Sul filo del silenzio (II)
«La ringrazio, Signorina. E ora la commissione si ritira per stabilire il voto di laurea.»
Il professor Caldaroli, insegnante di geografia e presidente della commissione, raccoglie il plico di carte con la mia media universitaria e l'abstract presentato alla giuria. Al suo fianco Crodelia borbotta di spicciarsi che questa incombenza le sta portando via troppo tempo.
Davanti ai dieci membri sono una statua di ghiaccio, tra la paura di avere commesso un disastro e l'eccitazione perché credo di avere fatto bene, ma sono talmente negata a riconoscere gli abbagli che potrebbe essere l'ennesima illusione.
In piedi abbasso il tubino di pizzo, regalo di Tania, nel timore di avere indossato un vestito troppo provocante.
«Scricciolo, li devi incenerire!» ha insistito Tania l'altro pomeriggio, nel raduno delle Suore.
«Come inceneriresti un locale di uomini assatanati in un quartiere a luci rosse di Amsterdam» mi ha schernita Yuri, da sempre convinto che un abbigliamento sobrio sia il più adatto agli esami.
Spero solo che la lungimiranza di Tania, per una volta, possa battere quell'anarchico strimpellatore di chitarra dall'egocentrismo cosmico.
In giacca e cravatta nera, la commissione arranca verso la porta dell'aula, si ritira per deliberare. Nemmeno durante un funerale si potrebbe udire un simile silenzio. Perché ai funerali almeno un parente piange, invece qui siamo tutti con i fiati sospesi, in attesa della sentenza decisiva.
Solo quando il professor Vivi, la controparte del mio interrogatorio, si chiude la porta alle spalle, un vociare da stadio si alza dalle bancate: il mese di luglio ha scongelato le corde vocali dei parenti e degli amici che hanno appena assistito alla discussione.
I pianti di Diesel e l'abbaiare di Marlyn, nascosto in un cespuglio sotto la finestra della mia aula, mi pungolano le orecchie. Una scarica di tensione parte dalle spalle e si getta a terra, si sperde nel laminato di finto legno.
È finita.
Ho recitato il discorso, risposto alle domande della controparte, trattenuto la modulazione della voce, quando messa alle strette da Crodelia. Più che un mentore si è dimostrata un aguzzino, voleva che mi giocassi il tutto per tutto, ma ho saputo sganciarle un destro e riguadagnare terreno sul ring.
«Sei proprio una grandissima secchiona!» strilla Valentina, nella prima fila alle mie spalle. Si allunga oltre il banco e mi assesta un cazzotto nel centro della scapola destra.
«Non si dice prima del risultato!» la rimprovera Emina.
«Si sa che porta iella!» le dà man forte Lisa.
Grazie al cielo non sono superstiziosa... non se ignoriamo il braccialetto con la coccinella e gli orecchini a quadrifoglio.
«Hai capito, D?» mormora Valentina con vocetta da glucosio alla piccola Diesel, pannolone pieno di popò in mio onore. «Il cervello lo devi prendere da zia Nina.»
«Gli intrighi amorosi alla Beautiful è meglio di no!» ride Alex. Riflesso nell'alone del vetro, tra le imposte della finestra, vedo la sua sagoma accarezzare due ciuffi appena sbucati sulla capocchia di Diesel.
«Solo Biagio vi trova divertenti» dico con la voce che gracchia.
Ho consumato tutta la limpidezza del suo squillare per recitare la parte della studentessa modello. Ora sembra che mi abbiano sostituito le corde vocali con un citofono scordato. Ho ancora un retaggio di ansia sottopelle, un vulcano latente che minaccia di esplodere, se il voto della commissione non pareggerà le mie aspettative.
Ci tengo, ci tengo dannatamente tanto. La laurea è stata l'àncora che mi ha tenuta a galla, quando fremevo dalla voglia di cedere e chiamare Marco, il traguardo che ho puntato, il lancio della moneta per decretare il mio destino: se passo con 110 e Lode, vuol dire che ce la posso fare, da sola e con le mie forze.
Resto issata con i polpastrelli premuti al banco dell'interrogata, mentre mia madre prepara il fazzoletto per consolare mio padre, e zio Damiano tira le orecchie da asino di Simone perché avrebbe voluto vedere anche lui sul piedistallo degli onori.
Mi sento cadaverica, cinerea quanto il lenzuolo di un fantasma sgualcito. Mi basta cercare tra gli amici agli spalti, passare in rassegna le persone che mi hanno riempito la vita e scivolare nell'ultima fila per trovarlo.
Nicola, in disparte rispetto a una folla troppo rumorosa, mi strizza l'occhiolino, mormora un "brava" e io mi sento riaccendere, come se avesse appena riattivato il riscaldamento della temperatura corporea.
«Arrivano, zitti tutti!» ordina Yuri, vicino a Biagio e il più possibile lontano da Tania.
Faccio in tempo a boccheggiare un "grazie" in direzione di Nicola: per non avermi abbandonata, per non avermi messo pressione, per essersi limitato ad affiancarmi con la sua presenza rassicurante giorno dopo giorno.
Crodelia è la prima a varcare la soglia per rientrare nell'aula. E appena appare, il fiato muore in gola. Non perché da sempre un alone demoniaco le pende sopra la testa, ma perché non è sola. Con lei ci sono alcuni giovani ragazzi, di poco più grandi di me, la famosa cricca di Crodelia.
Si racconta che quando gli studenti si laureino soddisfacendo le piene aspettative della docente, lei li inserisca nel Club dei classicisti, menti malvagie di super-geni che con le lettere dell'alfabeto greco domineranno il mondo intero.
E si racconta anche che quando un novizio viene iniziato ai misteri della setta, i membri del club si radunino per accoglierlo con un applauso. I miei occhi si incrociano con quelli marroni di una ragazza snella, la chioma color mogano aggrovigliata in anelli e spirali, in perfetta tinta con il libro che tiene abbracciato al petto.
Dottoranda Nina Adami. La mia tesi.
Per un flebile secondo, le labbra della ragazza si inarcano nello spicchio di un sorriso. Dura un attimo, poi si distrae con un altro membro del club, un ragazzo minuto con una folta chioma nera e orecchie da folletto dei boschi.
A me basta il ricordo di quel sorriso.
Quando Crodelia ripara dietro la cattedra della commissione, anche se il viso è più enigmatico della Gioconda di Leonardo, una baraonda di fuochi d'artificio mi esplode nel cuore, e nonostante il rumore frastornante degli spari, percepisco l'armonia dei colori, capto la felicità nascosta in quelle scintille variopinte.
Già immagino quali parole usciranno dalla scatola fonica del capo commissione:
«110 e Lode, Signorina. E i complimenti di tutti noi».
Era piccola cosa il rumore dei fuochi d'artificio nel cuore. Viene coperto dal fragore dei miei amici. Mi trovo stritolata nei loro abbracci, con cori volgari, ghirlande d'alloro e mazzi di fiori, mentre Tania sventola un album fotografico di scatti imbarazzanti e Valentina piagnucola che la "sua" Nina è cresciuta.
La felicità mi invade come lava incandescente, mi solleva talmente in alto che potrei collassare nel centro dell'aula. Ringrazio la commissione con parole che non acquistano suono e mi lascio trascinare fuori, all'aria aperta, dove l'afa di un luglio secco farà da sfondo ai miei festeggiamenti.
Prima di abbandonare la sede del mio trionfo, mi blocco sulla soglia e per un attimo, un impercettibile istante, un tuffo di vuoto mi attanaglia lo stomaco. Allora mi accuccio a terra, ma non mi è dato riprendere le forze che Yuri mi carica in spalla e corre a perdifiato all'uscita.
«Che razza di bambocci» ride Giacomo con la piccola Diesel in braccio. «Ricorda di non imparare da zia Nina.»
Sarà la prima frase completa che pronuncerà quando acquisterà il dono della parola, a furia di sentirselo ripetere!
I festeggiamenti da Tre Zenit sono un turbinio di emozioni elevate al cielo. Mi sembra di essere salita sul vagone delle montagne russe e di replicare all'infinito quel percorso di sali e scendi a testa in giù.
I miei amici non mi danno un attimo di pace.
«Per te» mi dice Saul. Perfino i più insospettabili cubetti di ghiaccio si sono sciolti davanti al mio trionfo universitario. Mi porge una cartelletta da disegno con un concentrato di emozioni che non gli ho mai visto in viso, con la voce che trema, non più il suono di un robot apatico.
Quando sollevo la copertina, sono io a non saper più parlare come un'umana, a non riuscire a boccheggiare neanche una parola di ringraziamento. Perché nel primo foglio del blocco c'è il mio ritratto. E non è il contorno di un viso con una chioma di capelli rossi e un pugno di bianco al posto della faccia.
«Sono io» mormoro.
Ovvio! Direbbe chiunque. Ma per me e Saul non lo sé: in questo ritratto ho degli occhi verdissimi che spruzzano scintille d'emozione e un sorriso così soddisfatto che è la fotocopia della felicità.
«L'ho fatto oggi, durante la discussione» rivela.
Quando mi sono sentita solo e semplicemente Nina. Finalmente completa.
«Ma che ti importa di queste sciocchezze da artista sociopatico?» si intromette Tania.
Piccolina e con la forza di Maciste, mi ruba la limonata analcolica e mi spintona nell'angolo con il portaombrelli, talmente arricciata al mio braccio che un malpensante la scambierebbe per una molestatrice.
«Dobbiamo parlare di cose serie, Sister» sussurra.
Conoscendo Tania, le sue "cose" serie saranno dominare il mondo o alterare il cocktail di Yuri per mandarlo al creatore. Tania si dimena nel vestitino di lustrini turchesi come la fata madrina di Cenerentola e sembra davvero preoccupata perché mezzanotte sta arrivando, dovrei essere al ballo e invece non mi sono ancora procurata una zucca.
«Non mi darai tregua nemmeno oggi, vero?» le chiedo.
In fondo, in fondo so dove andrà a parare. Insisterà sul fatto che a Cenerentola serva per forza un principe azzurro.
«Bel tenebroso avvistato. In disparte, vicino al poster di Bender e di guardia agli effetti personali che hai sparpagliato in giro» mormora nell'orecchio, nascondendosi la bocca con la mano. «Scricciolo, non volevo dirtelo, ma o ti decidi o questa volta giuro che te le soffio io.»
Rido perché so che Tania non sarebbe mai capace di ferirmi. Fa tenerezza vedere come sfodera il pungolo della gelosia per farmi passare all'azione.
«Non devi più preoccuparti per me» le ricordo.
Non sono io quella che di tanto in tanto si concede qualche goccia di Xanax o una sbronza infelice per resettare i brutti pensieri dalla memoria.
Lei fa spallucce: «Ci sto lavorando, Sister». Giusto quello che volevo sentirmi dire. «Adesso, però muovi questo culetto delizioso verso il bel tenebroso. Dammi del succulento gossip con cui sbevazzare!»
La mia risata, sana e genuina, si confonde con l'ebbrezza dei miei amici, quelli che mia nonna, padrona della brocca di spritz, sta ubriacando, dimostrandosi campionessa mondiale di gare alcoliche.
Nicola è il solo a tenersi lontano da questo cancan di burle, canzoni volgari, ricordi di "Ma quanto Nina sembrava scema quando..." – grazie papà, qualcosa potevi omettere! –. Resta vicino al poster di Futurama, nel punto dove le signorine hanno depositato le borsette.
Il solito malpensante lo scambierebbe per un ladro, visto che occupa la posizione perfetta per far man bassa di portafogli. Ma io so che Nicola sta controllando. Ha racimolato tutti gli averi che ho disseminato per metà Nomi, dalla ghirlanda, ai finti lecca-lecca da addio al nubilato, alle ali da angelo che Tania mi ha regalato per vestirmi in maniera sciocca.
Attratto da un puntino giallo che sbuca dalla tasca del mio cardigan, allunga le dita per indagare.
«Ehi» mi avvicino in fretta e furia e lo interrompo. «Bella festa, vero?»
"Bella festa per una brutta battuta" mi schernisce il grillo. Nicola non è il tipo da alcol e pagliacciate varie. Lui annuisce, dritto e sereno, un bambino che all'improvviso si trova circondato da troppi divertimenti e, preso dall'entusiasmo, si scorda di sorridere.
«Bella discussione» si complimenta.
Io invece ho stampato in viso il sorriso più raggiante della mia esistenza, una luna crescente che si allarga da lato a lato.
«Ho una cosa per te» mi dice Nicola.
Con serenità, perché ormai, negli ultimi mesi, siamo usciti spesso e abbiamo capito che agitarci per una stretta di mano o una frase sopra le righe ci avrebbe mandati entrambi al pronto soccorso. Il bello di stare con Nicola è l'equilibrio, ma quando scatta la scintilla di un sentimento, dell'armonia resta solo lo spettro.
«Non dovevi» lo rimprovero. Ignoro il cuore che protesta, si insuperbisce per quel piccolo cofanetto che Nicola ha sfilato dalla tasca della giacca elegante. «Avevi promesso di non regalarmi niente. Hai solennemente giurato sulla signorina Rottermeier.»
L'infermiera della clinica di Biagio, quella delle pastiglie.
«Sì, e tu sei stata così gentile da gettarle addosso un secchio d'acqua gelata» mi accusa Nicola con un ghigno trattenuto. Non è da lui ridere a crepapelle, né dare di matto. Ma quando un mese fa mi ha vista sgattaiolare dietro l'infermiera e sorprenderla con un secchio di ghiaccio sciolto, il suo urlo di sorpresa ha risvegliato anche i morti della clinica.
«Nel momento in cui sei scappato con me, ti sei reso mio complice» gli faccio notare. «Anzi, hai pure contribuito a portare via Biagio per salvarlo da una ramanzina!»
Sembravamo i tre protagonisti di Heidi: io, nei panni della bambina con le caprette che fanno ciao, ho fatto il danno; Biagio, per l'occasione sulla sedia a rotelle, lo ha immortalato con la macchina fotografia; e Nicola, un Peter più alfabetizzato, ha dovuto salvarci dalla bravata.
«Comunque non è un regalo» mi dice, mentre le mie unghie sciolgono il nastro rosso. «Lo definirei più un riciclo.»
Colgo il senso della sua affermazione solo quando sollevo il coperchio. Un ciondolo a forma di fiore di ciliegio, identico come nei miei ricordi di prima classico, il terzo anno di liceo.
«Ma questo è...»
Il regalo che mi aveva fatto al semaforo, di ritorno da scuola, il gioiello che aveva preannunciato la sua dichiarazione e il mio rifiuto.
«Sei libera di restituirmelo di nuovo» puntualizza. Il mio silenzio lo allarma. Lo capisco nel momento in cui spara a razzo frasi confusionarie: «Lo so che è rischioso e che hai bisogno di tempo, ma in qualche modo devo fare come Lucrezio scrive nel De rerum natura e con saggezza rompere la superstizione e alterare il ricordo di quel giorno».
Rompere la superstizione, alterare il ricordo di quel giorno... Conosco una sola persona capace di infarcire un discorso di tante assurdità filosofeggianti.
«Sei per caso andato a pesca con tuo fratello ieri?»
Non era la risposta che si aspettava. Sperava in un "sono pronta", temeva un "non posso". Invece ho deviato dall'argomento principale, condannandolo ancora al Limbo delle mie incertezze.
«Già» ammette. Deglutisce per nascondere il dispiacere. «Mi ha contagiato, vero?»
Rido di sì e perfino il grillo si diverte nel vederlo a disagio, imbarazzato per essere stato colto con il gatto nel sacco. Al mille per cento l'idea di riciclare il ciondolo appartiene allo scaltro Ivan Ulivieri, il cavaliere che da quando ho aumentato le uscite con Nicola si è subito dichiarato primo sostenitore della possibile coppia.
Guardo il fiore di ciliegio, ora sul palmo della mano, e quella piccola patina d'oro bianco mi infonde una carezza calda sulla pelle.
«È bellissimo» sussurro. Gli occhi di Nicola si dilatano a tal punto che le pagliuzze delle iridi si sgranano e perdono nitidezza. «Me lo metti?»
Prima di dargli le spalle e scostare i capelli ondulati per semplificare l'aggancio, lo vedo mordersi le labbra in un sorriso trattenuto. Quando la collana raffredda il collo e il fiore cade delicato in mezzo al petto, un respiro di soddisfazione mi riempie i polmoni: e mi sembra che quel piccolo bocciolo abbia appena trovato il cuore giusto su cui posarsi.
«Nin!»
La voce di Biagio mi distrae.
«Nin! Veloce! C'è Stefano al telefono! In diretta da Amsterdam.»
Mi scuso con Nicola alzando lievemente le spalle, gli lascio intendere che ci vedremo dopo, che non c'è fretta. E in mezzo a questo uragano di amici mi chiedo quando troverò finalmente un po' di tempo per me.
*
A mezzanotte gli invitati ancora presenti sonnecchiano alticci e deliranti sui divanetti di Tre Zenit, Biagio già tornato a casa con Nicola come autista privato. È l'ultimo rintocco delle dodici e finalmente mi libero della presa di Tania e del pugno di Valentina. Sfilo dalle braccia le ali da angelo del costume e spengo il microfono da karaoke per impedire che enfatizzi il rumore dei miei passi.
Abbandono i tacchi vicino alla testa di Tania, addormentata su Valentina come sul suo materasso personale, e avanzo di soppiatto verso il poster di Bender. Mi accoglie una grande confusione di scialli annodati, borsette mezze aperte e inondate di popcorn, fazzolettini sporchi con i quali dame non troppo aggraziate si sono pulite il naso dal trucco cadente.
Piano, Nina. Non vorrai svegliarli. Adesso è arrivato il momento di sapere, l'attimo di essere di nuovo, ancora per una volta, solo e soltanto voi.
Recupero il cardigan che durante la discussione indossavo per rendere meno lascivo il vestito di pizzo scelto da Tania. È il coprispalle di seta che Nicola stava accarezzando quando l'ho interrotto con il mio arrivo. Lo recupero con dolcezza, come se uno strattone potesse squarciarne la stoffa pregiata. E quando punto il bagno, procedo con le braccia in avanti, quasi stessi sollevando da terra lo strascico di un vestito da sposa.
Non è il cardigan a interessarmi.
È il contenuto del taschino, quel puntino giallo sul quale Nicola, troppo curioso, si è già interrogato.
Ci siamo, io e lui.
Chiudo a chiave la porta del bagno. Ho bisogno di quiete, solitudine, silenzio per non rimescolare i pensieri in quel caos che mi ha scombussolato l'esistenza. Durante la discussione di laurea, ci sono stati due attimi precisi in cui la lingua si è aggrovigliata come una catenina buttata nel portagioie.
Il primo all'inizio del discorso, quando da cinque minuti mi atteggiavo da diva davanti alla commissione. È bastato un minimo suono, l'abbassarsi della maniglia e la porta dell'aula schiusa per rompere il filo della concentrazione. Nel captare il cigolio dell'uscio, il cuore è saltato in gola, ha fatto un triplo salto carpato e mandato in panne il cervello.
Mi sono mangiata le parole, giusto per un secondo, sufficiente perché al posto di una scorrevole lettura in greco mi uscisse di bocca un pastone di suoni disarticolati.
Sono certa che solo Crodelia se ne sia accorta.
Della porta schiusa.
Di quell'ombra proiettata nel corridoio che divideva il mio banco dalla cattedra della commissione.
Di come il corpo abbia tremato, attratto da un richiamo noto.
Di come abbia riconosciuto quella presenza da pochi odori sciolti nell'aria: profumo di sapone di Marsiglia, dopobarba al pino, olezzo di fiori.
Ma sono stata abile, una giocatrice professionista, a rimettermi in carreggiata, a ordinare al cuore di ricomporsi, perché non si ammettevano intromissioni tra me e il raggiungimento dell'obiettivo: il 110 e Lode.
E poi c'è stato il secondo momento, quello che ha confermato la presenza alla porta, smontando la teoria che fosse un'illusione. È successo nell'attimo stesso in cui ho marciato oltre la soglia dell'aula, quando ho sentito quel tuffo di vuoto strozzarmi lo stomaco. Sotto la vista di tutti, incapaci di scorgere quei dettagli per me così evidenti, mi sono inginocchiata a terra e l'ho preso. Quel puntino giallo, il singolo petalo di un girasole.
Il mio fiore preferito.
Il fiore che Marco mi donava per farsi perdonare.
Il fiore che Marco, oggi, ha scelto di non regalarmi.
Anche lui, vedendomi in piedi, trionfante e splendente, ha capito che non siamo pronti. Per troppi anni ci siamo amati e distrutti, al punto che non riusciamo più a respirarci a cuor leggero, a viverci senza crollare all'arrivo di una piccola difficoltà. Sotto i ponti devono scorrere fiumi d'acqua, prima che impareremo a perdonarci il male che ci siamo fatti, ad annullare gli errori commessi, a rivederci e a dirci: ecco, ora sappiamo partire da zero. Faremo altri sbagli, ma siamo grandi e insieme riusciremo a risolverli, accettando noi stessi, accettando il resto del mondo che ci circonda senza odiarlo.
Solo il tempo potrà guarire le nostre bugie, solo la distanza cucire quella ferita causata dalla morte del binomio.
Un giorno Marco sarà un grande medico e avrà una bella casa vista lago, con tante piante e gli infissi bianchi, un padre fiero di lui che lo andrà a trovare a Natale e gli dirà di vivere libero e innamorarsi, ora che è un uomo riuscito.
E io sarò una ricercatrice universitaria. Starò vivendo la mia storia d'amore e vanterò un lavoro da prima donna, stimata dai miei studenti e dai colleghi in facoltà.
Un giorno il rettore dell'Ateneo inviterà per una conferenza quel grande medico, gli farà tenere un discorso lì, nel centro dell'auditorium, dove quella ricercatrice universitaria avrà appena scordato la sua ultima pubblicazione di greco.
Quel giorno, il destino le dirà di tornare indietro, la porterà su quel palco, accanto al grande medico. Così si troveranno nel centro di un vecchio teatro, con gli sguardi smarriti dal fascio accecante delle luci da palco, attorniati dallo sbuffare nervoso di troppi studenti annoiati.
E si stringeranno la mano per presentarsi.
E saranno solo Nina.
E solo Marco.
Senza il peso di un binomio a soffocarli.
E quello sarà un nuovo inizio.
Infilo le dita nel taschino e porto il petalo di girasole alle labbra. Accarezzo in un bacio l'ultimo simbolo che ci lega, perché quel giorno, quello che sto sognando a occhi aperti, non è adesso, è ancora lontano.
Devo solo vivere e respirare, ricordarmi che nella realtà ogni donna è il principe azzurro di sé stessa, non come nelle fiabe che mi racconta Tania tra una sbronza e l'altra. E devo crescere forte e stabile, perché solo quando sarò davvero grande potrò accoglierlo tra le mie braccia senza il rischio di cadere e distruggere tutto ciò che avrò creato.
Nascondo il petalo nelle pagine del dizionario, non ne faccio parola con nessuno, nemmeno con Nicola, lo ferirei. Spesso negli attimi di nostalgia, quando ho bisogno di respirare il profumo del passato, di rivivere i giorni della mia adolescenza, apro il vocabolario, osservo il petalo essiccato e penso a Marco, sparito nel nulla come un banco di nebbia al comparire del primo raggio di sole.
Mi chiedo dove sia, se abbia avuto il coraggio di lasciare Celeste, il suo porto sicuro, l'isola fonte di benessere e tranquillità. E mi chiedo se stia studiando o se sia ancora un inguaribile zuccone che fatica a tenere a mente la più basilare delle nozioni.
Che mi pensa lo so. Allo scoccare di ogni mezzanotte, il cellulare squilla, ma quando rispondo, non trovo voce dall'altro lato della linea, solo il silenzio di un misterioso sconosciuto che però conosco. Sussulta nel sentire il mio "pronto?" e resta ad ascoltare il ritmo del mio respiro. È un ritornello che si ripete per un anno, per due, anche adesso, ma entrambi sappiamo che è ancora troppo presto per pronunciare una parola di scusa.
Non riattacca mai per primo, anzi. Consumiamo più di una notte nel silenzio totale, senza staccare il cellulare dall'orecchio, immaginando i nostri visi, assottigliando l'udito in cerca di un sussurro che non arriva.
Abbiamo spezzato il binomio, ma so che il legame che stringe le nostre anime è troppo forte per essere annientato. Marco sarà sempre la parte migliore e peggiore di me. Un giorno ci riavvicineremo, solidificheremo quell'equilibrio precario sul quale camminiamo, smetteremo di essere due acrobati impacciati, terrorizzati all'idea di cadere. E saremo due persone razionali, capaci di accettarsi con le nostre reciproche storie e le nostre reciproche scelte. Non saremo più un'etichetta con limiti, regole, auto-imposizioni. Diventeremo liberi di essere semplicemente noi.
Ma adesso è ancora presto, e ammetterlo non mi spaventa. Stretta al braccio di Nicola, con addosso il suo profumo, il suo ciondolo attorno al collo, sono felice, lo sarò a lungo, se il cuore lo permetterà, forse sempre. E va bene così.
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