Picasso balla il tango (I)
Primavera / Estate
Una partita non può avere due vincitori, ma in quanto a due sconfitti... nessuno troverebbe niente da ridire. Il 19 marzo, ore 22.00, io e Marco ci incontriamo alle seggioline sul pontile di Viacampo, il luogo prestabilito dalla sfida. Non c'è nulla di sorprendente in questo evento, se non fosse per un dettaglio: siamo di due giorni in anticipo rispetto alla tabella di marcia.
«Io non ho perso» borbotta, sorpreso di avermi trovata nel luogo del delitto.
Un gruppo di turisti tedeschi approfitta del cielo privo di nembi per consumare una grigliata notturna.
«Non c'è nessun regolamento che mi vieta di venire qui» insiste Marco. «È suolo pubblico questo, Nanà. Inutile che mi guardi storto. Chiunque può fare due passi al lago dopocena, no?»
«Due passi a più di trecento chilometri da Bologna?» lo stuzzico con i polmoni ormai colmi di bistecca grigliata e di una risata trattenuta. «Cos'è? Un'improvvisa ondata di siccità ha prosciugato tutti i laghi da Viacampo in giù?»
«D'accordo» sbuffa Marco, deciso a liberare il gatto dal sacco della menzogna. Seduto sulla seggiolina si dimena, scocciato di essere stato scoperto. «Speravo di trovarti qui e a dire il vero lo speravo anche ieri.»
Ha il volto imbronciato per essere stato colto con la mano nel barattolo delle caramelle.
«Ieri?» strillo, un grido acuto che silenzia perfino la combriccola di turisti. «Ma allora tu hai ceduto prima di me e ho vinto io, quindi...»
«Taglia corto, Nanà. Non hai le prove.»
«Guarda che l'hai appena detto tu che eri qui anche ieri!»
Il chiaro di luna illumina la sua linguaccia all'infuori: «Allora me lo rimangio. E mi mangio anche questo bel nasino qui, se non la smette di impicciarsi e fiutare le mie bugie!»
Gioca a rubarmi il naso con la stretta di pollice e indice e io scatto un passo indietro per salvarmi dal furto. Ma Marco è un ladro testardo e mi agguanta con entrambe le braccia per tenermi ferma.
"No, non mangerai il mio bel nasino, sei un orco cattivo". "Ucci ucci, questo bel nasino mangerò e bello sazio io sarò".
Marco sfrutta la bocca e azzanna delicatamente la punta del naso, mi ritrovo con il suo alito da dentifricio in faccia e una scia di saliva appicciata alla pelle.
«Ma dai, sei disgustoso!» protesto, mentre strofino la manica della felpa sul naso per ripulirlo dalla bava.
Non credo che questa settimana ci abbia fatto bene. La lontananza è parsa esageratamente forzata e adesso siamo diventati così smaniosi di ricucire il binomio da aver fatto un balzo a piedi giunti nelle sciocchezze da adolescenti.
«Ci manca solo una gara di capriole sul pontile, una sfida a chi mangi più gelato, una maratona di campanelli suonati dopo mezzanotte e...»
«Entschuldigung!»
E un tedesco che blateri le sue scuse in lingua germanica, pur di cogliere la nostra attenzione. Massiccio, con la barba gialla unticcia di würstel e patatine, sfoggia una reflex da professionista.
«Potere fare clack?» ci chiede. Clack sta per scatto. E potere fare... ah già, una foto al panorama.
«Certo ci leviamo subito!» sorrido. Cerco la manica della felpa di Marco per trascinarlo lontano dal titano germanico, ma l'omone prende a scuotere la testa, al ritmo di...
«Io amare Italia!» canta. «Italia schon persone. Vita, così io clack a voi. Tu mangiare lei, lei ridere e io clack.»
Credo proprio che Thanatos, l'autista della nostra gita in Grecia, abbia deciso di cambiare nazionalità, appreso le basi rudimentali di tedesco e pensato di fonderle al suo strano modo di esprimersi.
«Ma certo che può fare clack!» dice Marco e dà prova di aver colto il succo dell'enigma ancor prima della mia genialità.
Mi ritrovo a divincolarmi nella sua presa, mentre l'alito al dentifricio boccheggia ancora una volta sul naso. E intanto il tedesco ci illumina di scatti e assorda di Danke schon, soddisfatto della missione riuscita.
Cedere qualche nostra fotografia è un piccolo gesto che genera un effetto domino e ben presto io e Marco diventiamo le mascotte della combriccola tedesca.
«E adesso cantare Inno d'Italia» ordina un altro omone.
Balliamo in cerchio attorno al barbecue, come indiani d'America durante un rituale di Toro Seduto, sbocconcelliamo avanzi di carne bruciata e non neghiamo un buon sorso di birra. Per tutto il tempo io e Marco ci teniamo per mano, trascinati dall'euforia germanica, sotto un cielo che si inscurisce di nuvoloni. Quanto a cantare... i tedeschi non sanno le parole e forse per questo uno dei Teutoni intona l'inno a suon di rutti.
«Certo che solo noi potevano raccattare questi pazzi» ride Marco, quando la prima goccia cade dal cielo. I tedeschi la prendono come un segnale per impacchettare i loro averi e correre ai ripari.
«Deve esserci una legge divina per cui pazzi chiamano pazzi» concordo.
I membri del binomio scelgono di non aiutare i loro nuovi amici, ma di svincolare nel mondo del pontile, perché... che saranno mai due goccioline d'acqua dopo l'afa generata da ballo e birra?
«Sdraiati qui, ti prego» mi dice Marco. Indica il centro del pontile, subito dietro le sedie rosse. «Ti giuro che ho mangiato così tanto che sento la cintura scoppiare.»
Mi invita ad accovacciarmi al suo fianco, ma quando mi abbasso per raggiungerlo...
«Ahi!»
«Scusa! Cavolo che testata! Ti ho fatto male, Nanà?»
«Me ne avresti fatto meno, se fossi rimasto fermo dov'eri!»
Mi massaggio la fronte e guadagno un nuovo bacio nel rettangolo sopra gli occhi, quello spazio che è l'unico in tutto il corpo a poter sentire il tocco delle sue labbra, il soffio del suo fiato, ora non più dentifricio alla menta, ma un indistinguibile sapore di birra.
A poco a poco nastri di pioggia colano dal cielo e disegnano puntini sui nostri indumenti asciutti, scariche di freddo che sono una buona scusa per lasciarsi stringere da Marco. Ritrovo il calore che il suo corpo sprigiona e con una morsa al cuore sento di essere tornata nel posto che mi appartiene, il mio personale rifugio dalle intemperie del mondo.
«Vorrei che questa notte fosse eterna» sospiro. «Vorrei non dovere tornare a Nomi, né che tu tornassi a Bologna. Vorrei che ci fosse una magia per restare qui per sempre.»
«Non lo dovresti dire» mi rimprovera Marco, attento a coprire con le braccia il mio stomaco perché la pioggia non lo bagni.
Invece devo.
«Non avrei dovuto inventare questo stupido gioco» insisto. La birra e la bellezza di questa notte hanno disteso le barriere di coraggio che stavo costruendo. «Serviva per imparare a stare lontani, a vivere bene anche da soli, ma adesso che siamo insieme ho capito. Più lunga è l'attesa, più lo sarà la voglia di rivederti.»
«Non dire così» mi prega Marco. «Io all'inizio non lo accettavo questo gioco, però adesso credo tu abbia fatto bene. Sai che per la voglia di vincere sono andato tre giorni di fila in università? E ho anche preso quarantotto fogli di appunti!»
Strizzo gli occhi con tutta la forza che possiedo, le pupille infastidite dalla pioggia che ora scroscia dal cielo, una doccia gratuita per purificarmi dalle parole sbagliate che ho confessato.
«Mi piace la mia università» dice Marco. Il battito del suo cuore testimonia il massimo livello di sincerità. «Voglio dire, all'inizio credevo di farlo per mio padre, poi per Biagio, però adesso, se ci sto concentrato, è roba figa, mica letterine a caso in aramaico, sanscrito o cose così.»
Non lo sta dicendo a una che studia Lettere antiche, vero?
«Scusa che vorrebbe dire letterine a caso in aramaico e sanscrito?» gli chiedo. «Tu staresti per caso prendendo in giro la mia facoltà? Perché se è così...»
Un lampo illumina il cielo e dopo un frangente impercettibile... boom. Il boato del tuono spacca il pianto della pioggia, così impetuoso che perfino i monti di Viacampo sembrano sgretolarsi sotto la sua folgore.
«Dio, se piove, via, via, via!» grida Marco, il cielo illuminato da un nuovo fulmine.
E noi corriamo, mano nella mano, le scarpe che scivolano tra i sassi e quando ci immettiamo nelle vie del centro, galleggiano sull'acqua che sgorga come un fiume davanti alle porte dei negozi.
Io e Marco siamo due scialuppe troppo divertite per preoccuparsi dei fulmini o del rischio di una caviglia slogata. E mentre una tromba di vento si alza dal lago e spacca le plastiche delle luminarie a ridosso degli Hotel, continuiamo la nostra corsa in un coro di risate, fino ai portici del municipio e di un bar chiuso.
«Ma che era?» chiede Marco. «Nanà, ma che ridi? Ti pare il caso? Fa freddo e tu dove hai parcheggiato?»
«Sono in bici!» rido. Tra due giorni è primavera e io volevo rinfrescarmi la mente.
"Che genio, Nanà". "E tu?". "Ovviamente sono in bici, anch'io!".
Fiumi di risate sfuggono alle nostre bocche, mentre i camerieri dell'Hotel di fronte ci guardano oltre la vetrata e sventolano un ombrello in segnale di soccorso. Per raggiungerli dovremmo attraversare la piazza sotto il diluvio.
«Che se lo tengano» dice Marco. Mi invita a sedermi sull'unico gradino asciutto, davanti al municipio. Mi siedo e capisco che è giusto tornare alle nostre vite, mi vergogno di avere ceduto a quell'attimo di debolezza.
«Alzo la posta in gioco» gli dico. Se è servito a Marco per l'università, allora ho fatto la scelta giusta.
«Non siamo resistiti nemmeno una settimana, Nanà. Non dovremo ripartire da lì?»
Per imbatterci in un nuovo fallimento? Con un sospiro adagio la testa nell'incavo del suo collo. Marco sghignazza quando le punte umidicce gli fanno il solletico.
«Se puntassimo a una settimana sola sarebbe un flop» gli spiego. «Io dico che è un ragionamento logico, un po' come a scuola. Al liceo, se miravi a prendere un otto, dovevi studiare per un dieci. Noi puntiamo a due settimane, ma il vero obiettivo è una.»
Marco fa scricchiolare il collo e copre una risata con uno sbadiglio.
«Ho capito. Furba la mia Nanà! Quindi se cedo al settimo giorno e non al quindicesimo significa che non ho perso!»
Cerca di comprendere il gioco per conquistare la medaglia d'oro. È così ossessionato dall'idea di vincere da scordarsi del fattore lontananza.
«No» gli dico. «Quindici giorni sono quindici giorni.»
«Ma Nanà...»
«Se cederemo al settimo, riterrò comunque che saremo stati sufficientemente bravi, ma tu avrai perso. Tutto chiaro, zuccone?»
Bofonchia un sì che sa di "se proprio devo", un gusto amaro che anche il mio palato sta assaggiando. Ma questa pioggia che continua a colare dal cielo non fa che mascherare il nostro binomio dal resto del mondo e vorrei che durasse ancora un po', il tempo giusto per donare un pizzico di zucchero alle papille gustative. Perché tra poco sarà domani e la nuova sfida avrà inizio.
*
Stringo la vittoria tra le dita. Quindici giorni potrebbero sembrare un'eternità, ma so già che voleranno in un batter d'occhio. Tania è determinata a gettarsi il fantasma di Yuri alle spalle ed è indecisa tra due baldi giovani, noti al pubblico delle Suore come Numero 1 e Numero 2.
«Ma non li hanno dei nomi?» indaga Valentina. Io e lei siamo la giuria e dovremo valutare le prodezze dei candidati per stabilire il più meritevole.
«I nomi non son che purissimi accidenti» commenta lei, versando bicchieri di sangria dalla caraffa.
«Perché se un nome piacesse di più, sareste portate a prediligere un candidato senza dare possibilità all'altro» commenta Saul, l'artefice di tale prelibatezza alcolica. Colpevole un'eterna vacanza in Brasile, è diventato un campione a prepararla.
«Il Brasile, chissà che figata» dice Valentina. Io e lei siamo sempre state relegate a Viacampo, Saul e Tania hanno viaggiato per il mondo intero.
«Io non lo chiamerei né vacanza, né figata» dice Saul. «Ci sono dovuto restare tre mesi, quando mio padre ha avuto la geniale idea di farsi fregare da una spogliarellista cubana. Lui l'ha sposata, lei intascato la cittadinanza e poi-»
«E poi ha scoperto che era un trans?» Tania e il fervido gusto per le storie scabrose.
Io e Valentina ci strangoliamo con due bocconi di frutta.
«In realtà lei gli ha prosciugato quel che restava del conto in banca» precisa Saul, come se avesse appena constatato l'ovvio. Il mio viso, per l'occasione, si concede una smorfia confusa, ma Saul, inebriato dall'alcol, non pensa a immortalarlo su una tela.
«Quel che restava del conto in banca?» chiedo, in cerca di una spiegazione.
Saul alza le spalle e mi versa un nuovo bicchiere di sangria. «Beh, certo. Quel che c'era prima l'avevo già prosciugato io.»
Quando credi di esserti portata in casa Van Gogh e poi scopri di convivere con Al Capone! Non voglio sentire altro di questa storia, mi accontento dei diabolici progetti che affollano la mente di Tania e dei suoi "Io e te faremo grandi cose" rivolti a Saul.
A proposito di quest'ultimo, l'università lo ha candidato per un concorso di disegno, visto che è tanto bravo a impastrocciare tutto quello che entra nel suo campo visivo. Un comune mortale avrebbe colto la notizia con molta gioia, ma Saul...
«Se io partecipo, partecipo per vincere e come posso vincere se non riesco a disegnarti? Tu da oggi sei la mia assistente.»
Mi ruba la tracolla e costringe a portare in giro per Nomi i suoi pennelli e le sue tele, gridando di muovermi altrimenti "perderà l'attimo e lo dice anche il titolo del film con Robin Williams che l'attimo è fuggente".
«Perché proprio io?» chiedo a tutti i Santi in Paradiso.
Lo seguo per gli anfratti più sconosciuti di Nomi, finché ripariamo nel quartiere di Sociologia, quello che gli studenti si divertono a occupare con la scusa di una protesta che in realtà si chiama "canna".
«Perché non Tania?»
«Perché non posso dipingere, se non ti conosco. E se non ti dipingo, non vincerò il concorso; quindi, visto che mi fai il torto di essere indisegnabile, ora diventerai la mia ombra.»
Perdo la forza di replicare, agganciata dalla parola magica, ombra, il ricordo di quel disegno sulla parete dell'appartamento, la voglia di correre da Marco, e...
Basta, Nina, tu sei come Saul. Devi vincere.
La sorte, grazie al cielo, ha deciso di sorridermi. Me ne accorgo quando un evento improvviso esce a sorpresa dall'uovo di Pasqua. Ed eccomi, seduta al bar vicino alla stazione, il Picasso, un locale che serve piadine gommose e birre annacquate e dove, sarà per la vicinanza con la polizia, finiscono tutti i delinquenti di Nomi. Perché sono qui? Il primo indizio è la vicinanza con la stazione ferroviaria, il secondo una telefonata arrivata ieri sera:
"Non era in previsione, ma mi hanno chiesto di gestire questa cosa e così ho pensato che potrebbe essere un'occasione e mi sono detto: buttati! Conto sulla tua partecipazione, porta tutti quelli che conosci".
L'orologio del Picasso mi ricorda che da trenta minuti giocherello con l'ombrellino delle arachidi. La radio, con i bocchettoni ossidati dalla ruggine, intona a ripetizione Heroes di David Bowie, una vecchia videocassetta con il nastro che salta quando arriva al primo ritornello.
Just for one d...y, gracchia e io completo i puntini di sospensione con la vocale a, quasi stessi giocando all'impiccato. È in questo istante che la porta si apre e mi permette di intravedere un uomo sulla ventina, con smoking, cravatta e una valigetta d'affari di recente acquisto.
«Mi scusi» mi dice. «Stavo cercando la mia ex.» Senza permesso ruba due arachidi e se le caccia in bocca. «Ha visto per caso una piccoletta rossiccia, con un nasino da bambola e grandi occhioni verdi?»
Avida di cibo, tappo la ciotola di noccioline con il palmo.
«Mi spiace. Un profilo così generico potrebbe adattarsi a milioni di ragazze.»
La risposta lo fa soffocare e allora allenta di un soffio il nodo alla cravatta, un centimetro sufficiente per farmi capire che non gli piace la divisa che deve indossare.
«Cercherò di essere maggiormente preciso» dice l'uomo. «Ha sempre un paio di All Star ai piedi e passa il novanta percento del tempo a trascinarsi dietro un pagliaccio biondo e un po' zuccone.»
«Un profilo più preciso» mi compiaccio. «Mi sa proprio che potrei averla avvistata da queste parti, anche se Lei, Signore, è in ritardo.»
Alla fine Stefano ride e rompe il nostro gioco, proprio quando la canzone di David Bowie ha lanciato il primo ritornello, quello con il buco nel nastro.
We can be Heroes, just for one d...y!
«Ti trovo bene» mi dice. Studia l'orologio e, quando si accorge di non essere troppo in ritardo, ordina una birra media. «Anche se a quanto vedo le All Star hanno lasciato il posto a dell'altro.»
Tania non mi lascerebbe mai uscire con un paio di scarpe da ginnastica, non quando mi ha regalato delle costosissime Louboutin.
Ci salutiamo con due baci sulla guancia.
«Ti trovo bene anch'io.»
Stefano tracanna mezza birra in un sorso, assettato per quel viaggio in treno che lo ha portato a Nomi, un posto troppo piccolo per la sua mania di grandezza, ma il centro di volontariato per cui lavora gli ha proposto di tenere una conferenza contro il nucleare e lui...
Non ho potuto dire di no.
«Sai com'è, Nin. Di recente le cose vanno alla grande. Penso che sia perché ho chiuso l'amore nel cassetto e sciolto l'incantesimo di una certa strega.»
«E siamo sicuri che una nuova fattucchiera non ti abbia incastrato?» gli domando.
«Ho solo Amnesty International nella mia vita, Nin.» I suoi gatti o l'associazione per i diritti umani? «E comunque mi farai fare tardi con i tuoi pettegolezzi. Yuri è già qui?»
Non ne ho la minima idea.
«Doveva essere qui mezz'ora fa, ma non se n'è vista l'ombra» gli dico, una notizia che non rallegra Stefano. L'unico rasta, legato in un corto codino assieme a mille ricci, si dimena infastidito.
«Pietro e l'Astratta ci aspettano in biblioteca» mi informa. Ha davvero chiamato tutti i vecchi amici a rapporto. «Quella vecchia megera di Anatolia mi ha mandato a fanculo, senza nemmeno spiegarmi.»
Credo di sapere perché, anche se il povero Stefano non dovrebbe condividere le mie colpe, né tantomeno quelle di Nicola.
«E Yuri probabilmente avrà perso il treno per rimorchiare qualche studentessa in gonnella» tiro a indovinare.
Ci incamminiamo verso la sala conferenze, con i minuti contati e le Louboutin che mi fanno rimpiangere le All Star del passato. Stefano nutre un principio di panico: non ha mai parlato davanti a un grande pubblico e il fatto che i suoi migliori amici gli stanno dando buca gli fa ribollire il sangue di rabbia.
«Sarebbe indelicato chiederti di Marco, vero?» azzarda.
Ancora due gradini di pietra e avremo raggiunto la sala, giusto in tempo per preparare il materiale da proiettare.
«Stiamo facendo un gioco, io e lui. Chiedergli di partecipare sarebbe stato come dichiarare la mia sconfitta.»
Ci fermiamo dietro il sipario che ci nasconde dagli occhi dei primi spettatori. Stefano aspetta a muovere il pomolo di tessuto dorato. Quando gli sintetizzo in due parole il nostro gioco, rimane imbambolato.
«Avanti, ammetti che ti sembra una grande stronzata» gli dico.
«Non so. Non credo funzionerà. La storia insegna che imporre un qualcosa spinge il genere umano a compiere l'esatto contrario.»
Deve essere l'incarnazione di un monaco tibetano, considerate le perle di saggezza che elargisce. E in effetti ha perfettamente sintetizzato la paura che ho provato sul pontile: più io e Marco stiamo lontani, più il desiderio di rivederci ci scuoia vivi.
«Comunque Yuri non si vede e nemmeno Valentina.» Stefano ha tirato la tenda e sta studiando le cinque persone presenti in aula. «Non avevi detto che sarebbe venuta con la vostra coinquilina?»
Con la mia coinquilina e le mie due compagne di università. Ma mentre Emina e Lisa troneggiano in prima fila, di Valentina e Tania dovrei diffondere una foto da ricercate.
«Io vado a prepararmi» mi saluta Stefano, un nuovo bacio sulla guancia. E io a salutare Pietro, straordinariamente dimagrito da quando ha iniziato a lavorare nel ristorante di suo padre. Resto al suo fianco, mentre l'aula si affolla, la conferenza inizia e Stefano sputa nel microfono tutta la passione per la causa.
«Come rivelato da uno studio di Greenpeace, il nucleare è una falsa soluzione nei termini di occupazione e miglioramento della condizione climatica. Il grafico alle mie spalle...»
Sono una pessima amica, perché le orecchie si rifiutano di ascoltare, gli occhi troppo concentrati a setacciare la ragazza vicina a Pietro: in tiro, con una minigonna microscopica e un tacco vertiginoso, i capelli biondi perfettamente lisci e tagliati a caschetto.
«Scusa, ma io ti ho già vista, vero?» le chiedo.
«Camilla Serafini» si presenta lei. Fa sì con la testa, come a dire che ci conosciamo. «Ai tempi del liceo mi facevo chiamare l'Astratta.»
Una scossa di stupore mi attraversa: se fossimo nel gioco enigmistico del "trova le differenze, prima e dopo", non basterebbero venti quaderni per completare l'elenco.
«Al contrario l'impiego di energie rinnovabili...» continua a dire Stefano. Si guadagna perfino qualche applauso e due domande intelligenti, mentre io resto intontita a studiare le super gambe dell'Astratta.
«Avevo una cotta colossale per Stefano» sussurra lei. Pietro, con la muscolatura da giocatore di wrestling, ci prega di non disturbare, ma io sono curiosa e Camilla Serafini vuole liberarsi dei panni dell'Astratta. «Mi illudevo che se avessi seguito la strada del suo pensiero politico, anche esteticamente, lo avrei avuto ai miei piedi.»
Capisco le nobili intenzioni, ma come può una donna sedurre un uomo indossando un sacco di patate per pantaloni e volendo imitare l'acconciatura di uno spaventapasseri?
«Assurdo, lo so» ammette Camilla. «L'ho capito quando lui si è innamorato di una smorfiosetta carina, ben vestita e senza troppi ideali.»
L'Astretta potrà avere acceso un rogo con i suoi vecchi vestiti, ma non ha certo perso la sua lingua biforcuta e schietta.
«Ho buttato davvero troppi anni di vita per quello» mi dice.
Il "Quello" in questione termina la conferenza con un concerto di applausi; Emina e Lisa hanno quasi fatto la ola quando nel mezzo del discorso ha deciso di togliersi la giacca per essere più libero di muoversi.
«Inizio a pensare che tu abbia seguito l'esempio di Dorian Gray e venduto l'anima al diavolo, Adami» mi sgrida Lisa, da sempre amante degli uomini selvaggi.
«Non il mio tipo» commenta Emina. «Ma concordo sulla teoria del diavolo.»
Si volatizzano nel nulla quando Stefano mi raggiunge, allarmato perché Yuri non si è fatto vedere, non ha risposto alle telefonate di Pietro e non ha avvisato della sua assenza.
«Inizio a pensare che gli sia successo qualcosa» dice Stefano. «Hai presente quando nelle orecchie ti ronza la mosca del brutto presentimento?»
«E adesso la senti ronzare, vero?»
«Non una mosca, un intero sciame.»
Avrei dovuto conoscere la risposta meglio di lui, perché oltre a Yuri ci sono altre due grandi assenti alla conferenza contro il nucleare: Valentina e Tania.
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