E lei tra noi (I)
L'odore di vomito mi riempie le narici, una scarica acida che anestetizza i sensi. Ricordo i miei gomiti, poggiati sul bancone di noce dell'Hdemia, la fragranza di tequila a infiammare la gola, la sagoma slanciata di Nicola, avvolta da un alone rosso, scivolare tra la folla da stadio, il battito dei suoi passi trascinarmi via dal locale.
Le stelle giravano in cerchio come i ninnoli sopra la culla di un bambino. Il cielo stesso sembrava collassarmi in testa, nonostante le braccia di Nicola provassero a salvarmi dall'urto.
La mia bocca, riconoscente, lo cercava, mirava ad assaggiare il sapore delle sue labbra. Restavo così, avvinghiata a lui, mentre il mondo crollava e polveri di meteoriti ingiallivano le palladiane ghiacciate. Pendevo dalla sua voce, sapendo che conteneva una voglia spropositata di me, di avermi, di togliersi di dosso, per una notte, il costume del saggio amico.
Poi le nostre lingue si intrecciavano, più contorte delle spire di un serpente, la tentazione. Ci sei caduta, Nina, come Eva con la mela nel Paradiso terrestre. E Marco...
Basta.
Errore.
Strizzo le palpebre perché più il buio riempirà i miei occhi, più cancellerò un capitolo sbagliato. Mi giro nel letto per scacciare il pensiero, ma le lenzuola mi infagottano come le bende tirate di una mummia.
Letto. Non ricordo di aver alzato il lembo del piumino, né di aver percorso la strada fino a casa. Mi spremo le meningi, pur di rievocare le parole con cui ho congedato Nicola.
Devo avere detto qualcosa di stupido.
Non ricordo di avere detto nulla.
Mi dimeno per cambiare posizione e mi trovo ancora bloccata da una camicia forzata. La consistenza del materasso è diversa, rigido lattice ortopedico.
Io e Nicola abbiamo...
e questo non è il mio letto...
Il pensiero mi cava il fiato di bocca, saliva a zero. Il sorriso di Marco è un pugnale che si conficca nel cuore.
"Mi hai tradito, Nanà?"
Scuoto la testa in cerca di un alibi, che non stavamo insieme, che sono libera, che lui è lontano. Ma la torre di giustificazioni mi collassa addosso, pesante quanto il senso di colpa. Con Zeno non è stato un tradimento, con Nicola è diverso. Sono troppo imponenti le fondamenta del nostro passato per chiudere gli occhi e fare finta di niente. Con Zeno Marco poteva perdonarmi, ma con Nicola riuscirebbe a fare lo stesso?
"Non sei tornata a casa, Nina."
Lo dice Biagio, la sua voce a sedici anni. Che strana sensazione, come di averlo sognato.
Appena prendo un grande respiro, un rumore taglia la linea dei pensieri. È lo schizzo di un getto che crolla in un secchio. Puzza di vomito, bile e rimasugli di cibo mezzo intatto.
«È l'ultima volta che esci!» esclama una voce. «E di' addio alla Playstation!»
«Mamma, sto male!» risponde un ragazzo.
«Bene. Ne sono felice.»
Non li conosco.
«Io non ci volevo nemmeno andare a quella festa» replica il ragazzo. «Sei stata tu a costringermi, stupido oratorio!»
Una sbronza in oratorio. Strano soggetto. Perché sono con lui?
Apro le palpebre, la vista traballa prima di mettere a fuoco una fascia di cartone attorno al polso, un braccialetto bianco plastificato. C'è il mio nome abbozzato, una lingua di sangue che sbava l'inchiostro. Lì vicino un ago ha bucato la vena, un grumo rosso fuoriuscito, un ematoma che chiazza la pelle come una grande prugna viola spappolata nel centro dell'avambraccio.
«Sei sveglia finalmente.»
La voce e la mano di mio padre mi accarezzano la testa. Incontro il viso costipato di mia madre, l'espressione da "a casa facciamo i conti". Lo so dove sono. Ospedale. I ricordi prendono forma: l'ho fatta grossa questa volta.
«Perché siete qui?» domando. La voce esce flebile di gola, ma mia madre capisce, si rizza pronta ad assalirmi.
«Perché quel bravo ragazzo ha avuto la decenza di chiamarci, immagino.»
Se vedermi su un lettino d'ospedale impietosisce mio padre, con mia madre è inutile.
«Ti rendi conto, Nina?» Ha i capelli arruffati di chi è stato svegliato nel cuore della notte. «Nel bar di tuo cugino! In coma etilico! Dio solo sa quanto tuo zio si divertirà nel sentire questa storia.»
Giusto, mamma, il danno peggiore di finire in ospedale con un tasso alcolemico alle stelle è essersi sputtanata la reputazione con la famiglia.
«Forse dovremmo darle una tregua.» Mio padre si lancia in un soccorso disperato. «Le bravate... chi non le ha fatte? Quando ero giovane, si diceva che se non si arriva a tre comi etilici, non si è veri cittadini di Viacampo. Nina è solo a uno, quindi...»
«Ma che cazzo stai dicendo?»
Il buono uscita dall'ospedale lo ottengo così, con mia madre che medita un omicidio e mio padre che, nel tentativo di migliorare la situazione, getta benzina sull'incendio.
Passo il tragitto verso casa sul sedile posteriore della Panda, con la testa appoggiata al finestrino, le tempie che mi supplicano di non assecondare i pensieri. Non ho trangugiato litri di alcol e pasticche per una bravata. Dovevo solo smettere di sbattere all'infinito contro il muro della verità: il messaggio di Biagio, la fuga di Marco, Nicola che deve essere sempre così maledettamente presente da confondermi l'aria.
Il suo nome mi apre nella schiena la proverbiale pugnalata alle spalle. Ha chiamato i miei genitori, quando avrebbe potuto insabbiare la faccenda dicendo che sono maggiorenne. E io e lui... Il fotogramma delle nostre lingue intrecciate mi costringe a sbattere la fronte sul vetro.
«È inutile che piagnucoli» dice mia madre. «Quel povero ragazzo ha aspettato tutta la notte in sala d'attesa. Era a pezzi e tu non ti volevi svegliare più. Ho dovuto insistere per mandarlo a casa! Gli ho promesso che gli avrei scritto, ma mi sono scordata di appuntare il numero.»
È stato davvero Nicola a portarmi all'ospedale e a contattare i miei genitori.
Quando il giorno successivo si presenta alla porta della mia stanza, è pomeriggio. Sono seduta sul davanzale interno della finestra, chiusa, ma le mani scalpitano dalla voglia di aprirla per buttarlo fuori e liberarmi una volta per tutte di lui.
«Perché piangi?» gli chiedo. Mi irrita il modo in cui mi fissa, con rabbia e pietà, con i capillari degli occhi arrossati, i pugni lungo i fianchi, la bocca tirata come un pezzo di legno marcio.
Nicola resta immobile sullo stipite: «Non sto piangendo».
È arrabbiato quanto lo sono io, anche se non capisco per quale motivo lo stia odiando così tanto.
Invece lo so.
Lo odio perché deve sempre esserci; perché è voluto diventare un porto sicuro; perché mi ha insegnato a restare in piedi e, quando sono crollata, non è fuggito a gambe levate; perché ha il difetto di fare sempre la scelta giusta; perché non ha debolezze; perché non sa deludermi. Lo odio, perché avrebbe dovuto essere un semplice riempitivo e, invece, se consultassi la rubrica delle chiamate, il suo nome vincerebbe la medaglia del numero uno.
«Forse non stai piangendo, ma hai tutta l'aria di chi ha pianto» lo accuso.
«È vero» confessa. «Ho pianto.» Lui che si è sempre nascosto dietro un muro di protezione, ora non si vergogna di rivelarmi una sua debolezza. «Tu invece no.»
In tutti questi anni sono sempre stata io a cercarlo, a sentirmi rassicurata perché sapevo che avrebbe percorso infiniti sentieri, dal deserto alla foresta amazzonica, pur di salvarmi.
«È stata la notte peggiore della mia vita» mi dice.
Nicola, per me, è stato una goccia d'acqua che ha corroso un blocco di cemento. Lentamente, con il tempo, si è infilato nelle crepe e nei ritagli di spazio libero e mi ha riempita al punto che la sua presenza è diventata scontata, naturale.
«Anche la mia» confermo.
Io non volevo baciarti, non volevo fare l'amore.
Quando Marco mi ha lasciata, sola su quel pontile, sarei dovuta morire. Invece sono sopravvissuta. Ho immaginato la mia vita con te e funzionava. Camminavamo al lago come Ivan e Caterina, sottobraccio; ascoltavo i tuoi consigli e i tuoi silenzi; assaporavo la sensazione di essere leggera, di vivere in equilibrio, senza il dovere di correre a velocità ultrasonica verso nuove avventure. Non ondeggiavo più su un filo della corrente con il rischio di finire elettrizzata o di cadere. Ho pensato, anche solo per un attimo, che con te sarei stata felice. Senza Marco, lui che è da sempre la mia fonte di gioia, e ora sembra quasi esserne un ostacolo. Non è il più atroce dei crimini credere di trovare la felicità all'infuori del binomio?
«Nina, dovresti essere tu a piangere» mi dici da lontano. «Ti stai tenendo tutto dentro, da troppo. Perché non piangi?»
Invece che un singhiozzo libero una risata strozzata.
«Perché mi hanno lasciata, vero?» Biagio e Marco. Se ne sono andati. «È per questo che dovrei piangere?»
Nicola sussulta, avanza nel centro della stanza con una falcata decisa, uno spostamento che fa oscillare la tenda di lino sopra la mia testa.
«Che stai dicendo?» mi chiede. Sento tutto il suo odio nella stretta con cui mi costringe a scendere dal davanzale. «Io non ti riconosco più.» Mi scuote per farmi tornare in me. «Non sei tu questa.»
Ora che è vicino vedo meglio le diramazioni di capillari che si articolano nell'orbita. Ha pianto davvero, per colpa mia.
«Allora forse non mi conosci bene» lo accuso. Sento l'irrefrenabile desiderio di fargli del male, di allontanarlo. «Ti sei invaghito di un'immagine che hai creato, ma quell'immagine non sono io. Ti sei fatto un'idea così diversa da me, quando non sono che una stupida ragazzina capace di sparare solo cazzate.»
Lo sento tremare quanto il mio respiro. È più veloce a ricomporsi. Gli basta strizzare le palpebre per ritrovare un barlume di razionalità.
«Non ti ha lasciato nessuno, Nina. Non c'è nessuno in questo mondo che ti vorrebbe lasciare.» Allunga la mano per accarezzarmi il polso. I polpastrelli restano intrappolati nei fili rosa del maglioncino sgualcito. «Sei tu che stai facendo del tuo meglio per farti odiare. Siamo arrivati in tempo a casa Iachemet, non lo ricordi?»
Cerco una conferma negli angoli della stanza: le pareti sono ricoperte da foto, ma nessuna ha le risposte che mi servono.
«Ho la testa così incasinata.» La corda, Biagio sul divano, Nicola che mi sorregge. «Io non riesco a separare i momenti. Ci sono delle cose che non capisco. C'è Biagio, a sedici anni, ci siamo noi...» Alla fine un singhiozzo esce dalle labbra, ma non ha senso piangere: Biagio è vivo. Solo che ho ingarbugliato le matasse di troppe vite. «Mi dispiace, non avrei dovuto baciarti, non avrei dovuto fare l'amore con te, non...»
«Mi sei collassata addosso appena siamo usciti dall'Hdemia.» Il suo viso è una tavola che non trasmette emozioni. «Ho chiamato un'ambulanza e sono stato con te fino all'ospedale, fino a che mi hanno lasciato.»
Ma io ho visto i nostri corpi che si intrecciavano, le nostre bocche che si cercavano, le tue mani che mi spingevano sul materasso rigido mentre ridevo ubriaca. Nicola è fermo nella sua posizione. Non si concede nemmeno un battito di ciglio.
«Io ero convinta che...» mi blocco. «Scusa.»
Il suo sguardo si addolcisce: «Non fa niente. L'alcol deve avere distorto le tue percezioni. Io non avrei mai... Non mentre eri in quello stato».
Intere casse di dinamite scivolano dalle spalle, e sento che non lo odio più, non quando ha smesso di essere un potenziale nemico di Marco, del binomio.
«Perché hai chiamato i miei genitori?»
Lo colgo in contropiede.
«Perché non sono Marco» mi dice, constatando l'ovvio. Si morde la lingua per mettere un freno alle parole. Anche lui ha dei pesi sulle spalle. È come se un contadino lo avesse caricato di otri di vino, scambiandolo per un asino da soma. È come se avesse paura di parlare e ferirmi.
Con un cenno lo invito a procedere.
«Perché mi piaci» confessa. «Mi piaci da sempre, ma nemmeno per te sono disposto a diventare qualcuno di diverso da me stesso.»
Il suo respiro si è fatto più leggero, il contadino ha rimosso quegli enormi otri che gli aveva caricato in spalla.
«Vedi, Nina. Io sono rimasto al tuo fianco anche quando non mi vedevi, anche dopo che al liceo ci siamo allontanati, e ti ho ascoltata. Tutte le volte in cui parlavi di Marco, persino di Zeno, l'ultimo arrivato, l'ennesimo stronzo.»
È sempre stato con me, senza mai chiedere nulla in cambio e non l'ho mai ripagato con una parola o un gesto gentile. Affondo il canino nelle labbra perché concentrarmi sul dolore fisico metterà in secondo piano i problemi di coscienza.
«Mi accontento di essere tuo amico. Mi basta.»
Non dovresti sentirti in colpa, Nina. Dai, lui è Nicola, e questa non è una dichiarazione d'amore. Tu non gli piaci in quel senso. Tu, con il tuo silenzio non lo stai lasciando andare.
«Io...»
«Ma per quanto mi puoi piacere, non c'è dignità nel diventare il riflesso di un altro» mi interrompe.
Marco.
Alla fine, per quanto il destino o i nostri egoismi ci possano trascinare lontani, i pensieri tornano sempre da lui. Nicola rispetta il mio silenzio, attende una risposta. E io vorrei dirgli tante cose: non sei il riflesso di Marco, non sei un passatempo, ti voglio bene sul serio, proprio perché sei troppo diverso da lui. Ma non riesco a parlare e allora Nicola mi stringe le mani.
«Ti lascio andare, Nina.»
Che sta dicendo? Dilato le pupille e spero che mi capisca, come fa dal primo giorno della quarta ginnasio: non è quello che voglio.
«Ma prima ti do un ultimo consiglio.»
Non ho più difese intorno a me. Oscillo la testa in piccoli no, Nicola li ignora con un sottilissimo sorriso.
«Non possiamo ottenere quello che vogliamo, se non facciamo niente per prenderlo. Hai detto che Marco ti ha lasciata?» Lo sai anche tu che l'ha fatto. Non sarei sopravvissuta ai giorni dell'abbandono, se non fossi stato con me. Non andare. «Mi rimangio tutto quello che ti ho detto sull'imparare a vivere senza di lui, perché potrei averlo fatto per egoismo.»
Adesso il "no" del mio capo è deciso: tutte quelle sere all'esagono non sono state inutili e tu avevi ragione, allora perché stai cambiando idea? L'ugola trema, deglutisco per rassicurarla. Mi basta la parola giusta e Nicola non se ne andrà. Ma di nuovo la parola non arriva. Solo le sue labbra poggiate dolcemente nel centro della mia fronte, in un bacio casto e d'addio.
«Prendi un treno e raggiungilo» sussurra, mentre mi sfiora la pelle.
Quando si allontana, ha gli occhi bassi. Se solo avesse cercato i miei, li avrebbe trovati gonfi di lacrime e rimpianto. E forse sarei riuscita a fermarlo.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro