, finalmente acquistando le forze per mettersi a sedere cautamente, e vide entrare dalla porta sua madre, precipitandosi su di lui con lo sguardo di una madre che vuole solo riempirti di schiaffi ma non può farlo davanti agli altri.

Nelle due ore successive apprese che tutta la città parlava di continuo della sparatoria avvenuta al Bittersweet Hotel, mentre la sua faccia capeggiava in ogni prima pagina di giornale da due giorni. La seconda data dell'evento era stata cancellata e gli ospiti venuti da fuori erano già tutti tornati nelle proprie città, tutta roba di cui si era occupato Dan. Quasi tutto lo staff era andato a fargli visita quel giorno, seguiti dai suoi amici di bevute. Solo una persona mancava, l'unica che veramente Ben avrebbe voluto vedere.

Il giorno successivo, quando bussarono alla porta della stanza piena di fiori e biglietti di auguri, Ben la guardò aprirsi quasi rassegnato.

«Sei in ritardo» le disse ironico, seduto con le gambe incrociate sul letto. Lei gli si avvicinò raggiante e, senza dire una parola, lo baciò.

Tutte le volte che aveva immaginato questo momento non avevano niente a che vedere con la realtà delle sue labbra morbide che lo baciavano dolcemente e al tempo stesso con rabbia. La rabbia di un desiderio trattenuto troppo a lungo che celava la paura di essersi quasi persi per una seconda volta. Ben le carezzava i capelli con una mano e con l'altra la schiena, poi risalì fino al collo e il viso: sentire la sua pelle sotto le dita era stata l'ultima cosa che aveva fatto prima di svenire tre giorni prima, e il desiderio di farlo ancora e ancora gli aveva dato la forza di riprendersi.

«Sono perfettamente in orario» replicò Deva allegra, sedendosi di fronte a lui sul letto, «sai, ho lasciato agli altri il tempo di strapazzarti in pace senza avere me tra i piedi. Perché da questo momento in poi sarà difficile levarmi di mezzo».

Ben sorrise. Non chiedeva e non desiderava altro in quel momento, se non continuare a stringerla e osservarla, guardarla mentre parlava a raffica oppure mentre rideva.

Tre giorni dopo Ben fu dimesso dall'ospedale e poté tornare a casa. Deva era andata spesso a trovarlo, ma non riuscì a trattenersi molto ogni volta perché doveva finire di smantellare la sala conferenze per riportarla al suo stato iniziale.

Quando la sera il ragazzo, ormai quasi del tutto guarito, entrò nella sua suite, prima fu investito dal cane Tonic e dalle sue feste, dopo da una piacevole quanto inaspettata sorpresa. Le luci di Natale della sala conferenze si erano trasferite nella sua stanza: percorrevano tutto il soffitto del salotto, avvolgevano il divano e anche l'isolotto della cucina, mentre sul pavimento formavano una passerella dalla porta d'ingresso fino alla sua stanza.

Lanciò il borsone con le sue cose sul divano ed entrò spedito nella camera da letto, anche questa illuminata dalle stesse lucine dell'altra stanza. In piedi, ferma vicino la finestra panoramica Deva lo guardava così intensamente che si sentì leggere nel pensiero, come se lo stesse denudando di ogni sua paura o incertezza. Indossava quella sottoveste nera che tante volte aveva immaginato dalla prima volta che l'aveva vista al Mirror e, mentre in silenzio lo faceva avvampare, Ben si sentì di nuovo immerso in un sogno.

Sentì come se, andandole in contro, stesse percorrendo una passerella di fuoco. Bruciava ogni volta che le labbra della ragazza lo baciavano, prima le mani, poi sul petto, il collo, la schiena...

Deva fece di sua proprietà ogni centimetro del corpo di Ben, e ogni volta che lo baciava lui sentiva come se un pezzo della sua anima si aggrappasse disperatamente alle labbra di lei e gli veniva strappato via. Si abbandonò a quella sensazione piacevole, chiudendo fuori da quella stanza il resto del mondo per tutta la notte.

La sigaretta dopo il sesso era il terzo sommo piacere della sua vita. Era ancora notte quando fumava appoggiato contro il muro accanto alla finestra, mentre scrutava la ragazza dalla testa ai piedi. Sdraiata nuda sul suo letto, cercava di fare i cerchietti con il fumo, e ogni volta che gliene riusciva uno esultava. Per Ben era come se lei fosse sempre stata lì, come se vederla ridere e fumare sul suo letto come se ne fosse la padrona, fosse la normalità.

«Che ne farai di quello che ti ho raccontato?» gli chiese lei all'improvviso, riportandolo alla realtà. Si era alzata e aveva iniziato a girovagare per la stanza, rivestita.

«Lo conserverò dove non potrò usarlo contro di te per farti soffrire» rispose lui con semplicità, per poi tornare a letto, «non sarà facile tutto questo, Deva». Si sentiva in dovere di avvertirla, farle capire che nonostante stare con lei fosse il suo primo desiderio, erano ancora solo all'inizio.

«Dovresti sapere che non mi piacciono le cose facili».

Il giorno successivo, il team di Nesbitt aveva finito di sistemare ed erano pronti a lasciare il Bittersweet Hotel.

«Resta» disse Ben alla ragazza che preparava la valigia nella camera 394. Lei si girò e lo fulminò con lo sguardo.

«Non ho intenzione né di vivere con te né di vivere a tue spese».

«Che esagerata...».

«Ben, abitiamo a 15 minuti di distanza. Sono davvero così tanti per te?».

Gli piaceva farla esasperare. Quando si infastidiva, per mantenere il controllo, serrava le labbra e le si allargavano le narici, e lui non riusciva a trattenere le risate, tanto che a un certo punto si beccò una saponetta lanciata che gli sfiorò la testa.

Quel pomeriggio, Ben tornò dalla dottoressa Mitchell e parlò per un'ora intera. Le raccontò per filo e per segno cosa successe il 13 luglio, di come si portava sulla coscienza la morte del suo amico e che quello era il motivo per cui si era costruito un muro attorno a sé: aveva paura di ferire tutte le persone che amava. Le parlò anche di Deva e di come lei lo avesse aiutato ad aprirsi e parlare, del senso di sollievo che aveva provato subito dopo e del suo cuore che aveva ripreso a battere per una persona.

Raccontò alla dottoressa della cattiveria che lo aveva investito quando Deva gli disse che non voleva più vederlo. Le raccontò che il suo primo pensiero era stato la vendetta, e quella stupida vendetta gli era costata una cicatrice sul petto e una sulla coscienza.

Quando uscì dallo studio della psicologa il mondo gli sembrava diverso. Oltre a sentirsi più leggero, si sentiva quasi... in pace. Stava accettando che anche lui aveva diritto alla felicità, anche lui poteva ricominciare. Che fosse cambiato il mondo o Ben stesso?

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Rieccomi! Ora avremo sempre più contenuti Ben-Deva. Ma se volessimo creare una ship come si chiamerebbero? I "Beva"? Sicuramente molto adatto ad entrambe le personalità. Ad ogni modo! La possibilità di uccidere Ben mi ha accarezzata e sedotta, ma sono riuscita a resistere: mi sono affezionata troppo. Però qualcun altro ne deve pagare senza dubbio le conseguenze, chissà chi sarà....

Al solito, ditemi che ne pensate! Trovate errori? Vi annoia? Accetto critiche! Con amore, a presto.

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