Vedrai che partirà (I)
La lite con Biagio è arrivata a Viacampo come un fulmine a ciel sereno. In passato ci era già capitato di bisticciare, ma avevamo fatto pace velocemente; questa volta, invece, entrambi abbiamo preso ripetizioni di zucconaggine da Marco e non vogliamo cedere per primi. Ammetto la mia colpa: ho esagerato con la maniera, ma il succo del discorso resta pura verità.
«Nina, forse dovremmo dichiarare lo stato d'allerta» mi dice Marco, appena Biagio ci sguinzaglia contro Marlyn. «Sospendere il gioco, i foglietti, trovare un modo per risolvere.»
«Non c'è niente da risolvere. Per una fottutissima volta deve comportarsi da persona matura, non da ragazzetto drogato di videogames.»
«Ma, Nanà...»
«Tu hai usato il buono concessione, tu lanci la sfida.»
Marco esegue con un misero "Non ci vedremo per due settimane". Vorrebbe vedermi mentre sfogo la mia ira calpestando un formicaio in giardino o estirpando i denti di cane, o suonando il campanello del vicino con il nipote in visita che si intestardisce a suonare la batteria.
Pure io vorrei avere Marco al mio fianco, perché la sua presenza si confermerebbe un antistress più efficace di tutte le attività che sto inventando per sbollire la rabbia. Nel lungo elenco delle quali dovrei aggiungere: unirmi alla setta "Elimina egocentrici con i capelli piastrati fino al culo".
«Yuri? Per quale assurdo motivo mi stai pedinando?»
Sono al supermercato, nella corsia dei detersivi, e si è materializzato alle mie spalle stile mago Merlino.
«Non ti sto pedinando, Nin. Il supermercato è un luogo pubblico.»
E il parco?
«Anche il parco è un luogo pubblico.»
E un negozio di intimo femminile.
«Anche i negozi sono luoghi pubblici.»
E il reparto di ginecologia all'ospedale.
«Anche l'ospedale è un luogo pubblico.»
E la mia stanza.
«Anche la tua stanza...»
«No, Yuri! La mia stanza non è un luogo pubblico. E ora sei pregato di uscirtene!»
Ho passato un giorno interno a camminare alla rinfusa per liberarmi di lui, ma è una cimice appiccicosa e puzzolente che non si scosta nemmeno se colpita dal DDT. Tutto quello che voglio è essere lasciata in pace, senza buoni samaritani che mi guardino le spalle.
«Nin, se non mi volevi tra i piedi bastava dirlo» puntualizza Yuri. Si è accomodato in cucina, ha messo una birra nel freezer, attivato il timer a un'ora e impugnato il telecomando per guardarsi una gara di vela.
«Perché? Se ti avessi detto di andartene, lo avresti fatto?»
Yuri si è sistemato a suo agio, si è tolto le scarpe, ha buttato i piedi sul tavolo, azionato il ventilatore, e davvero dovrebbe bastare una mia richiesta a levarmelo di dosso?
«No» risponde lui.
Appunto.
Nella settimana successiva, Yuri diventa la mia ombra e tutti i tentativi di smarcarlo finiscono nel barattolo del fallimento: sagomare la mia forma con i cuscini, indossare un foulard per occultare l'osceno colore di capelli, nascondermi dietro il reparto delle creme anti-age per confonderlo. Una causa persa in partenza, perché lui è il grande Yuri Conte e quando il grande Yuri Conte riceve una missione...
«Il grande Yuri Conte la porta a termine.»
«Quindi è stato Marco a dirti di perseguitarmi!»
«Confermo. Ma devo anche confessare di avere sviluppato un'ossessione sviscerale per il tuo ventilatore, per le birre di tuo padre, per i biscotti al cocco di tua madre e anche per tua madre stessa in realtà.»
«Yuri!»
Ci manca solo che quel gran pervertito si metta a fantasticare a occhi aperti su mia madre! Ma Yuri, stappate due birre, si è riproposto di iniziare una conversazione seria, una di quelle che aumenta la salivazione in bocca da quanto è succulenta.
«Io quella stronzetta cagasoldi della Innocenti non la reggo.»
Ah, Yuri. Pronta a proclamarti eroe nazionale, con tanto di statua d'oro accanto al mostro delle nevi! Temevo che Celeste si fosse comprata la complicità di Yuri, che le schiere dei miei seguaci si fossero diradate nel sentire il tintinnare di tutti quei soldi.
«Non ci crederai, Nin, quell'eretica puzzetta sotto il naso, con il suo charme da verginella saputella si sta impuntando per cambiare lo Yeti!» Dichiara guerra a un fazzoletto di carta, lo riduce a un pugno di coriandoli. «Le sedie. Quei fantastici sgabelli di mogano, incisi con i tappi della birra e puzzolenti di fumo! Lei! Lei li trova sciupati e anti-ortopedici, capisci? Con questa oscenità li vuole sostituire!»
Tira fuori dallo zaino la macchinetta digitale e mi mostra uno scatto di alcune sedie in pelle bianca, un arredo più vicino al Maracaibo che a un vecchio bar di rock e alcolizzati.
«E le targhette avvitate al bancone?» continua. Le targhette pro-alcolismo, come dimenticarle. «Le vuole togliere perché portano al consumo di alcol, ti rendi conto? E lo Yeti... perfino il mio mostriciattolo delle nevi non rientra nelle grazie di quella rompiscatole, capisci?»
«E il grande Yuri Conte davvero non sa come boicottare un'imprenditrice alle prime armi?»
Yuri lascia la birra intera, dimentica i biscotti al cocco di mia madre. Quando salta in piedi, le pupille bruciano del fuoco del demonio, geniali progetti per incenerire il nemico.
«Vado, l'ammazzo e torno.»
E pensare che per liberarmi di lui bastava trovargli una vittima da annientare! Lo sbattere della porta sigla il ritorno a un bel silenzio che mi fa rimuginare sulla lite con Biagio. E più ci penso, più sono un mulo impuntato nella sua decisione:
"Nina. Hai ragione."
Forse per questo esco a bere una granita con Nicola e accetto di accompagnarlo a fare due passi nel centro storico del paese. Così, mentre sorseggiamo ghiaccio al limone, lui scatta qualche vecchia foto ai resti di edifici medievali e io continuo a lamentarmi:
«Vuoi dirmi che ne pensi?» gli chiedo. Che poi... perché si sarà mai messo in testa di ricostruire la storia medievale di Viacampo, quando studia giurisprudenza?
Nicola smette di irrorare la via di flash. Abbandona un interessantissimo mattoncino che doveva appartenere a una torre ghibellina.
«Vuoi che Biagio si senta una persona normale, giusto?» indaga. «Bene allora» continua, scambiando il mio silenzio per un sì. «L'hai preso a pesci in faccia come avresti fatto con una persona normale, quindi giusto così.»
Un vago sospetto si insinua tra i pensieri, che Nicola abbia detto la parola "giusto", ma al tempo stesso non mi stia dando tutta la ragione. Solo che lui deve essere sempre più complicato di un rebus di livello dieci, e io delle sue illuminanti perle di saggezza non capisco mai niente.
«D'accordo facciamo che ho ragione io» mi auto-convinco. «Com'è che Biagio non mi ha chiesto ancora scusa per avermi sguinzagliato dietro Marlyn?»
Nicola sospira:
«Dagli del tempo, Nina. Quando la smetterai di volere sempre tutto subito?»
Mai.
La necessità di risolvere ogni problema ancora prima del suo sorgere è una conseguenza dell'essere cresciuta sotto il segno del binomio. Etichettato come inutile l'aiuto di Nicola, mi sacrifico al dio dell'alcol e aspetto, aspetto, aspetto, un giorno, troppe ore e troppi minuti, finché un messaggio finalmente illumina il Nokia.
Nna, mi dv autjare. Pnic esme, vto nn vedo + nn capisco +
Si parlava di rebus? Marco ha deciso di battere Nicola, lasciandomi un sms in sanscrito, ma anche se il cervello fatica a connettere, il cuore capisce al volo che qualcosa non funziona. Corro a casa sua come un petardo appena scoppiato da un razzo, con le guance rosse per il caldo di metà luglio. E quando arrivo strillo il suo nome:
«Marco? Marco, va tutto bene?»
Il cancello è aperto, Floyd buttato a caso sotto la vecchia pianta, il casco gettato ai piedi della Mitsubishi. E subito la mia mente gira un filmino: uno schianto in mezzo alla strada, la carrozzeria di Floyd che si piega, il casco che vola e Marco che dolorante si getta sul divano e cerca il mio aiuto.
«Marco? Marco, dove sei?»
Entro in casa con la mano che trema e gli occhi chiusi, nel terrore di vedere un bagno di sangue sul pavimento.
«Nanà, finalmente sei arrivata!»
«Marco, stai bene? Che è successo, il messaggio, non capivo niente, non aveva senso, pensavo ti fossi fatto male, io...»
«Shhh!»
Marco è rilassato quasi fosse appena uscito da un bagno termale. Si avvicina a me, mi stampa un bacio sulla fronte e mi accoglie nelle sue braccia, stritolandomi con tutta la sua forza.
«Calma» mi dice. «Dovevo solo trovare una scusa convincente per farti correre da me!»
Il grillo nel cervello attiva il disco del "Sei un idiota", poi aziona le mani, ordina di spintonare quel bugiardo via da me, di rubare un cartoncino giallo e stracciarlo in due.
«Sei un idiota!» dico ad alta voce. «Volevi che fossi io a rimetterci il cartoncino, vero? E invece strappo il tuo, così impari, stupida testa da zucca bollita!»
«Shhhh!» ripete lui e blocca l'attacco ordinato dal grillo, mi intrappola di nuovo nel suo abbraccio, una stretta in cui sto bene. «Ci siamo lasciati così in fretta, Nanà. E tu ti sei liberata di Yuri e io che dovevo pensare?»
«Che sei un idiota, ecco cosa dovevi pensare!»
È il 15 luglio 2009 e il conto dei nostri fogliettini ha appena subito una modifica:
Nina – 2 buoni concessione; 3 pago penitenza;
Marco – 0 buoni concessione; 3 pago penitenza.
L'idiozia di Marco invece resta invariata, così come la mia stupidità, il cieco desiderio di rincorrere ogni suo passo, convinta che, solo se seguirò la direzione da lui indicata, saprò riempire di gioia i miei giorni.
«Abbiamo una missione, Nanà! E non possiamo tirarci indietro!»
Oggetti necessari: un cestino di vimini, un gancio di ferro e una scaletta di legno che Marco ha già issato sul tettuccio della Mitsubishi. Bastano questi indizi a capire che la missione di Marco non sarà niente di serio.
«Marco, ti voglio ricordare la storia del ragazzino che urlava sempre al lupo, al lupo, anche se non c'era mai, quella che ci faceva tradurre la Lorenzi al biennio.»
Lui guida e bofonchia che per quella viperetta non ha mai tradotto niente.
«Il ragazzino dice sempre che arriva il lupo e i contadini corrono preoccupati. Poi si arrabbiano, perché il lupo non c'è mai. Così quando arriva davvero-»
«Nessuno gli crede e il gregge viene dilaniato dalla bestia» conclude Marco. Non avrà tradotto la versione, ma sicuramente gliel'ho fatta copiare dal mio quaderno. «Vorresti dire che la prossima volta che ti chiamerò in preda alla disperazione, non correrai a salvarmi dalla noia?»
È scorretto chiedermelo così, mentre sbatte gli occhioni e fa la faccia da cucciolo abbandonato in una pozzanghera.
«Siamo arrivati?» taglio corto.
«Già. Quella è la nostra missione.»
Lascio cadere la testa sul sedile: il grillo sta ordinando al mio corpo di rifiutarsi di procedere. Perché quella, la missione, è una pianta di ciliegio stranamente carica di frutti e adesso è chiaro a cosa servissero la scala e il cesto.
«È un miracolo, Nanà, capisci? L'ho vista qualche giorno fa mentre correvo. È una specie di miraggio come la Madonna che appare a Fatima. Le ciliegie da noi finiscono a giugno e quell'albero ne è pieno!»
Saltella sul sedile come un bambino che ha appena adocchiato uno stand del gelato mille gusti più uno. E gli occhi sono azzurri come la maglietta che indossa, così limpidi che potrei scambiarli per il cielo che ci sovrasta.
«Marco, se guardi bene, c'è anche un cartello con scritto non raccogliere.» Indico il palo, conficcato in mezzo al sentiero della campagna. «E c'è il disegno di un teschio.» Quello lo indico due volte, giusto per sicurezza. E ancora punto il dito oltre il vetro e i tergicristalli disattivati. «Non devo farti notare il filo spinato attorno al tronco, vero?»
«Nanà, ma noi abbiamo la scala!»
Solo una donna cresciuta a pane, binomio e cavolate potrebbe trovare entusiasmante finire in carcere per un furto di ciliegie miracolose.
«Però sono buone» commento. «Sono maledettamente buone.»
«Te l'ho detto, Nanà! È da tre giorni che le sorveglio e non ho visto nessuno di guardia.»
«Se non fossi perfettamente sobria, direi di essermi svegliata in Paradiso!»
Io e Marco siamo accoccolati sui rami del grande ciliegio. Ci sentiamo dei nidi di rondine, disposti tra le foglie e quelle biglie rosse mosse dal vento, le schiene premute sulle diramazioni principali, i piedi intrecciati nel groviglio dei nostri corpi. E mangiamo le ciliegie, fino a sentirci la pancia scoppiare, e poi giochiamo a sputarci contro gli ossicini, in una guerra all'ultimo sangue. Poi Marco riesce a prendere due ciliegie ancora agganciate allo stesso rametto.
«Guarda che begli orecchini, Nanà. Come mi stanno?»
E se le mette a cavallo delle orecchie, al punto che i pallini di frutta sembrano due grandi pendenti di rubino.
"Egoista, dovresti regalarli a me!" "Beh, prima non sei stata troppo simpatica, quindi me li tengo". "E io ti rubo la scala così non puoi più scendere dalla pianta". "Ma se non scendo io, non scendi nemmeno tu, Nanà!".
«Aspetta. Che è stato?» chiedo con il cuore in gola, perché un rumore proviene dalla base del tronco, il ruggito di Cerbero che negli Inferi sbrana le anime dei defunti.
«E questo chi cazzo è?» chiede Marco. «Merda, si arrampica! Giù la scala, giù la scala. Su le gambe, su le gambe!»
Un mastino abbaia imbufalito alle radici del ciliegio e con le zampe anteriori risale i pioli della scala, le sue zanne che intrappolano il laccio delle vecchie All Star e mi strattonano verso il basso.
«Marco!»
«Pronto al salvataggio!» Un calcio per rovesciare la scala, una ciliegia nell'occhio del mastino per fargli mollare la presa. Come due orsetti terrorizzati, arrampichiamo sulla vetta della pianta, il fiatone a mille, il sudore per il sole non più ottenebrato dall'ombrello delle foglie e un terribile ricordo fino ad ora scordato:
«Marco, ma io ho paura dell'altezza!»
Prima eravamo in basso, ma adesso, così in alto.
«Tranquilla, Nanà! Ci penso io a salvarti da Ivan il Terribile!» La battuta rallenta il battito del cuore, la sudorazione dei palmi, dipinge nel cervello un enorme punto di domanda. «Ivan il Terribile, Nanà! Come nel film di Fantozzi, no? Che poi l'Ivan che conosciamo noi è davvero terribile e mi è sempre stato altamente sul cazzo, così...»
«Marco! Tiragli qualcosa da mangiare! Fallo andare via!»
Più tardi, quel pomeriggio, prendiamo il sole al pontile, distrutti dalle risate nel ricordare l'epilogo della vicenda: Marco che bombarda il Terribile di ciliegie, il Terribile che grugnisce, Marco che sacrifica il panino alla mortadella, il Terribile che lo divora e da mastino si trasforma in un agnellino tutto coccole.
«Vedi, Marco. Gli Ivan non sono mai terribili. Ti sei confuso! Quelli sono gli zucconi!»
Ed è l'inizio di una gara a schizza più forte l'acqua.
Quando il tramonto dipinge un cerchio arancione sulla cima del monte, io e Marco ci separiamo e lui chiarisce subito che, finiti i buoni concessione, non cederà ai "pago penitenza". Spetta a me mettere da parte la competizione e, se ascoltassi l'istinto lo farei subito, perché questo giorno passato insieme è stato un tuffo nel binomio del passato, nella gioia di vivere, nella consapevolezza che insieme sappiamo essere indistruttibili. E mentre sott'acqua nuotavo non vedevo mulinelli o vortici che mi ricordassero il dolore e il tradimento. Al contrario ogni bracciata era una boccata d'aria fresca, il desiderio di tornare quelli di un tempo, prima della Scalinata del Re, prima della nostra storia d'amore. Ma sarò davvero capace di lasciarmi alle spalle dei brutti ricordi che mi sono tatuata sulla pelle?
Resistere alla sfida è un'impresa da Ercole e nemmeno gli eroi più famosi della mitologia greca potrebbero compierla. Soprattutto quando il sindaco di Viacampo si mette contro di me e organizza un evento che sembra chiamare "Binomioooo" a chilometri e chilometri di distanza.
«Gara di tuffi alla Casa Rossa» leggo in un volantino. Qualcuno è stato bene attento a incollarlo sul cancelletto di casa mia. Per non parlare delle copie su Pink, sulla porta della mia stanza, sull'altare in chiesa, sulla cassa del supermercato.
«Quel dannato zuccone! Vuole davvero farmi cedere per prima!»
Nei giorni successivi insiste, più rumoroso di un martello pneumatico che fa oscillare le fondamenta di intere palazzine. E insieme alle basi degli edifici, crolla la mia sicurezza di vincere:
«Gara di tuffi. Non so se lo sai.» Lo scrivo in un sms pieno di ironia. «Ci andiamo?»
Nina – 1 buono concessione, 3 pago penitenza;
Marco – 0 buoni concessione, 3 pago penitenza.
«Nanà, vedi che il binomio funziona ancora? Anche io stavo pensando di andarci. Come hai fatto a capirlo?»
Vedrà quando sul più bello lo spingerò giù dalla Casa Rossa! In costume spintoniamo la folla per essere i primi a tuffarci e gridiamo "Banzai", come facevamo da adolescenti, ci affrettiamo a risalire in superficie per racimolare ossigeno. E giochiamo a ributtarci la testa sott'acqua, mentre le persone dal tettuccio ci dicono di spostarci, perché anche loro vogliono lanciarsi.
Sono tutti più giovani di noi, segno che i nostri coetanei sono cresciuti, barricati dietro i libri da studiare o una storia d'amore seria, una riprova che solo chi ha davvero saputo innamorarsi della propria adolescenza difficilmente riuscirà a lasciarla andare.
«Guarda quei due» dico a Marco con il fiatone, mentre muovo le gambe a rana per mantenermi in superficie. Oltre la patina d'acqua dolce che mi opacizza la vista, scorgo due ragazzini sul bordo della terrazza. Lui ha i capelli neri e ride a crepapelle. Lei piagnucola che non vuole tuffarsi.
«Non trovi che ci assomigliano?» gli chiedo. E Marco subito a dire di no e a schiacciarmi la testa sott'acqua.
«Noi siamo il meglio dei meglio, quei due non valgono un nostro mignolo, e poi con noi, quel giorno, c'era Biagio che giocava a rubarti il costume.»
Biagio, quando ancora non era un groviglio incasinato di battute cattive e menefreghismo. All'epoca ero felice di stare con lui, non sentivo un attacco di gastrite inacidirmi lo stomaco nel vederlo così distante.
«Andiamo, Nanà» mi dice Marco, tirandomi a sé. E un bacio sulla guancia, per consolarmi, perché ha un radar capace di leggermi i pensieri più nascosti. «Vedrai che si risolverà.»
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