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Collasso (II)


Il peggio è passato. Lo noto la mattina successiva, quando mi risveglio ancora sdraiata per metà sul bidet del bagno. Può davvero il demone che ieri mi annientava essere evaporato nel nulla? Cammino su un ponte tibetano, con le assi in legno marcio e le funi cotte dal sole e dalle intemperie.

Quando mi rimetto in piedi, sfioro il suolo con la punta, perché se dovessi capitare su una trave guasta, capitombolerei nel vuoto per miglia. È il mio corpo a essersi rotto, nessun ponte, se non nell'immaginazione. Ieri, mi sembrava fragile quanto la ballerina in un carillon di vetro. Ora, a sorpresa, indistruttibile. Niente respiro mancante, niente gambe che cedono, niente cuore in fibrillazione.

Sono rinata ed è Tania la prima ad accorgersene:

«Di nuovo in forma, scricciolo! Se avessi un cuore, ne avrei impiegato una millesima parte per preoccuparmi!»

«Aveva ragione Valentina. Credo di essermi presa una leggera influenza o di soffrire di asma.»

Mai stata allergica a niente, ma Tania annuisce con così tanta convinzione che mi fido delle mie parole.

«Ti va di fare colazione?»

Io che propongo a Tania di uscire. Paradossale. Lei finisce di imbellettarsi il viso con correttore e fard.

«Certo, ma non da Tiffany. Ho detto a Emina che ci saremo viste da Tre Zenit. Tristan mi lascia scegliere la poesia del giorno!»

Niente di meglio per iniziare la giornata, che incontrarsi con le nostre compagne di corso. Ho bisogno di gettarmi alle spalle l'incubo di ieri.

Tre Zenit è il bar di fianco a Lettere, un buco rettangolare con cinque tavoli tondi e un bagno con la turca. Non un posto di lusso, ma resta pur sempre il locale di Tristan, il padre di Emina. E vuoi non aiutare una socia a fare affari?

«Ascolta, Emi» dice Tania, non appena entriamo. Borsetta buttata sul divanetto argenteo, sciarpa sopra la cassa con appiccicate le stelline fosforescenti. «Io oggi ti faccio la grazia di pagare il conto, però tu taci per la scelta della poesia!»

Come se Emina fosse in grado di litigare con anima viva! Si toglie il grembiule e sbuca da dietro la cassa per raggiungerci al nostro tavolo, quello che al posto del numero 5 tiene nel centro la statuetta di un alieno.

Tristan ha la mania dell'universo e degli ufo, motivo per cui, più che in un bar, pare di essere stati catapultati su una navicella spaziale.

"Non è una mania" ripete sempre Tristan. "Ho dovuto rinnovarmi dopo che qualcuno mi ha rubato il nome del locale. Tezenis. Era geniale, arabeggiante, esotico. E poi arriva un capetto Intimissimi e mi soffia il nome per un nuovo marchio, senza nemmeno pagarmelo o temere un'accusa di plagio!"

Tristan aveva provato a resistere, ma al quinto ingresso di una damigella in cerca di un tanga o di un reggiseno Cup B... Tezenis divenne Tre Zenit, con tutti gli opportuni riferimenti astronomici.

«Io vi giuro che se oggi Vivi riattacca a dire "bianca potenza" invece che "sperma" o "atto di dolce unione" invece che "scopata" mi trasformo in un hacker e lo costringo a spararsi tre ore su Youporn. Altro che classici greci!»

Tania, inviperita, inizia il suo sermone quotidiano contro il nostro secondo professore di greco, mentre Emina si intreccia i lunghi capelli castani e fa cenno a suo padre di muoversi con i cappuccini.

«Tania, io ancora non capisco perché tu ce l'abbia tanto con il povero professor Bellotti» le dice con una vocetta dolce dolce.

Tania sbatte il pugno sul tavolo:

«Perché si fa schiavizzare da Crodelia, perché ha un complesso di inferiorità perfino nei confronti di un Escherichia Coli e perché chiede scusa anche al tabellone degli orari.»

Povero professor Bellotti, affetto da cataratte, astigmatismo e miopia.

«O forse perché balbetta e non sa pronunciare la parola "sesso"?» Tristan, occhialetti alla John Lennon e grembiule da pescivendolo-astronauta, ci porta i cappuccini. Tania trangugia il suo in un sorso. «O forse perché quel tizio appena lo vedi ti fa passare la voglia di vivere?»

Ecco perché noi, a Lettere, lo chiamiamo Vivi, Voglia di Vivere. E pensare che proprio oggi sentivo il bisogno di una botta di vita! Invece dovrò sorbirmi due ore con quel depresso cronico e i suoi patemi d'amore!

Prima di lasciare il Tre Zenit, Tania prende il gesso e abbozza qualche verso sulla lavagna dei menù: si sente importante, quando Tristan le dà il titolo di Regina della Lavagna!

Ce le caviamo con un veloce "Nunc est bibendum", "Adesso bisogna bere", piccola frase che dà un'impennata alla voglia di divertirmi. Altro che bugie, sto davvero bene, posso davvero essere felice. Me ne convinco anche quando prendo posto in prima fila nell'aula del professor Vivi.

Lui sta inchinato gobbo su un vecchio volume di lirici greci, la copertina marrone usurata, le pagine spiegazzate e ingiallite. E tiene il naso a un palmo dal foglio, perché, nonostante gli occhiali con lenti di spessore chilometrico, non distingue le lettere.

«Saffo è dedita alla dea Afrodite e la dea la consola, dicendole che l'amore sarà ricambiato» dice. Quanto a me, groppo allo stomaco, pancia che borbotta.

«Ti avevo detto di mangiare anche la brioche, scricciolo!» mi sgrida Tania. Ed Emina a sua volta sgrida lei, con un colpo di gomito nel fianco. La nostra ultima compagna, Lisa, l'unica altra Amazzone rimasta in quel corso un tempo di diciassette persone, fa uno sbadiglio da ippopotamo.

«Perdonate, S... S... Signorine» balbetta Vivi. Si inchina, al punto da rischiare di sparire nel pavimento. Classico crack della schiena, giacca del tailleur che si strappa sotto le ascelle. «Io, io, io lo immagino che di mattina vi annoi quest'inno di Saffo. Che ne dite di altro. Che ne dite... che ne dite... della poesia sul mal d'amore, di Saffo.»

Secondo groppo allo stomaco, secondo brontolio di pancia. E Tania mi tira occhiate al vetriolo, ma io so che non è la fame, è qualcosa di diverso, qualcosa che ho già conosciuto, ieri.

«Pagina 129» ordina Vivi, sfruscio di pagine. Vivi traduce e le parole di Saffo entrano nei lobi delle orecchie, si intrufolano in ogni angolo del corpo, tanti piccoli ladri che rubano le forze.

«Subito a me il cuore si agita nel petto.» Martella, sgretola le ossa della cassa toracica.

«E la voce si perde nella lingua inerte.» Non è la voce, è il fiato. Di nuovo quel macigno conficcato in mezzo al petto.

«Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle.» La mia brucia, i palmi scottano.

«E ho buio negli occhi e il rombo del sangue nelle orecchie.» Vivi si trasforma nel personaggio di un film in bianco e nero, sgranato, costellato di macchie, uno sciame di mosche gli ronza intorno.

«E tutta in sudore e tremante come erba patita scoloro: e morte...»

La sedia stride sul pavimento e io mi arpiono al banco, la matita che cade a terra, punta che si spezza, Tania che stringe l'orlo della mia gonna blu.

«Scusi» sospiro. Un singhiozzo e Vivi non capisce, Tania ed Emina nemmeno. Mi vedono solo barcollare verso la porta dell'aula. Non si accorgono che collasso, quando chiudo la porta alle spalle. Solo una bidella assiste alla scena, con un cipiglio di rimprovero:

«Il pavimento è bagnato! Non li sai leggere, i cartelli?»

Gialli, enormi triangoli con il disegno di un segnale d'attenzione. Li vedo sfuocati, l'effetto di quando si fissa troppo a lungo il sole e poi gli occhi vedono male.

Arranco fino al bagno dell'università e stringo il bordo del lavello, una forza tale che potrei sgretolarlo, ma devo tenere la presa per non cadere. Ho il fiato che preme nel petto, lo comprime così tanto che mi sento ingabbiata in un bustino da dama dell'Ottocento.

Bere non serve, lavare la faccia nemmeno. Il respiro. È sempre meno.

Devo sedermi.

Riparo nel primo gabinetto libero e giro la chiave. Mi siedo sulla tazza e porto una mano alla base del collo, la accarezzo, perché il tocco delle dita sciolga il laccio alla gola. Mi manca l'aria. Bolle di ossigeno sfuggono alle labbra. Boccheggio per attirarle a me, ma l'atmosfera è colma di anidride carbonica. Gli alveoli dei polmoni vanno in ventilazione, esplodono. E l'aria... perché sta scappando? Picchietto i pugni contro il petto per aiutare il corpo a funzionare, a ritrovare un equilibrio, ma è tardi. Soffoco, mentre tutto si fa nero.


*


Mi risveglia lo scrosciare dell'acqua. Goccia dopo goccia dà il via a un fiume di ricordi. Sono al lago, con Marco. Lui cammina sul poggiolo della Casa Rossa. Si è appena tuffato e scie di acqua scolpiscono gli addominali. Cadono dai capelli bagnati e fanno tac quando si immergono in una pozza, a ridosso dei nostri asciugamani. È acqua fredda e mi schizza in viso, non appena Marco scuote la testa, i ricci biondi che liberano una pioggerella dal sapore d'estate.

Lui ride.

"Nanà, non ho fatto apposta, o forse sì?"

E rido io, quando gli salto in groppa per vendicarmi.

"Ah, Nanà, quanto sei malvagia!"

Ancora uno stillare di gocce, ora sono le onde del lago che si infrangono sulle rocce della riva. Io e Marco giochiamo a prenderci, a tirarci un pallone da beach volley, davanti al nostro salice.

"Non ti va di salire su quell'albero, oggi, Nanà?"

Come posso scendere, se non sei più qui a prendermi?

La sua risata svela l'inganno, mi convince che non esistiamo più. Ed è sempre lo scrosciare dell'acqua, la colonna sonora dei miei ricordi. Le onde che sciabordano contro lo scafo del pedalò, mentre Marco confessa di volere Celeste e io grido nella mia testa che è insensato preferirla a me, quando solo la mia identità ha il potere di completarlo.

Celeste lo lascia, e l'acqua è lo zampillare di fiotti attorno alla fontana della Sirenetta. Diventa la scia dei nostri baci e il fango che ricopriva la rampa scoscesa alla Scalinata del Re.

Improvvisamente il ricordo si fa scuro: è tutto finito. E la realtà divampa, prepotente e crudele. È l'acqua del wc, il gabbiotto in parte al mio, qualcuno deve averla tirata, la leva dello sciacquone incastrata a metà.

Mi risveglio con gli arti intorpiditi, la guancia premuta sul pavimento del bagno e un pezzo di carta igienica umidiccio incollato alla gonna blu. Raccolgo le energie per mettermi in ginocchio. Gli occhi percepiscono sprazzi di luce: il neon sul soffitto, un raggio dalla finestra opaca, la lancetta fluo dello Swatch. Segna le dieci, è da più di un'ora che sono qui, tempo di recuperare i libri e tornare a casa.

Fuori dall'università mi perdo tra la folla. Nomi quest'oggi è un mondo di colori e allegria, con un sole che spacca i sampietrini e le persone che spettegolano sotto le verande dei bar. Io invece sono il grigio, uno spettro che passa inosservato, accoccolato nelle sue braccia, con una tracolla troppo pesante e l'andamento ondulante di un moribondo. Sono stanca e voglio smetterla di tentare un passo dietro l'altro, di sentire una morsa allo stomaco per il timore di cadere.

Marco. Il solo nome è un ago che lascia nuovi graffi sulla pelle, taglia i rattoppi di mille ferite che credevo cicatrizzate.

Ondeggio in Piazza Duomo. Obiettivo superare il campanile, cinque minuti da casa.

«Nina.»

Due mani mi tengono in piedi, sono intrecciate alla mia vita, sostegni stabili che mi proteggono dalla folla. Mi sento trascinare ai margini di Piazza Duomo, il campanile che regala un ritaglio d'ombra alla testa.

«Che hai?»

Riconosco Nicola, solo quando mi ritrovo seduta. Una panchina in pietra, ai lati della piazza, e ancora quello spicchio di ombra che il campanile getta sulla testa come un ombrello.

«Niente.» Il petto alzato in un grande respiro. «Sto bene.»

Nicola è seduto al mio fianco. E io non posso guardarlo in viso. I suoi occhi, così simili a quelli di Ivan, sono una trappola per topi; scattano, se solo sfiorati.

«Non direi "niente"» replica lui.

«Niente, davvero» insisto, ma non so se le parole escano come un suono. Alle mie orecchie giungono come il soffio dello Scirocco in piena estate.

È che non ci voglio restare qui.

«Andiamo, Nina, se stessi bene, staresti improvvisando il tronco di un albero, nella speranza che io non ti veda.»

E anche Nicola lo sa, che non ci voglio restare qui. Ho le mani che tremano, racchiuse nelle sue. E nel naso non sento più il vuoto di ossigeno, ma un sottile profumo di Colonia. Continuo a guardargli il petto, troppo vicino al mio, al punto che quando la testa cade, la immagino trovare un rifugio nell'arco delle sue spalle, il suo braccio ancora attorcigliato alla mia vita.

«Ti accompagno a casa» mi dice.

Il suo petto vibra, mosso dal peso delle parole, e la vibrazione risuona nel mio orecchio. È allora che mi accorgo di avere davvero lasciato cadere la testa su di lui.

«Non serve.»

Nicola agguanta la mia tracolla, se la issa in spalla. Sento il rimbombo del suo corpo che si muove. L'ho evitato così a lungo, dopo il To remember, e ora vorrei pregarlo di restare con me.

«Ce la fai a camminare?»

«Sì, ma...»

«Adesso non sei nelle condizioni di dire "ma."»

Mi rimette in piedi, quasi fossi davvero una bambola snodabile. Quando le scarpe sfiorano terra, sento di nuovo le gambe cedere. Nicola torna a sorreggermi, mi aiuta a procedere oltre lo spicchio d'ombra del campanile.

«Per l'albero...»

«Risparmia il fiato» ordina lui. «Ne possiamo parlare un'altra volta. Era dal tuo esame orale, alla maturità, che non ci vedevamo.» Non sto camminando: le mie gambe sono steli di cera sul punto di liquefarsi. «Credi che un giorno in più possa fare la differenza?»

È Nicola a sollevarmi a peso morto e a guidarmi verso casa.

«Non è quello.»

Nicola si blocca e l'arresto improvviso mi coglie di sorpresa.

«Forse dovevi andare a lezione, invece che startene qui con me. Ti faccio fare tardi in facoltà.»

«Ho lezione sì, ma non importa.»

Nicola Ulivieri, primo della classe, che arriva tardi in facoltà, e non gli importa. Dietro una patina di sbiadito, intravedo l'insegna della Benetton. Sono quasi a casa, presto si libererà di me.

«Che cos'è, Nina?» Non capisco. «Hai detto che non è quello, e allora che cos'è?»

Portoncino raggiunto e già sta frugando nella mia tracolla in cerca dell'orsetto con le chiavi. Io, appoggiata allo stipite di marmo, lo fisso. È diventato così grande rispetto al ragazzetto scontroso della IV ginnasio, così sicuro e stabile rispetto all'amico che a quel semaforo diceva di provare qualcosa per me. Io, invece, continuo a rimanere il pallido riflesso di una donna, incarcerata in un corpo e in una mente che non sanno crescere.

«Ho paura» gli dico. «Io non ho mai avuto così tanta paura.»

Nicola inserisce la chiave nella serratura e, appena schiude il portoncino, usa la mano libera per scostarmi un ciuffo dalla fronte. Si avvicina millimetro dopo millimetro, tanti scatti che sono un tuffo al cuore. Non starà forse per... Ma le sue labbra si appoggiano un secondo sulla fronte, nello stesso brandello di pelle sfiorato dalle dita.

«Non devi» mi dice, prima di voltare le spalle e scappare in università. «Non devi avere paura.» E poi una bella frase che non può mantenere, non dipende da lui: «Ti prometto che starai bene».

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