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Peter Pan (III)


Dopo il primo esame della sessione, Dio continua a impallinare barattoli di occasioni d'oro. Navigo sull'onda a mille, accompagnata da un intruglio di energia che non mi dà tregua nemmeno quando dovrei dormire. Se a qualcuno fosse mai capitato di tracannare un bicchiere di Red Bull, caffè e Coca Cola, potrebbe intuire il mio stato.

Tania mi accusa di avere rubato la super pozione ad Asterix e Obelix e di essermi trasformata in un Gallo con baffi rossi, elmetto in testa e la forza di Golia.

«Mi stai dicendo che sto ingrassando?» la sgrido. Lei fa spallucce:

«Con quello che ti mangi, bidone!»

Colpa di Marco la Badante Personale.

Mi prepara il pranzo, lava i piatti, si assicura che ingurgiti un boccone di pane o un dolce ogni ora. E quando Tania si avvicina con un bicchiere d'acqua, lo punta e lo getta per precauzione nel lavandino.

«Tossica.» Insulto con cui Marco, in perfetto accordo con Saul, si diverte a criticare Tania. «Chissà quale acido potrebbe averci sciolto dentro?»

E io sento falene volteggiare nello stomaco in spirali di colpa. Tania è un cuore più grande del cinismo che finge e vorrei che Marco smettesse di odiarla solo perché...

«Si è approfittata di un periodo nero per drogarti. Ti ha introdotta nel mondo della dipendenza da alprazolam senza una visita, senza una ricetta medica, senza passarti il foglio delle controindicazioni!»

Tania mima con le labbra di lasciar perdere, ma vorrei proprio che quei due iniziassero a sopportarsi. L'ostacolo principale resta l'ostilità di Marco, il fatto che continui ad aprire fuoco, non appena Tania entri nel suo radar:

«Quella scapestrata non è dotata di un minimo di buon senso!»

Parla proprio lui! Primo esame a metà febbraio, l'unico che proverà in questo trimestre, e passa più tempo a sfornellare che a evidenziare il manuale.

L'università per Marco è iniziata con una battuta d'arresto. È un corridore che non ha sentito l'inizio della gara ed è rimasto appisolato in un frangente cristallizzato, immobile dietro quell'albero fuori da Lettere, a cercarmi. E io mi dico debole, ma a quello sparo di pistola le gambe hanno risposto. Sono fiera dei miei successi. Da quell'esame a gennaio colleziono altri due Trenta e Lode, e se passerò con dignità il prossimo...

«Io non credevo di sapere essere invidiosa» sbotta Emina in uno dei nostri incontri a Tre Zenit. «Non pensavo fosse nella mia indole, ma quando mi accorgo che ho dovuto mendicare un Diciotto da Crodelia...»

«E che con il prossimo esame tu avrai ottenuto i tuoi sessanta crediti» continua per lei Lisa.

«Dio è stato proprio ingiusto quando ha distribuito l'intelligenza» sentenzia Emina.

Dovrei minimizzare, ma l'evidenza è talmente schiacciante che zittisco la falsa modestia con un sorso di spritz. Hanno ragione loro, ancora un esame e sarò a sessanta crediti, il punteggio necessario per superare il primo anno di università.

«Non sei una secchiona» commenta Tania. Gli abitanti di via delle Suore Orsoline si schiacciano davanti al pc di Saul, partita di gruppo a Piante contro Zombie. «Sei solo svampita o forse alle elementari non ti hanno insegnato a contare i mesi.»

Muro a tubero piazzato per salvare un girasole dall'ultima orda di zombie, inizia a scoppiare bombe-ciliegia per vincere la partita.

«Tania, senza offesa, sicura che gli Zombie non siano arrivati al tuo di cervello?» le domando.

Lei, occhi indemoniati dalla competizione, neutralizza l'ultimo zombie con scariche di mais.

«No» sbotta. Scritta win e coriandoli nello schermo del pc. «Sto dicendo che devi avere confuso il mese di giugno con quello di gennaio. Se finisci il primo anno a metà febbraio, che pensi di fare poi?»

Gli esami del secondo, ovviamente, da non frequentante! Crodelia mi ha già consegnato i programmi da studiare.

«Ehi, Psyduck!» Insulto che Marco ha rubato a Valentina. «Guarda che Nanà, a differenza tua, ha un cervello funzionante!»

Il diverbio si protrae fino alla cena del giorno dopo, quando lo schieramento Marco e lo schieramento Tania si trovano in campo aperto per una guerra con il cibo, lo stesso che ho cucinato con tanto amore e che con tanto olio di gomito dovrò rimuovere dalle piastrelle.

Potrei chiedere il sostegno di Saul o Valentina e interrompere il lancio di una coppa di spaghetti allo scoglio. Ma Valentina mi evita da quando sa che ho letto le conversazioni in Messenger; e Saul ritiene queste lotte di cibo un'interessante accozzaglia di colori ed espressioni, una Musa corale per ispirare i suoi prossimi lavori.

Nelle sere in cui il fantasma del litigio si intrufola nei corpi dei miei coinquilini e della Quinta Suora, non consulto le Pagine Bianche in cerca di un esorcista e mi rinchiudo invece nel locale lavanderia, un piccolo ripostiglio fuori dalle mura dell'appartamento.

Ovviamente studio, sono una persona prevedibile, e anche bizzarra, perché il rumore di lavatrice e centrifuga mi culla in un'onda di relax.

Nei momenti di stanchezza, fisso il libretto blu con lo stemma dell'Università di Nomi. Quei voti, scritti a penna e vergati in bella calligrafia, sono la molla che dà l'impennata alla voglia di studiare. È l'università la super pozione che ho rubato ad Asterix e Obelix. Altro che Red Bull, caffè e Coca Cola!

«Non ti scoccia passare poco tempo insieme?» mi chiede Marco una sera di inizio febbraio.

Siamo arrotolati sul divano, dopo che lui è venuto a "salvarmi dal drago della lavatrice". Un grande abbraccio ci unisce, annoda i corpi in un groviglio che renderebbe difficile distinguere una sua mano da una mia.

Il dopocena è l'unico ritaglio di pace davvero nostro e siamo due orologi svizzeri nel proteggerne ogni secondo.

Tengo la punta del nasò all'insù, direzione soffitto. Piccolo segreto per mantenere il titolo di studentessa dell'anno: ci ho incollato un grande cartellone bianco con le date di storia romana per l'ultimo esame. Non posso permettere che Marco mi scopra e allora gioco ad accarezzargli il viso, ogni volta che sospetto un movimento verso l'alto.

«Sì, passiamo davvero troppo poco tempo insieme» ride lui, divertito dall'ennesima carezza che gli solletica gli zigomi.

«Come fai a dirlo?» replico. «Gli unici istanti in cui non siamo fianco a fianco sono le pause in bagno...»

«E le tue fughe in lavanderia.»

«Siamo insieme proprio come un tempo, sciocco!»

Nego fino all'ultimo, consapevole che una linea di differenze taglia di netto il mondo del passato da quello del presente.

Io e Marco non saremo mai più i due adolescenti che sabotavano l'intera Viacampo, pur di restare incollati nella gioia e nel dolore.

Io e Marco siamo due rami di giunco, sferzati dall'incedere della tempesta. I venti ci hanno piegati, senza riuscire però a recidere i nostri steli dalle radici immerse nella palude.

"Nessuno spezzerà mai il binomio" diceva Marco in quarta ginnasio.

"Nessuno ci dividerà mai del tutto" dico io, adesso.

Ma so benissimo che la tempesta, pur non avendoci spezzati, ha plasmato i nostri steli in una curva verso terra, e nessun fiotto di vento sarà mai tanto forte da raddrizzarci nell'ingenuità di un tempo.

«Non siamo insieme proprio come una volta» insiste Marco. «I momenti solo per noi due sono sempre meno. O devi studiare o Tania si intromette o mi ritrovo Saul a uno sputo dal naso perché deve ascoltare il richiamo della Musa e disegnarmi.»

Mi tiro seduta, perché è come se si fosse rivestito la mano di un guanto di piombo e mi avesse tirato uno schiaffo in faccia.

«Hai accettato delle condizioni per restare qui.»

Il permesso di Tania, l'obbligo di farmi studiare, l'accordo di uscire con Lisa ed Emina. Mi sta rinfacciando l'amore per i libri o le mie amicizie?

Marco si sfila il guanto di piombo e lo sostituisce con uno di seta:

«E non mi pento di averle accettare.»

Mi accarezza il viso e quel tocco mi riscalda la pelle, affievolisce il dolore dello schiaffo appena ricevuto. Restiamo a fissarci, imprigionati nella trappola del tempo, quella gabbia in cui un'ora potrebbe essere un secondo e un secondo un millennio.

So di pretendere un enorme sforzo da parte sua, ma il cuore macera una convinzione: me lo deve.

Ho passato anni ad accettare le condizioni di Marco e a rimpicciolire le mie esigenze. Adesso non voglio più cedere. Se una storia è composta da compromessi, spetta a lui adattarsi ai miei sogni e alle mie amicizie, comprese quelle che ritiene un Mammut di calcestruzzo impossibile da digerire. Non riesco a pensarci lontani. Un filo di metallo continua a legarci e nessuna motosega, circolare o accetta riesce a scalfirlo, a staccare una minima scheggia di ferro.

Ma dopo quella notte, alla Scalinata del Re, nel mio corpo è nata una seconda Nina che sente il bisogno di brillare di luce propria, di smetterla di sentirsi una sfera luminosa, solo quando Marco le concede un raggio del suo sole.

Sono rinata come un diamante che irradia cerchi di brillantezza. E mi sembra di avvolgermi di un bagliore potente quanto il fascio emanato da un faro. Chiunque, anche a distanza di chilometri, è costretto a vedermi e a giungere a una conclusione: mi piace questa nuova vita.

Vorrei che Marco la rispettasse, che trovasse la forza di muovere un passo indietro, di non volere essere a tutti i costi il centro del mio universo, ma che sapesse retrocedere in uno stato di quieta penombra.

Vorrei che in quel triangolo più scuro trascinasse anche il binomio. Vorrei che entrambi restassero a coprirmi le spalle, che non mi abbandonassero, perché restano la fonte principale del mio splendore. Ma al tempo stesso, vorrei che mi permettessero di diventare il sole, non un piccolo pianeta che si accontenta di ruotare intorno.

«Manca solo una settimana al mio unico esame» mi ricorda Marco. Rompe il contatto visivo, stacca la mano dalla guancia.

«E non hai aperto un libro» concludo per lui.

L'idea che adesso sia lui a piegare la sua vita alla mia è un sorso d'acqua fresca dopo una corsa a perdifiato.

Con Marco ho sempre avuto la sensazione di restare indietro, di essere l'elemento trainato da un gancio fortissimo, che lui fosse l'infinito e io una minima particella di niente, che lui rappresentasse la straordinarietà e io l'ordinario.

«Dannato esame» sbotta. «Non potrò più restare qui con te.»

E allora capisco che Marco non sa di essere nella penombra, perché ai suoi occhi io e lui continuiamo a essere un unico cerchio, indivisibile. Non percepisce la mia luce, non percepisce la sua ombra. Percepisce solo che, quando siamo insieme, stiamo bene; quando siamo lontani, soffriamo.

E ha paura.

«Che farai, Nina? Insomma, ti svagherai con Psyduck e Valentina, oppure...»

Oppure crollerò?

«So che non è la vita che ti ho promesso» mi dice. «Ti ricordi quando progettavamo di andare a vivere insieme? Io volevo farti felice, assicurarmi che trovassi ogni giorno il più bello possibile e poi sorprenderti e dimostrati che quello successivo, se mi avessi avuto al tuo fianco, sarebbe stato migliore.»

Su quella parete che ci guarda, dietro alla televisione e sotto l'orologio a forma di tacchino, avresti voluto dipingere la nostra storia.

«Sono cambiate tante cose, Marco» lo rassicuro, ma la tranquillità della voce lo spiazza. «Io credo che non dovremmo preoccuparci del passato o del futuro. Non lo so che forma abbia acquisito adesso il binomio. Mi riesce difficile dargli un nome o provare a definirci con un'etichetta. La verità è che non mi importa.»

Marco raggela, equivoca. Non intendo "Non mi importa di noi".

«Voglio dire» provo a spiegare. «Se siamo più grandi del mondo stesso...» Come abbiamo sempre detto. «Se abbiamo un posto dove tornare...» Le seggioline rosse a Viacampo. «Se so che ci aspetteremo a vicenda e non smetteremo di volerci...» Sappiamo entrambi che è così. «Che male possono farci due settimane o un mese di lontananza?»

Io resto tua e tu resti mio. Al di là delle altre storie e della carriera e delle amicizie stonate, noi costituiamo il filo rosso che dà senso alle nostre esistenze.

"Insieme per sempre" era la frase conclusiva di un "romanzo della perfezione", ma quel libro era una storia d'utopia. "Insieme nonostante tutto". Non suona più vero come finale?

«Mi sto perdendo» ammette Marco, in fase di panico.

«Non fa niente.»

Gli stampo un bacio sulla guancia e resto acciambellata contro il suo petto. A volte tra me e Marco si crea un muro di parole e sembra che non riusciamo a capirci. So però che dove le parole falliscono, un gesto può fare chiarezza.

«Aiutami a spostare il cassettone» gli dico.

«Nanà, ma che dici?»

«Il cassettone della televisione, lo spostiamo, non mi sembra difficile da capire.» Sono già in piedi, piegata a metà per far strusciare il mobiletto nel centro del salotto. «Che aspetti? Lasci fare tutto il lavoro duro a me?»

Si decide, con un borbottio confuso. E adesso che il mobiletto è nel centro del salotto, mi fissa a braccia incrociate.

«Via l'orologio» ordino. Lui esegue, io sposto la Gamba. «E via il poster della Coca Cola e il cartello stradale di divieto di sosta.»

«Nanà, mi spieghi...»

«Shhh!» Zitto! Resta solo un "corpo" da spostare per disegnare il mio ideale perfetto di salotto: Marco.

Assicuro le mie mani nelle sue e lo invito a scavalcare quel labirinto di mobili, ad avvicinarsi alla parete che ho appena liberato da ogni intralcio. Lo posiziono all'estremità est del muro, vicino all'arco d'ingresso.

«Mettiti dritto» comando. «Tieni il mento alto. La spalla contro la parete, testa contro il muro.»

«Posso respirare, Nanà?» sghignazza, mentre pasticcio a sistemare il suo corpo in una posa degna di una fototessera per la carta d'identità.

«Ovviamente no. Rovini tutta la mia faticaccia. Adesso il braccio un po' spostato, come se stessi accarezzando la parete.»

«Ma perché dovrei accarezzare una parete, Nanà?»

«Fermo, zitto e non ridere. Io torno subito.»

Dalla camera di Saul, assente per una mostra, ascolto un coro di "Dove sei?", "Che fai?", "Davvero non mi posso muovere?". Annego una risata, quando lo sento sbattere contro la parete.

Marco non sa stare zitto e fermo. E con il groviglio di arnesi custodito nel cassetto di Saul non so mantenere la promessa del mio "torno subito".

«Nanà? Perché hai in mano un indelebile?»

Riaffioro dalla camera con un pennarello stappato. Annuso l'odore di inchiostro, un profumo allettante quanto l'acetone e la benzina, e mi piazzo davanti a lui.

«È molto semplice» gli spiego.

«A me non sembra semplice per niente, Nanà.»

Azzarda un sorriso preoccupato perché... Vuoi mettere un marchio in indelebile su quella felpa costosissima da studente di medicina? Ma la felpa non è l'obiettivo e Marco lo capisce quando il pennarello gli sfiora il gomito per catturare la sua sagoma e riprodurla sul muro.

«Vedi, Marco, tu sei come un'ombra.»

Necessario e onnipresente.

«È naturale che ognuno di noi abbia la propria ombra» spiego, il pennarello ad altezza testa. «Un'ombra è un qualcosa di legato alla nostra persona, è una conseguenza della luce. E come la luce esiste, esiste anche l'ombra di ogni persona.»

E adesso scendo all'orecchio sinistro e giù, curva del collo. Marco, così preso a cercare un senso nel mio discorso contorto, smette di irrigidirsi.

«Quando siamo insieme, ho l'impressione che la tua ombra sia allacciata alla mia e che non fuggirà mai» provo a spiegare. Mi riabbasso nel mio metro e sessanta, per disegnare il braccio sinistro. «Mi convinco che anche se sarai distante, le nostre ombre sapranno deformarsi e restare unite, perché sono snodabili.»

A differenza nostra.

«Ma quando sarai lontano, la tua ombra diventerà per me l'ombra di Peter Pan e sarà sfuggente, impossibile da acciuffare» confesso. Mi ci vedo, a saltare in questa stanza contro gli angoli dei muri per catturarla, a strillarle di scendere dal soffitto, perché ho perso la scala per raggiungerla e non voglio restare da sola. «E mi dannerò l'anima nel tentativo di intrappolarla e tenere almeno una piccola parte legata a me.»

Inginocchiata sposto la stoffa dei pantaloni per non macchiarli di inchiostro e procedo in direzione calzini. Dico di voler stare sotto i riflettori, a prendermi la luce, ma nemmeno io so che accadrà quando il giorno dell'esame mi staccherà da Marco.

E mi rincuora sapere che una parte di lui resterà a popolare l'appartamento delle Suore.

«E quindi?» mi chiede.

«Quindi adesso ti ho rubato l'ombra e l'ho incatenata su questa parete, così non mi potrà più sfuggire.»

Marco si scrolla le spalle.

«In realtà stai segnando il mio contorno» mi contraddice, rubandomi il pennarello e sniffandolo.

«Ma scusa, un tempo eri così bravo a immaginare. Com'è che adesso non riesci a capire?»

Marco inizia a ripassare la linea tremolante dipinta dalla mia mano, le dona una maggiore precisione, quasi quell'ombra avesse dei lineamenti scolpiti nel bronzo.

«Mah» commenta, concentrato nel migliorare il suo contorno. «Non so, se ricordo bene, Peter Pan non era felice di vivere senza la sua ombra e tu me l'hai appena rubata.»

Ci rinuncio e mi getto sul divano.

«Dico solo che è ingiusto!» sbotta Marco. Sarebbe giusto spaccargli una padella in testa. Volevo sdrammatizzare e creare un nuovo istante per noi, marchiare anche questo appartamento della sua presenza. «Io con te ci perdo sempre, Nanà.»

Mi arpiona e mi tira contro il suo petto, le mani sulle cosce, le mie gambe, per istinto, avvinghiate ai suoi fianchi, le braccia allacciate al collo.

«Se tu hai la mia ombra, esigo di imprigionare anche la tua!» ride e mi riadagia all'estremità opposta del muro, il lato destro. Lontani, come lo saremo nella vita normale, ma del resto il potere delle ombre è o non è quello di superare anche le distanze?

Così, mentre tengo la testa schiacciata contro il muro, vedo Marco allungare le dita della mia mano, trasformarle in una grandissima fune che attraversa la parete intera e si riconnette alle dita dell'altra sagoma: la sua.

«Sei in trappola, Marco! D'ora in poi ti afferrerò ogni volta che proverai a sfuggirmi.»

Non vuol dire niente possedere un'ombra. Vuol dire ancora meno possedere il tentativo di imprigionarla su una parete bianca. Eppure, mi sembra di stringere tra le dita il tesoro di un faraone o un elisir per l'immortalità.

«Che sciocchezze, Nanà.» Ci sediamo a gambe incrociate a contemplare il risultato, la mia testa che crolla per abitudine nell'incavo della sua spalla. «Non ti serve prendere in ostaggio la mia ombra per afferrarmi, ti basta chiamare.»

Sarà difficile, lo sappiamo entrambi.

«Potrei chiamarti nel mezzo dell'esame, per suggerirti. Chissà? Avresti una possibilità di passarlo!»

«Nanà! Sei malvagia!»

Finisce così questa serata, con una nuova gara di dispetti, con Saul che rientra e stizzito ci etichetta come "profani dell'arte, eretici", con la proprietaria del piano di sotto che sbatte il manico di scopa sul soffitto.

"È tardi, silenzio!"

E a questo punto è meglio dormire.


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