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Uno scheletro in cantina (III)


Se questa giornata fosse un libro, la intitolerei come un romanzo di Fitzgerald, con Celeste che veste i panni del grande Gatsby. Il miliardario della storia spendeva fior fior di quattrini per fare felice la sua amata, e così Celeste svuota in un batter di ciglio il conto in banca e riporta l'ordine a Viacampo.

Zitti zitti, i dissidenti abbandonano la statua dello Yeti e Yuri stesso si ritira, bofonchiando un "grazie" alla nuova proprietaria del locale.

Quanto a me e Marco, l'improvviso colpo di scena ci ha lasciati così confusi che ci scordiamo di tornarcene a casa, nonostante il sipario dello spettacolo sia stato calato. I nostri passi ci conducono invece alle seggioline rosse, ci invitano a sederci sulle doghe di legno, con lo sguardo tanto sbigottito che un estraneo ci chiamerebbe "cervelli lobotomizzati".

La piccola dolce Celeste Innocenti mi ha appena trasformata in un mucchietto di cenere. Non mi ha perdonata per avere fatto l'amore con Marco, né per averlo allontanato da Bologna, dall'università, da lei. E più ci penso, più sento un moto di stizza attivare la centrifuga dello stomaco e farlo girare alla velocità di una lavatrice impazzita. Perché c'ero prima io nella vita di Marco, io sono l'altra metà, lei l'aggiunta, il reggi-candela... insomma... chiamatela come volete.

«Celeste ha comprato lo Yeti» bofonchia Marco, perso nella linea dell'orizzonte.

Il sole mi riscalda la pelle, i suoi raggi illuminano il cervello: Celeste si è potuta permettere di comprare un locale per farlo felice, io che cosa potrei dargli invece? Come al solito, quando paragono i miei pro con quelli di Celeste, la sua lista sembra la Divina Commedia di Dante, la mia una poesia di Ungaretti: M'illumino / d'immenso, due versi striminziti.

Con un grande respiro caccio il cattivo umore: non mi importa se Celeste mi è superiore, non intendo rientrare nella vita di Marco in quel senso, io ho Zeno, ho girato pagina.

«Già, non ci posso credere» dico allora. «Ci pensi che stiamo parlando di quella Celeste che si è ubriacata con vino rosso e bianco e da quel momento non mescola più la cioccolata fondente con quella al latte?»

«Perché è così scema da credere che le darebbe la nausea!» ride Marco.

«E ora lei, la dea degli astemi, ha praticamente comprato la patria degli alcolizzati. Non è incredibile?»

Ci impegniamo a strillarlo al cielo, perché un coro di risate allontani i cattivi pensieri. Ma per quanto sforziamo l'entusiasmo, un grande macigno ci tiene bloccati a terra e non riusciamo ad essere felici. È chiaro che tra me e Marco si è creato un muro, un ostacolo al quale non sappiamo dare un nome, come non sappiamo quando si sia creato tra di noi.

Forse lo intuisco.

Con la sfida dei cartoncini colorati, per lui.

Con il complesso di inferiorità rispetto a Celeste, per me.

«Posso chiederti una cosa, Nanà?»

La voce di Marco si è trasformata in un fazzoletto di velluto da quanto è delicata. E capisco che sta trattenendo una domanda che scotta.

«Sembra importante» gli dico.

Ho paura ad ascoltarlo, che i suoi tormenti siano più grandi dei miei o che risveglieranno incubi dal passato, ma nascondersi dietro alla barriera del silenzio non ci salverà dalla distruzione. Marco continua a esitare e scruta il lago calmo, non un fiotto di vento che alzi la superficie in una cresta bianca. Alla fine racimola tutto il suo coraggio e mi parla:

«Che cosa ci faceva una moto fuori da casa tua?»

Mille, mille, mille ipotesi si erano materializzate nel filmino dei pensieri, ma in nessuna di queste compariva la moto di Zeno. Già, perché è di quella che Marco sta chiedendo, ma come ha fatto ad associarla a me?

Mentire è la soluzione.

«Di che moto parli?» gli domando, incapace di mantenere il contatto visivo.

I suoi occhi azzurrissimi sono un incantesimo, una macchina della verità che mi impedisce di dire bugie.

«Della moto fuori da casa tua» mi risponde. «Quella di marca inglese. Si trovava sull'altro lato del vialetto, a bordo strada, davanti alla casa arancione con le piante di camomilla giganti e il cartello vendesi da vent'anni.»

Altri dettagli da aggiungere? Il numero di targa, il nome del proprietario e il suo identikit? Deglutisco con la mente in panne, un passo falso e Marco scoprirà di Zeno e io non posso permettermi che sappia. Raccontargli di quel sesso chirurgico con cui mi intrattengo gli farebbe troppo male.

«Made like a gun, goes like a bullet» recita Marco, la stessa frase in inglese che mi ha detto prima di assistere al sit-in del grande Yuri Conte. «È il motto della Royal Enfield, la marca della moto.»

«Ma Marco, che vuoi che ne capisca di quegli aggeggi? Guarda che non sono l'unica a vivere in quella via! E non posso sapere sempre che combinano i miei vicini!»

Gli tiro un buffetto sul naso e incrocio per un millesimo di secondo i suoi occhi, mi costringo a farlo, altrimenti capirebbe che sto evitando di guardarlo. È una bugia grande quanto un tirannosauro nella casa di un topolino: i miei vicini sotto tutti signori sulla settantina. Davvero Marco potrebbe associarli a una moto fatta come una pistola e che corre come un proiettile?

Perfino la sua ottusità deve fiutare aria di menzogna, infatti Marco sospira. «Non voglio farti del male» mi dice. «Ho passato una vita a credermi un grande e invece ero solo un povero stronzo che faceva cazzate.»

Adesso è lui a rifiutare ogni contatto visivo, a perdersi nelle assi di legno del pontile. È per colpa della Scalinata che sta parlando. Per colpa dello Xanax, del mio malessere, di quel tuffo nel lago ghiacciato che mi ha imprigionata sul fondo.

«Nina, io mi sono ripromesso di prendermi cura di te, di farti felice, che avrai il meglio che ti meriti, ma tu ultimamente stai facendo di tutto per remarmi contro e non so più come comportarmi.»

Di nuovo sospira e in quel gesto di rassegnazione leggo la verità: Marco ha capito tutto, sa che stamattina ero con un altro. Non pensava mi fossi appena svegliata, né che stessi entrando in doccia.

«Io ci credo» gli dico. Dalla tasca degli shorts recupero i cinque cartoncini colorati. «Credo in quello che stiamo provando a costruire, credo che stiamo imparando a diventare grandi e indipendenti. E so che sto commettendo mille errori, ma voglio essere libera di sbagliare e di trovare la mia strada.»

Non voglio esistere per il resto di questa storia come l'altra metà del binomio, come la parte femminile che Marco ha scelto per completarsi. E non voglio pensare che la mia vita sia solo Marco, sempre Marco l'unica possibilità di essere felice.

«D'accordo» mi dice lui. «A dicembre mancano ancora sei mesi e noi abbiamo praticamente tutti i buoni e le penitenze. Io dico che lo possiamo vincere questo gioco, Nanà!»

Il cuore mi si ingigantisce di tre taglie, perché possono esistere muri più alti del Kilimangiaro, ma Marco è sempre qui a porgermi la mano, a sostenermi per farmi tagliare il traguardo, una gara intitolata "felicità". Così, con il battito cardiaco troppo veloce e un groppo alla gola dal sapore di pianto, non posso che rispondergli con un'unica parola:

«Grazie.»


*


L'entusiasmo con il quale Marco ha finalmente accolto il gioco dei cartoncini ha su di me l'effetto di una bevanda super-energetica quando si è a forze zero. Se prima dovevo ricorrere a Zeno e ai nostri incontri, per non cedere alla tentazione di chiamarlo, ora faccio meno fatica a resistere al "Non ci vedremo per...". Un mese è la sfida che ci siamo rilanciati, un periodo che entrambi trascorreremo qui, a Viacampo, lui a studiare medicina e io a prendere il sole e a tradurre qualche testo greco per puro piacere.

Il fatto che Marco creda nel successo dell'impresa mi fa sentire leggera come una bollicina di ossigeno nel mare. Potranno esserci nuovi momenti di buio o attimi di nostalgia in cui mi mancherà infinitamente, ma saperlo così vicino, nello spazio e nelle intenzioni, mi rincuora.

Presente il detto "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore?" Per i membri del binomio non vale, perché quando i chilometri ci separavano non facevo che arrovellarmi nei dubbi, chiedendomi cosa stesse facendo, come sopportando il fardello della sfida, se fosse sul limite di cedere o ancora nel pieno delle forze.

Ora che Marco è a Viacampo invece...

D'accordo, basta mentire con bei paroloni e similitudini! È peggio, mille volte peggio, infinitamente peggio. Come cavolo fanno a evitarsi due persone che vivono nello stesso paese, grande uno sputo e poco più? Rischio di trovare Marco al supermercato, al nuovo Yeti con gestione Celeste, in spiaggia, alla Casa Rossa, al Torcia, sul pontile. Marco a Viacampo è ovunque, come io sono a Viacampo per lui e sembriamo due scemi a giocare questa partita. Non facciamo che cambiare strada, fingerci alberi, procedere a occhi chiusi, se per caso ci ritroviamo nello stesso posto.

Il che in media succede due volte al giorno. Barricarmi in casa è l'unica soluzione possibile, ma ecco che Marco decide di andare a trovare suo nonno e di passare proprio dal sentiero di casa mia, nell'esatto momento in cui sto annaffiando i gerani e sbirciando tra i rami della siepe.

Liberarsi di Marco è una battaglia persa. Infatti, mi sento un guerriero sciocco quanto Don Chisciotte quando si ostinava a combattere contro i mulini a vento. Un giorno poi sul cellulare compare uno squillo di Marco, un veloce trillo di telefono che potrebbe essere stato compiuto per errore, una trappola mortale per tentarmi. Perché se solo osassi richiamarlo... il buono da strappare sarebbe il mio!

Così resisto e gioisco quando è Marco a perdere e materializzarsi alla mia porta con la coda tra le gambe, in mano quel simpatico fogliettino giallo stracciato a metà.


Nina – 2 buoni concessione, 3 pago penitenza;

Marco – 1 buono concessione, 3 pago penitenza.


La gioia occupa il lasso di un secondo, svanisce non appena Marco apre bocca e mi vomita addosso una freddissima rivelazione:

«Biagio non ha passato la maturità».

Un piccolo "oh" mi esce dalle labbra, mentre il cervello gioca a lanciare parole a caso nelle sue stanze, la più sensata: "Merda".

«Avevi ragione tu, Nanà, quel giorno in stazione, e io sono stato uno sciocco a non capire.»

In questa occasione a vestire il costume da Carnevale della sciocca è la sottoscritta, colei che presa dal gioco del binomio si è totalmente scordata di Biagio, di Carli, della maturità. È il 5 luglio e non mi sono nemmeno fatta sentire per chiedergli come fossero andati gli esami.

«È grave, vero?» chiedo a Marco, mentre salutiamo Marlyn, intimoriti all'idea di confrontarci con Biagio. «La maturità doveva dimostrargli che può ancora farcela, che il suo cervello funziona e che non è un fallimento.»

«A dire il vero quel cagnaccio è talmente rognoso e di coccio che dubito avrebbe superato la maturità anche prima dell'aneurisma.»

Mi trattengo dal replicare che nei primi anni di liceo la media di Biagio non era molto più bassa della sua.

«Scusa» dico invece al nostro amico, quando troviamo il coraggio di entrare in casa. «Non avrei mai e poi mai dovuto lasciarti da solo, se fossi stata più presente ce l'avresti fatta.»

Ultimamente con Biagio non serve a niente parlare. Lo avvolge una sfera di vetro infrangibile e per quanti pugni tiri alle pareti non riesco a romperla e a raggiungerlo. Le mie parole vengono bloccate da quello strato cristallino, restano inascoltate. E Biagio mi ignora, seduto sul divano nel posto di sempre, con il computer sulle ginocchia e le dita che pigiano i tasti del computer.

«Ehi, Biagio. Hai sentito che ha detto, Nanà?» Marco prova a svegliarlo dal sonno della Bella Addormentata. «Dispiace anche a me, avremmo dovuto aiutarti.»

Una Bella Addormentata che non è stata punta dall'ago del fusolaio, ma dall'esistenza di Facebook e di quella megera di Carli. Mi alzo dalla poltrona e mi acciambello sul divano, abbastanza vicina al portatile per riconoscere il blu di Facebook e la foto profilo di Carli, chat attivata.

«È per lei che non hai passato la maturità, vero?» La domanda mi esce scontrosa. Dovrei tacere, ma non posso. «È per lei che non hai studiato niente. E noi siamo qui a chiederti scusa, quando dovresti essere tu a prenderti le tue responsabilità...»

«Nanà, non mi pare il caso.»

Di trattarlo sempre come un bambinetto malato? No, non lo è.

«Mi dispiace, Biagio, ma che cosa vorresti fare? Passare tutto il tempo a chattare con una che nemmeno conosci e che forse non conoscerai mai? A credere che tanto ci saremo sempre noi, o tuo padre, o Anna, o Marlyn a guardarti le spalle?»

«Nanà...»

«Avrai anche avuto un aneurisma, ma adesso devi essere tu a lottare per riavere una vita, non noi.»

Mi sento più leggera, ora che gli ho sputato contro i miei pensieri, come se avessi corso per miglia e miglia dopo essermi ingozzata al pranzo della vigilia. E mi sembra di respirare meglio ora che non ho più quel macigno – Carli – nel centro dello stomaco.

Ma lo sguardo di Marco, sbarrato, presagisce un attimo di quiete prima della tempesta. Come diceva Leopardi, presto folgori, nembi e vento si abbatteranno su di me.

Biagio chiude il computer con uno scatto e si gira di lato, le sopracciglia piegate in un arco di rabbia che le unisce tra loro. I nervi del collo si tendono, come quel giorno, quando mi aveva scagliato contro tutti gli oggetti della stanza pur di ferirmi. Ma adesso sono le sue parole a trafiggermi:

«Tu sei solo gelosa» mi accusa.

E poi un ultimo ordine:

«Vattene».


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