E poi c'è Belzebù (I)
Da quando ho scoperto il segreto di Tania, imparo a convivere con la mia nuova malattia. Non posso parlare di una guarigione improvvisa, non sono un Lazzaro salvato da un miracolo divino, né l'emblema della salute. Condividere il mio dolore con Tania mi trasforma però in un'abile fattucchiera, capace di nascondere il proprio malessere. Quello del corpo con il trucco, quello dell'anima con lo Xanax.
«Buongiorno, compagna di droghe!» recita Tania tutte le mattine.
Io faccio il caffè, lei sonda il mio umore, se dovrà versarmi venti gocce per allontanare i fantasmi. Valentina minaccia di piegare il cucchiaio con la forza di un pugno e di incenerire i cereali con lo sguardo:
«Che cos'è quella cosa che vi bevete? Nina, se stai facendo uso di droghe, sarà meglio che tu retroceda all'alcol. Non puoi essere così stupida da drogarti, solo per divertirti più del solito!»
«Tranquilla, Vale. Non mi drogo.»
Di questi tempi è troppo presa a odiare Tania, per notare il mio crollo: le ore che trascorriamo in bagno per truccarci, le gocce che condividiamo, quegli sguardi che ci scambiamo quando ci sentiamo cadere.
«Sister, che facciamo stasera?»
Il fatto che Tania abbia iniziato a chiamarmi Sister e non solamente "scricciolo" è stato per Valentina la goccia di Xanax che ha fatto traboccare la bottiglietta piena.
«Ubriacatevi, drogatevi pure, fate tutta la vita dissoluta che vi pare e vi piace. Tanto io, Valentina Santoni, sto accumulando progressi in campo amoroso. Oh, Nina. Non guardarmi così. Se mi lasciassi parlare, invece che trascorrere il tuo tempo ad allenare Psyduck, sapresti che non mento!»
Posso avere tutti i problemi del mondo, ma la malattia che mi blocca non è riuscita a farmi diventare cieca. Su Valentina ne so più che un nerd su Guerre Stellari. E se per progressi intende aver tolto ogni nome dalla lista, eccetto quello di Yuri, siamo messe davvero male.
«Bevi, compagna.» Anche questa mattina Tania mi allunga il bicchiere dalle venti gocce. Ecco, sto pensando di nuovo al binomio, smaniando di tornare in camera e di morire sul diario dell'Irlanda. «Basta pensarci e bevi subito. Ci vuole un po', prima che faccia effetto.»
Trangugio il bicchierino in un sorso, ma la mente è ancora dal diario. E vorrei sdraiarmi a letto e tenerlo sotto la guancia, nella speranza che per un principio di osmosi io venga assorbita dall'inchiostro delle pagine e catapultata indietro nel tempo. La possibilità di rivivere tutto da capo, di evitare i soliti vecchi errori, di non fare l'amore con Marco.
Lo sapevo, sapevamo entrambi, che ammettere di amarci ci avrebbe distrutti.
«Non posso avere dose doppia, immagino» dico a Tania.
Lei nasconde la bottiglietta manco fosse l'elisir di lunga vita.
«Non ci provare. È già tanto se te ne concedo una.»
Ha ragione Valentina. Non dovrei assumere un farmaco, prima di aver fatto una visita medica. È che non riesco ad andare avanti. Sono in una situazione di stallo, una terra di mezzo fatta di Ricordi-Incubi e Desideri-Fantasma, in cui lo Xanax è il principe eroe, colui che salva la fanciulla in difficoltà.
E so come risolvere la situazione. Mi basterebbe prendere il cellulare e digitare quel numero che conosco a memoria. Pregarlo e supplicarlo di vederci.
«Perché non lo chiami?» mi chiede Tania una sera. Siamo a un raduno di "classiciste" da Tre Zenit. Locale aperto solo per noi, partita di dama a coppie, un barattolo di Nutella e un pacchetto di grissini.
«Già» sottoscrive Emina. Poco sanno loro due e Lisa di questa storia. Credono sia solo amore.
«Perché ho paura del dopo» ammetto. Mangio una pedina, mentre Lisa, in coppia con me, mi tira una pacca da maschiaccio sulla schiena. «Ho paura di che cosa dirà o farà, quando sentirà la mia voce. Ho paura che non ne voglia sapere più niente, oppure che equivochi. Che pensi che voglia di nuovo una storia d'amore.»
Ora è Lisa, colei che pensa solo a mangiare e a scrivere poesie macabre, a sconvolgersi.
«Scusami, ma l'obiettivo non è farvi tornare insieme? Non è quello che vuoi?»
Fosse così semplice. Sospiro, mentre sbaraglio definitivamente la concorrenza. Ho vinto, ma le mie colleghe sono così incuriosite dalla storia con Marco da non accorgersene.
«No, certo che non voglio di nuovo una storia d'amore.» La nostra storia d'amore è stata il cavallo di Troia che ci ha ridotti in cenere. «Io rivoglio quello che avevamo prima.» E che non so spiegare. «E la paura più grande che ho è di provare e riprovare ad averlo, ma essere condannata a fallire. Ho paura di scoprire che siamo giunti al capolinea e non ci sono più treni in partenza, disposti a riunirci.»
Lisa scuote la testa, i capelli cenere, sempre spettinati, che mi volano sulla punta del naso.
«Credo di essere confusa» ammette.
«Io lo sono per certo» conferma Emina. E ora pure Tania sospira, sigaretta nelle dita chiuse a forbice:
«Non mi riesce di fare l'alternativa e dissentire, ragazze. Se parli così, Sister, non ci cavo un ragno dal buco».
Con il piede tira un colpo alle pedine. Si è accorta di aver perso, ma preferisce far finta di niente e nascondere la sconfitta con la mia storia:
«Se non è per tornare insieme, che cosa vuoi da lui?»
Le mie colleghe si trovano tutte e tre sintonizzate sullo stesso canale di domanda. E la mia risposta le incuriosisce, al punto che Emina smette di pulire il pavimento di Tre Zenit dalle tessere di dama, Lisa di leccare la Nutella da un grissino.
E io non so che dire, da che parte della storia iniziare a raccontare perché capiscano il sentimento che mi lega a Marco. Sarebbe più facile convincere Lisa a rinunciare ai vestiti da militare, Emina a chiudere in un cassetto le gonne da dama del Seicento, Tania a dipingersi i capelli di un colore normale.
«Diciamo che io e lui eravamo di più dell'amore stesso.»
Appunto, non lo so spiegare. Perché c'è solo una parola capace di riassumere la nostra storia: binomio.
*
L'effetto collaterale dello Xanax è il sonno. Passerei ore su ore a dormire. Conseguenze negative: un rallentamento generale della vita; Crodelia che mi toglie la palma di studente d'oro; un senso di intontimento costante; un rifiuto verso qualsiasi attività che non sia respirare, dormire e mangiare il minimo necessario per stare in piedi.
«Non saremmo dovute venire qui, Tania. Non ne ho per niente voglia.»
Tali premesse dovrebbero essere sufficienti a capire che le feste non fanno per me. Tania invece mi strattona alla festa Queen Carneval nel dormitorio dell'università.
Queen perché per tutta la sera le canzoni saranno dei Queen.
Carneval perché è d'obbligo coprire il viso con una maschera per entrare.
«Che hai detto?» mi chiede Tania. Io lo ripeto: "Non saremmo dovute venire qui!", ma lei fa orecchie da mercante. «Non sento!»
Dal corridoio intravedo la stanza della festa: un buco di pochi metri, intriso di gente che salta, tante sardine in una scatoletta di latta, niente spazio per un grammo di ossigeno. E un tavolone in cui si offre dell'alcol, ma non resta che un pacchetto di patatine mezzo vuoto.
«Per fortuna l'alcol ce lo siamo portate noi» strilla Tania. Quel demonio ha passato il pomeriggio a riempire il trolley di alcolici. «Altrimenti sai che schifo di festa. Dai, adesso mettiti la maschera che entriamo!»
Io mi avvinghio al suo vestitino di seta viola, leggerissimo per un dicembre che sta iniziando a sbuffare su Nomi; imito una bimba che si nasconde sotto le gonne della mamma perché ha paura.
«Qualsiasi forma di protesta tu ti stia inventando, sei uno schianto!» mi dice Tania. Si alza sulle punte e mi stampa un bacio sulla guancia. «E noi siamo qui per divertirci. Togliti quel coglione dalla testa, Sister.»
Bicycle. La gente canta più forte della voce di Freddie, l'organizzatore della festa in piedi sul tavolo. Lui, rasta fino al sedere, strilla più di tutti. Voglio sentirla anch'io l'ebbrezza del divertimento, la fame di vivere che ti morde da dentro, l'impressione di essere immortali.
«Entriamo» affermo. E improvvisamente Tania sente la mia voce, gli occhi che si illuminano, quasi avesse vinto al jackpot. «Quelle due in fondo non ti sembrano Lisa e Emina?»
Schiacciate in un angolo, vicino alle giacche invernali. La prima con una maschera da teschio, la seconda con un brandello di plastica all'Arlecchino, la gonna a vita alta che cade fino ai talloni.
Io e Tania le raggiungiamo, maschere combinate, in stile veneziano. Lei dorata con piume nere, io d'argento con piume bianche. È il colore dei capelli di Tania a renderci riconoscibili, anche se il mio non scherza.
Cambio canzone... I want to break free, I want to break free, from your lies, you're so self-satisfied, I don't need you. Potrei essere io a pronunciare queste parole, libera dalle bugie che Marco mi ha sempre raccontato, libera di dimostrare che posso divertirmi anche solo con il mio numero, senza il suo.
La gente calca e mi trovo spintonata da gomiti e ginocchiate. Quel grammo di ossigeno inizia terribilmente a mancarmi. Gli unici grammi che qui si conoscono sono quelli di birra, erba, paillette di vestitini e scintillio di maschere assurde: da Hulk al medico di peste, a Batman a Sailor Moon.
«Carino il tizio che abbiamo abbordato, vero?» ci chiede Emina quando la raggiungiamo. Per descriverla basti pensare alla dama con l'orecchino di perla di Vermeer e aggiungere al quadro una maschera d'Arlecchino.
«Non mi chiamo Carino, ve l'ho già detto!» ribatte il ragazzo. Grande quoziente intellettivo. «Allora, chi di voi è quella elastica?»
Viene zittito da Tania che gli ficca in mano un bicchiere colmo di rum bianco. E non si parla di un bicchiere da caffè, ma da birra.
«Io sono quella che dispensa alcol, anche se tu mi sembri già abbastanza fuori!»
E lei dentro, la regina della festa, visto che tutti gli invitati si accalcano contro il suo trolley per un goccio di alcol. Io mi tiro di lato, accanto a Lisa che continua a indicarmi.
«Lei è quella elastica!» strilla. «Un tempo era una ginnasta e da Tre Zenit ci ha fatto vedere la spaccata!»
Dio, gli uomini. Non pensano ad altro che al sesso. Io stessa avevo usato la dote dell'elasticità per sedurre Stefano. E ora un pugno di maschietti mi ronza attorno, mi chiede fino a quanto sia elastica. Mi disgustano, mi repellono con le mani sudaticce e il vizio di parlarmi a un centimetro dalla bocca.
«Ehi, scricciolo!» Tania dirime il traffico di uomini assatanati con due manate e mi porta un altro bicchiere di rum. Non mi serve. Mischiato allo Xanax, ancora di meno. «Lascia stare questa marmaglia di sfigati e guarda il tizio al tavolo.»
Quello con i rasta fino al culo. Quello che strilla Show must go on, anche se siamo ad Another one bites the dust.
«Quello davanti a una bottiglia di vodka e con un barile di birra sottobraccio» continua Tania. Crede che non abbia identificato il personaggio, ma si sbaglia. «Quello è dall'inizio della serata che non ti stacca gli occhi di dosso, Sister. Rastaman! Sarà un cavernicolo, ma se non ci fai un salto sei scema. Vai!»
Ma vado dove? Mi schiaccio contro la parete, completamente a disagio. Il pugno di uomini che mi tormentava si è spostato su Emina, Lisa che la difende, spaventandoli con la maschera da teschio. E Tania mi trascina dal tizio con una tale furia che quasi scivolo su una pozzanghera di alcol e bava umana. Mi lascia davanti a Rastaman e gli fa ciao ciao con la manina.
Lui ha la bocca di sbieco e mi saluta con il dito alzato alla Fonzie.
«Ciao, bionda!» Voce da flirt, sembra più un aspirante pornostar sull'orlo del fallimento. Pure daltonico.
«Non sono bionda» sussurro. Maledizione a Tania. Questo tizio mi disgusta ancor più degli altri. Ma lui ha preso il mio approccio come un segnale di OK e adesso salta il tavolo che ci divide, si avvicina e mi impugna i polsi, i pettorali in fuori, per farli sembrare ancor più gonfi.
«Lo sai che ho tre capezzoli, bionda?»
Altro che cavernicolo! In confronto a questo tizio, Fred Flintstone è raffinato quanto un principe alla corte della regina Elisabetta. E ora è troppo vicino. Sento il suo alito, puzza di alcol, unto e fumo, direttamente sulla punta del naso.
Va a finire che gli vomito in faccia.
«Non me lo dai un bacetto, biond-»
Un pugno lo fa arretrare. Sul cambio di canzone, prima dell'inizio di Bohemian Rapsody, in quel frangente in cui tutti sentono il rumore della collisione di nocche su mandibola. Poi iniziano le parole Is this the real life? Is this just fantasy?
Tutti tornano alla festa.
Io resto con gli occhi sparati all'infuori, a guardare il corpo di Rastaman afflosciarsi a terra, seguo la direzione del pugno e... Inizia un film muto, la voce di Freddie scompare, con lei le strilla stonate degli invitati. Illuminato dalle luci soffuse della stanza resta solo lui, il mio eroe, identico a come lo ricordavo, con quei capelli sempre in disordine, la bocca oggi sporca di rum, la felpa storta.
Sempre un terribile disastro.
Ha ancora il pugno alzato a metà e quel sorriso da "Adesso ti salvo io, Nanà", Dio, se mi era mancato.
Marco si piega in un inchino.
«Che ci fai qui?» gli chiedo. Dovrei dire grazie.
Lui si sistema la maschera che indossa, il nasone da Pulcinella che spicca come un uncino. Si gratta una guancia:
«Dovere» risponde. Lo fa con scioltezza, come se fosse ovvio trovarsi qui con me. E io lo odio, perché non sa affrontare i problemi, ma naviga sopra di loro su un vascello alato e lascia che a terra, a restarne schiacciata, ci sia soltanto io.
«Grazie.»
Lui si inchina, di nuovo, con quel ridicolo nasone da Pulcinella. Poi, pollice all'indietro, indica l'uscita. Come se qui ci fosse troppo rumore, probabilmente c'è, ma io nelle orecchie ho solo il ricordo della sua risata e smanio di sentirla dal vero, per avere la conferma che ce la possiamo fare, nulla tra di noi è cambiato.
«Stronzo, che cazzo mi hai tirato un pugno? Guarda che ti riduco in poltiglia, pezzo di merda che non sei altro!»
Rastaman, barcollante e agguerrito. Il barile di birra è rotolato fino ai miei piedi. Con il tacco lo spintono contro il cavernicolo. Lui scivola sul pavimento e si affloscia, di nuovo nella posa del morto.
E Marco?
Aspetta, dove vai?
Intravedo i riccioli biondi sparire dietro le onde di spalle. Lontano da me, così, senza dire altro. La musica torna all'improvviso: O Mama mia, mama mia, mama mia let me go. Martella il cuore da quanto è alta.
Non posso restare qui. Il cielo mi ha appena regalato l'occasione di rivederlo. E di farlo adesso, quando l'alcol in corpo riduce la razionalità e posso permettermi di essere felice, senza ricordare il male che mi ha fatto.
Non mi lascio impaurire dalla selva di braccia, gomitate e spintonate; non di dovere tirare qualche pugno per uscire da qui.
Beelzebub has a devil put aside for me, for me, for me.
I tacchi si incastrano nei bicchieri di plastica. Mi fermo per rimuoverli ed evitare di ruzzolare a terra, ma devo fare in fretta. Perché Marco sta puntando il parcheggio, ora lo vedo, le mani in tasca, le spalle leggermente incurvate in avanti.
«Aspetta! Dove stai andando?»
Tacchi, sono molto più veloce senza. Sgancio il cinturino e li abbandono sulle scale dell'ingresso, scarpette di una Cenerentola che non sta fuggendo dal principe, ma lo vuole disperatamente ritrovare.
«Marco, mi vuoi aspettare?»
Lui non rallenta il passo. Svolta tra le file di macchine e io gli sto alle calcagna, con i brividi che risalgono dalle palme dei piedi ai polpacci. È freddo questo dicembre e la brina ricopre l'asfalto della rampa che porta alle auto.
«Aspettami! Come puoi comparire e lasciarmi così?»
Si ferma, mi mancano pochi passi per raggiungerlo. In quel metro ci sono il terrore e la preoccupazione di non sapere che dire.
«Lo capisco perché sei scappato! Ho paura anch'io e non so come fare a farci tornare quel che eravamo però...»
«Ehi, ragazza, credo ci sia un errore.»
Le gocce di brina oltre ai piedi gelano anche cuore e cervello. Non c'è più una maschera da Pulcinella sul viso, e la statura non corrisponde, i capelli non sono biondi, ma castano chiaro, con un ciuffo tinto di bianco all'altezza dell'orecchio sinistro. Anche gli occhi non sono azzurri, non il fondo del mare che mi sta risucchiando.
«Ehi, ragazza, va tutto bene? Devi sederti?»
Non è Marco. Non è lui. È... non lo so chi sia. E non so perché un tizio a caso avrebbe dovuto tirare un pugno per difendermi.
«Ascolta, ragazza, io non so cosa sia successo. Forse quel tipo ti ha spaventata, forse hai bevuto qualcosa.» Ha le mani sulle mie spalle, ma non sono quelle di Marco. Lui non è tornato da me, non intende farlo. «Non dirmi che giravano pasticche? Hai preso qualcosa? Oh no, no, no, no... ti prego. Non piangere!»
Non sto piangendo. Non piango da quella notte alla Scalinata del Re. Quel piccolo essere che io mi ostino a volere non merita le mie lacrime.
«Adesso apro la macchina, va bene. Così ti siedi e... Oddio, non devo portarti all'ospedale, vero?»
Ospedale, come quella volta quando Marco si era rotto il braccio perché aveva picchiato Stefano. La notte in cui mi aveva confessato di amarmi e poi mi aveva pregata di scordarlo.
Pulcinella ha ragione: sto piangendo. E lo faccio senza dignità, una fontana che ha preso a scorrere nel corpo e non vuole smettere di spruzzare zampilli. Lo fa con rumore, singhiozzi, ed è tutta raggrinzita. E adesso Pulcinella si guarda intorno, non sa che fare.
«Nina!»
Emina. Riconosco la voce, prima che mi butti la giacca in spalle, i miei tacchi accostati ai piedi scalzi, congelati. Tania e Lisa schierate in prima fila:
«Che le hai fatto, brutto maniaco?» chiede Lisa, maschera a teschio lanciata contro quel povero malcapitato. E io potrei spiegare che è innocente, ma dalla gola non escono che singhiozzi.
«Si dà il caso che io sia Tania Zocca e tu, mio piccolo micro-invertebrato, stai per conoscere il frutto di anni e anni di karate!»
Intervenire, ora o mai più. Pulcinella è già riparato nell'abitacolo della sua macchina, una Panda vecchio modello piena di ammaccature e graffi. Tania e Lisa pronte a fiondarsi dietro di lui come iene assetate di sangue.
«Niente» boccheggio alla fine. «Lui non mi ha fatto niente.»
Di Marco non posso dire lo stesso.
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