Col piede sinistro (III)
Come può un semplice numero farmi volare fino alle stelle? Me lo chiedo per tutto il resto del giorno, quegli attimi intensi che trascorro con Marco prima in centro, davanti a una gara a chi mangia più gelato, poi a casa, mentre accasciati sul divano ci lamentiamo per il mal di stomaco.
A Massimo quel Diciotto potrà sembrare una sufficienza scarsa, ma a me... sono tanto egocentrica da ritenermi l'artefice di quel voto: se non avessi lanciato il guanto di sfida, il timbro in inchiostro blu non comparirebbe sul libretto di medicina. Marco stesso si sorprende di quanto mi abbia fatto piacere la notizia.
«Nanà, era l'esame più facile del corso, mica anatomia o quella robe piene di numeri che nemmeno Celeste sa digerire!»
Credevo di aver raggiunto l'apice della felicità con la mia rassegna di Trenta e Lode e invece ho appena scoperto che non esiste soddisfazione maggiore che arrampicarci sulla montagna del successo in due.
«Sono solo felice per te» lo rimprovero. «Prima mi sentivo quasi in colpa a essere la sola a ottenere dei risultati e ora che anche tu hai passato un esame...»
«Piano, Nanà, che da qui al Trenta e Lode ne passa di acqua sotto i ponti. Per il momento mi basta zittire mio padre, Celeste e perfino quella tua boccuccia saputella che lancia sfide più grandi di te!»
Mi tira un cuscino, come a volermi far mangiare le piume d'oca, a patto di farmi stare zitta.
«Adesso, però, dobbiamo andare» dice poi. «La nostra principesca giornata non è ancora finita!»
«Ma Marco, come? Io sono senza carburante e speravo che potessimo starcene qui, comodi, comodi, sul divano...»
«No.»
Certa di aver sentito Marco dire "ogni tuo desiderio è ordine"? Clamorosissimo errore, perché il mio organizzatore d'eventi personale non mi lascia scegliere nemmeno che vestito mettere.
«Marco, io ho i capelli rossi. Il giallo mi fa sembrare un clown che ha appena fatto il salto nel cerchio infuocato.»
Sta sventolando davanti ai miei occhi un vestitino rubato dall'armadio di Tania. Carino, ma scollato, per niente caldo e decisamente troppo troppo troppo corto.
«Non è perfetto, l'ammetto» confessa Marco. «Ma non è colpa mia se né tu né le tue due compari avevate qualcosa di opportuno!»
Se alla fine decido di indossare quel brandello di stoffa ocra chiaro, lo faccio solo per soddisfare quel puntiglio di curiosità che mi sta pizzicando la pelle. Perfino il grillo scalpita, mezzo addormentato sulla sua amaca nel cervello:
"Mayday, Nina, mayday, Nina. Qui Marco ne sta escogitando una delle sue e io ho consultato la biblioteca Brillanti trovate alla Zuccato, ma sto comunque brancolando nell'ignoranza".
Il mio grillo è più cieco di una talpa e ora sono cieca anch'io, perché Marco ha appena allacciato una benda sopra gli occhi.
«Preferirei vedere» mento.
Preferirei non averti così vicino, ho il cuore che batte troppo in fretta, il terrore che domani saremo lontani e sarà più difficile tornare sotto quella campana di vetro che mi separa da te.
«Non ti farò cadere Nanà, promesso!»
Lo so.
Marco mi stringe da dietro e indirizza ogni mio passo: per le scale dell'appartamento delle Suore, per le strade di Nomi, nei viottoli su cui si affacciano i bar. La curiosità e l'essere cieca hanno il potere di duplicare il tempo, finché...
«Siamo arrivati, aspetta.»
Marco smazzetta le chiavi, non le vedo, ma è un tintinnio inconfondibile.
«Attenta, gradino.»
Stiamo entrando da qualche parte. Mi concentro su udito e olfatto per compensare la vista mancante e ottengo pochi indizi: silenzio, odore di cellophane, percorso sinuoso.
«Marco, ma dove siamo?»
«Ancora un attimo!»
Profumo di pasta frolla, spumante, il dolce del cioccolato. Le mani di Marco mi sfiorano i capelli, me li strattona, mentre scioglie il nodo. Marco scivola via da me e quando la benda cade dagli occhi:
«Buh!»
Strillo di paura.
«Sei uno stupido!»
E due pugni per punirlo. Un orrendo scherzo da Halloween, festività sbagliata per il mese di marzo. Marco ha in faccia una maschera pelosa che lo fa sembrare un misto tra un orso pelo lungo e un cane con la rabbia.
«Ma dai, Nanà, io lo trovavo un gesto così romantico per una secchioncella come te!»
E che ci sarebbe di romantico in questo sciocco scherzo? È solo quando mi rimetto i vestiti da investigatore che connetto i puntini numerati e trovo il disegno del gioco enigmistico. Sono al centro di una stanza, circondata da scaffali di libri incellophanati, sommersa da un silenzio perfetto e dalla luce di qualche candela. Raggiungo la cassa, il segnalibro con il nome della libreria "Colibrì", poi, specchiata in una vetrata all'ingresso, mi vedo vicina a Marco, io con il vestito giallo di una principessa, lui con quella maschera che lo fa sembrare la Bestia.
«Ho pure cucinato» confessa Marco. «Ma delle mille pietanze si è salvata solo la crostata all'albicocca!»
Schiocco una risata:
«La mia preferita!»
«La crostata con cui correvo da te quando ti facevo arrabbiare» mi corregge lui. «In umile ricerca del tuo perdono.»
Posso anche avere perdonato Marco per la fine della nostra storia, ma Marco non sarà mai capace di perdonare sé stesso.
«Come hai fatto?» gli chiedo. Il lume di candela rivela un suo sopracciglio alzato dallo stupore. «Ad avere le chiavi della libreria. Ad ottenere il permesso di venirci di notte.»
E adesso quel sopracciglio si alza in un'arcata che vuol dire "io so fare cose...". Sì, forse a Viacampo, ma in una città in cui non conosce nessuno...
«Hai chiesto aiuto a Tania.»
«Colpito e affondato!»
Marco raggiunge il centro della libreria, un piccolo spiazzo dove ha disposto un tavolone, proprio sotto lo scaffale dei classici russi, vicino a più edizioni di Anna Karenina. Ci ingozziamo di crostata e spumante, io in difficoltà per trattenere la commozione, lui in crisi per smorzare l'imbarazzo. Il vecchio Marco non avrebbe avuto problemi a farmi una simile sorpresa, ma il Marco di adesso... diamo la colpa all'età adulta e alla nostra rottura, ma non siamo più capaci di scherzare.
«Adesso la Bestia dovrebbe invitare la Bella a danzare il valzer» gli ricordo.
È calato il silenzio sulle nostre teste, come se davanti ai capolavori dell'umanità ogni parola fosse una grandissima sciocchezza.
«Il valzer no, Nanà! Che ne dici di Maracaibo?»
«Oh, credo che con quello abbiamo fallito già in passato!»
Balliamo al ritmo di varie musiche, spaziamo dalla samba al tango, dal rock alla mazurca e dimostriamo di essere due ballerini negati. Ogni nota è però l'occasione per ritrovarci in una danza di carezze, strette e abbracci; ogni fine canzone il promemoria che dobbiamo dividerci, imparare a stare lontani.
«Tu scambieresti mai tutti i tuoi domani per un solo ieri di binomio?» gli chiedo, quando restiamo senza fiato.
Abbiamo messo in disordine la libreria e adagiato i volumi a terra, creato un materasso di pagine di inchiostro sul quale alla fine ci siamo sdraiati.
Marco si gira sul fianco e stropiccia le pagine del GGG di Roal Dahl.
«Lo farei» mi dice. «Lo farei, se avessi la certezza che fossimo giunti al capolinea e quei domani non avessero abbastanza spazio per noi.»
Marco raggela e la copia del GGG, ora sul suo gomito, si accartoccia come una fisarmonica chiusa:
«Nanà, quando mi hai proposto la sfida della lontananza non avevi come obiettivo cancellare il binomio dal nostro futuro, vero?»
«No, certo che no!» mi affretto a dire. Lo faccio senza nemmeno prendere fiato, timorosa che questo pensiero non gli abbia sfiorato la mente oggi, per la prima volta, ma che nelle settimane passate abbia tormentato le sue notti a più riprese.
«Allora no, Nina» mi dice. I suoi occhi azzurrissimi si concentrano nei miei. «Non scambierei tutti i miei domani per un solo ieri di binomio, perché non so come, non so in che forma, con quale meta o punto di traguardo, sono sicuro che sarai sempre in ogni mio domani.»
Si lascia cadere di schiena e fissa il soffitto della libreria, un tondo di luce proiettato dalla fiamma della candela sul tavolo. Anch'io mi perdo a fissare quella danza di luce e ombra, mentre un sorriso gigantesco taglia le guance fino alle orecchie.
In fondo Marco e Nicola si assomigliano: sono due inguaribili ottimisti, convinti che il destino ci regalerà un futuro migliore del passato.
Forse anch'io dovrei chiudere gli occhi e avere più fiducia in Marco, in Nicola, in me.
«Celeste!»
Grazie Marco. Faccio a meno di Celeste.
«Mi sono dimenticato il compleanno di Celeste!»
Scatta seduto e Anna Karenina, il mio comodo cuscino, viene scagliata contro lo zoccolo di uno scaffale. Celeste ha fatto gli anni a dicembre e ora siamo a marzo.
«Scusa» realizza, le labbra che tremano per il desiderio di rimangiarsi quel rospo appena sputato. «Scusa, Nanà, io non avrei dovuto dire quel nome, non ora, fa parte degli accordi. Io non devo sapere niente della tua vita, tu della mia e-»
«Non fa niente» gli dico e mi sorprendo delle mie stesse parole, perché il nome di Celeste non ha prodotto un attacco di orticaria, diarrea, vomito e coliche, ma solo un leggero fastidio sulla pelle, il pizzicotto di un ago quando si infila nella carne.
Per come sono andate le cose, è normale che Celeste ci sia.
«Siamo giovani, Marco, e credo che tu ed io abbiamo ancora tanto tempo per sbagliare.»
È un principio logico: se Marco sbaglia, allora posso sbagliare anch'io. E d'improvviso il fatto di poter fare nuove esperienze, prima che la vita diventi un romanzo prestabilito, mi tranquillizza come una boccata d'aria fresca dopo aver trattenuto il respiro troppo a lungo.
*
Sfida persa per sfida persa, Marco dice che è inutile tornarsene a Bologna e alzare l'asticella della nostra scommessa. Per la gioia di Tania, la Quinta Suora torna ad abitare nell'appartamento di Nomi e con sé porta il disordine di vestiti appallottolati, piatti sporchi, piani scombussolati... il tutto in un solo giorno.
Il secondo viene animato da un'altra sconvolgente notizia, una di quelle che, a distanza, puzzano di cattivo auspicio.
"Domani si laurea Picasso, futuro ingegnere, quindi sarò nei paraggi per immolarmi al dio dell'alcol" ci racconta Yuri al telefono.
E mentre Marco inizia a ballare il limbo nel salotto e a pigiare i talloni sul bongo, un brivido di gelo mi paralizza. Vorrei fingere di non avere capito l'affermazione di Yuri.
"Picasso, te lo ricordi, Nin?"
A vent'anni non ho ancora la demenza senile ed è passata solo una settimana dall'incontro al bar. Deglutisco per affogare il verme solitario del panico, quel simpatico lombrico che naviga nello stomaco e mi sta convincendo a mordermi le unghie dall'ansia: se Picasso si laureerà, non sarà presente anche Pablo, l'altra metà della mela?
"Picasso ha detto di portare gente" ordina Yuri. "Quindi, Nin, tu e lo zuccone verrete con me! Invitate pure chi vi pare!"
Posso chiedere al verme solitario di mangiare me, al posto delle unghie? I neuroni si attivano per inventare una scusa con i controfiocchi, ma Marco mi batte sul tempo.
«Nanà, hai sentito? Una festa! Da quanto non andiamo a una festa io e te?»
E come direbbe il grande Yuri Conte: chi sono io per dire no?
Il giorno successivo, più cadaverica di un fantasma, mi ritrovo ai piedi della salita che porta alla facoltà di ingegneria. I motivi per trasformarmi in Casper stanno sulle dita di una mano:
1. Tania e Valentina si sono aggiunte alla comitiva;
2. Tania e Valentina hanno giurato di avere deposto l'ascia da guerra;
3. sono certa che Tania e Valentina, nelle loro simpatiche pochette a lustrini, tengano un kalshnikov AK-47;
4. sono certa che, anche se devastato dai fiumi dell'alcol, Zeno si accorgerà di me;
5. sono altrettanto certa che questo lungo elenco di dettagli non sfuggirà all'occhio di Marco.
Potrà non essere dei più svegli, ma come perdere l'occasione di gettare una tanica di rum sul nostro binomio e di appiccarci fuoco con un cerino nuovo di zecca?
Da quella sera in libreria una strana corda di tensione ci ha messi sull'attenti e purtroppo il motivo non è chiaro. Forse sono state le carezze e gli abbracci a risvegliare antiche sensazioni che credevo addormentate, forse il nome di Celeste a rievocare l'epilogo della nostra storia d'amore, forse proprio la frase con cui ho chiuso la serata: abbiamo ancora tanto tempo per sbagliare.
Adesso io e Marco abbiamo capito che c'è ancora spazio e tempo per amarci e ferirci, e viviamo in un momento di pausa, una terra di nessuno, nella quale io e lui siamo due soldati. Ci studiamo senza sapere chi sarà il primo a sparare a fuoco aperto. Ancora una volta e forse per quella definitiva.
«Io non volevo nominare Celeste l'altro giorno» mi dice, quando abbiamo raggiunto la cima della salita.
«Ti ho detto che va bene così, perché insisti? E proprio ora che siamo arrivati a una festa?»
Mi basta vederlo con un bicchierino di vodka in mano per capire che l'alcol sta togliendo i freni alla lingua. E in effetti siamo arrivati dopo la discussione di laurea, Picasso sta ballando il tango con un gonnellino di uova, e alcuni soggetti sconosciuti stanno offrendo da bere.
«Ho solo un dubbio, poi la smetto» promette lui. «Tu ieri hai detto che abbiamo molto tempo per sbagliare. E così ho pensato: non è che tu, senza dirmi niente, ti sei trovata la tua Celeste?»
Che goffo tentativo di chiedermi se sto uscendo con qualcuno.
«No, Marco» gli rispondo dopo aver buttato anch'io in gola un bicchierino amaro. «Fino a prova contraria non sono ancora diventata lesbica.»
«Ma, Nanà! Ma io non intendevo...»
Lo zittisco con una mano alzata e la vodka che spacca lo stomaco a metà. Il grande Yuri Conte ha appena fatto ingresso in scena. E se in genere le star si lanciano da un aereo con tanto di paracadute, Yuri si accontenta di un mezzo di trasporto più semplice: quattro bidoni dell'immondizia legati tra di loro e con l'ignobile scritta "Dottore, Dottore del buco del culo, vaffancul vaffancul!".
Yuri è proprio lì, in piedi sui cassonetti, mentre degli sconosciuti stanno portando il loro re nel centro della bolgia.
«Pivello! Nin!» ci saluta. Tra i capelli porta una corona di carta igienica e pezzi di cartone. «Siete arrivati finalmente!»
Traballa, mentre scende dai bidoni, al punto che i sudditi rompono la composizione: un bidone dell'umido, il più piccolo, si stacca dagli altri tre.
«Siamo arrivati, sì» confermo io.
E subito un grido alle mie spalle:
«E siamo arrivate anche noi!»
Yuri impallidisce e il tutto si conclude prima che la retina metta a fuoco la scena.
Tania e Valentina sfoderano un battipanni rubato ai festeggiamenti e lo sventolano contro Yuri, lo costringono a entrare nel bidone della carta e...
«Yuri!» strilliamo io e Marco. Iniziamo a corrergli dietro, per cercare di fermarlo, perché quelle due pazze lo hanno scagliato giù dalla discesa e il cassonetto scivola sulle rotelle come una slitta su una lastra di ghiaccio.
«A morte!» grida Valentina.
«A morte!» riecheggia Tania.
Alla faccia dei propositi di vendetta sepolti! Quando raggiungiamo Yuri è troppo tardi, la slitta-cassonetto è arrivata in fondo al pendio e si è schiantata contro qualcosa.
«Sei un imbecille! Mi volevi uccidere?» chiede una voce. Una ragazza, più grande di noi e con una tesi di dottorato sottobraccio, ha evitato il bidone per un soffio. Yuri fa capolino dal cassonetto.
«Ucciderti?» ripete. «Solo per portarti all'Inferno con me!»
«Ne parlerò con il rettore e ti garantisco che non finirà qui!» strilla lei e sventola i capelli adirata, un corto caschetto con riflessi color pugna.
Quando se ne va, io e Marco aiutiamo Yuri a uscire dal bidone.
«Binomio, voi non immaginate nemmeno! Una figata! Una figata colossale! Rifacciamolo! Rifacciamolo tutti!»
È l'inizio del delirio. Valentina e Tania si mangiano le mani perché il loro dispetto si è trasformato in divertimento e Yuri, tanto magnanimo, noleggia i cassonetti alla modica cifra di due euro. Tutti fanno a gara per una slittata giù dalla discesa.
«Che ne dici, Nanà? Anche noi?» mi chiede Marco.
Insieme? Così e troppo vicini, chiusi in quell'ammasso di plastica per fortuna lavato? Un cassonetto resta sempre un cassonetto.
«Zuccato, non sarà questo il giorno in cui qualcuno mi rinchiuderà in un bidone delle immondizie.»
«Ma, Nanà, non essere malvagia. Io non sono un "qualcuno" qualsiasi e noi-» si interrompe ed è incredibilmente più forte di me, al punto che a nulla serve dimenarmi e strillare. «Noi siamo un binomioooooo!»
Strillo anch'io, mentre voliamo come razzi nel nostro bob verde scuro e freniamo contro il marciapiede del fondovalle. Passiamo una buona ora a ripetere la scena e ancora una volta un'azione che mi faceva paura con Marco è diventata un divertimento.
Poi seguono i soliti giochi da laurea, con le prese in giro al festeggiato, i questionari sconci, i travestimenti assurdi. E intanto Marco beve, mentre io mi trattengo, un piccolo dettaglio che mi impedisce di staccarmi con i piedi da terra.
Dove sono finite Tania e Valentina?
«Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta. Vendetta è stata compiuta!»
E cos'è questo ridacchiare che si mescola alle chitarre dei Gun's&Roses?
«Vedrai quando se ne accorgerà, gli si arricceranno quei ridicoli capelli da primadonna!»
«Che avete fatto?» mi intrometto, perché è evidente che l'ascia da guerra, prima dichiarata sepolta, sia stata dissotterrata. Le mie coinquiline diventano rigide quanto due guardie svizzere.
«Niente» dice Tania. Da mentitrice seriale, è impossibile stanarla.
«Sicura, Vale?»
Da non mentitrice seriale, è un gioco da ragazzi farla parlare. Mi bastano pochi indizi per arrivare a un'atroce verità: la tracolla di Yuri, un barattolo di colla, un mattone rosso e una matassa di nastro adesivo.
«Potremmo avere trafugato la borsa di Yuri, rubato le sue chiavi fucsia, recuperato un mattone dal laboratorio di ingegneria, inserito le chiavi nel foro del mattone, chiuso ogni buco con colla e nastro adesivo e...»
Valentina deglutisce: proprio non vuole confessare l'ultimo dettaglio. E Tania la sta prendendo a gomitate, come a dirle di sigillarsi le labbra con la stessa colla che hanno rubato.
«E poi potremmo avere buttato il mattone giù dal dirupo, lungo gli scalini che danno al centro!»
«Così quel maschilista non troverà mai le chiavi e morirà come un vecchio barbone sotto un ponte, al freddo e al gelo!» conclude Tania, ora troppo eccitata per non confessare il piano.
Ho bisogno che qualcuno mi porga una sedia, altrimenti rischierei di svenire. Ovviamente Marco sta giocando a braccio di ferro con Yuri e Picasso, e quindi la donzella deve fare da sé: recupero la sedia e mi ci getto.
«Ragazze, davvero non vi siete accorte che quelle erano le chiavi di casa nostra?»
Ho appena contagiato Valentina e Tania con la malattia di Casper. Cadaveriche, commentano che non è possibile, le hanno prese dalla borsa di Yuri. Sì, lo so è lunga da spiegare:
«L'ultima volta che è stato qui, per un errore, le mie chiavi sono rimaste a lui» noto. «Adesso per colpa vostra dovrò fare un duplicato!»
«Massì, le chiavi di casa le ho io. Poteva andare peggio» minimizza Tania.
La mezz'ora seguente tifo per Marco, mentre gioca contro Yuri alla corsa nei sacchi, ma non riesco a stare tranquilla. E se qualcuno trovasse il mattone? Ho un portachiavi fucsia con la scritta "Via delle Suore Orsoline numero 7", un invito a nozze per un ladro in cerca di una facile rapina.
«Torno subito, Marco!»
Tallono velocemente fino alla rampa di scalini. Un ritaglio di luce, prima che il sole tramonti, illumina il dirupo, centinaia di olivi nodosi che ne ricoprono ogni brandello di terra. Sarà una lenta ricerca.
«Stai scendendo?»
La voce mi fa trasalire e non ho bisogno di voltarmi per scoprire che alle mie spalle si è materializzato il portatore di due nomi e troppi soprannomi: Zeno Dante London.
«Io scendo alla fermata del bus» insiste. Mi si è messo accanto, la sua spalla che per merito del tacco dodici prestato da Tania sfiora la mia.
«Sto cercando una cosa» rivelo.
Sarebbe imbarazzante raccontare dell'ultima pazzia di Valentina e Tania.
«Sai che cosa dicono gli studenti di ingegneria di questi scalini?» mi chiede lui, dito puntato sui gradini di pietra che serpeggiano tra le bine di olivi.
Io mi limito a un no di testa.
«Dicono che quando si scendono, bisogna sempre partire con il piede sinistro!»
Mi fermo d'istinto, impiantata come un mulo su un gradino leggermente obliquo.
«Che assurdità» gli dico. Per fortuna siamo quasi giunti in fondo alla scalinata e a breve prenderà l'autobus. «Il piede sinistro non porta male?»
Zeno scende tre scalini, partendo rigorosamente con il piede sinistro. E anch'io, seppur con maggior incertezza, mi ritrovo a dare la priorità alla stessa gamba.
«Credo proprio di sì» conferma. Dà le spalle alla strada, lo sgommare delle ruote del bus che prende la curva a una marcia troppo alta. E in faccia ha quel solito sorriso alla Stregatto, che è poi quello di Marco, quello che ancora una volta rischia di gettarmi in gattabuia.
Zeno avvicina la mano al mio viso e mi sistema una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Muoverei un passo indietro, se non fosse per l'equilibrio instabile causato dal tacco.
«Sì» ripete Zeno. «Deve proprio portare male, perché ora che siamo in fondo, tornerai dai tuoi amici e chissà quando ti vedrò più.»
«Chi ti ha dato il mio numero di telefono?» gli chiedo d'istinto, memore dei primi messaggi ricevuti.
Lui alza la spalla, poi si gira di novanta gradi, un braccio alzato per fermare il bus.
«Sei la coinquilina di Tania Zocca» precisa, come se avessi posto una domanda ovvia.
«E tu...»
In che rapporti sei con Tania? Ma lui mi zittisce con un sorriso da cascamorto:
«Io sono stato molto fortunato a incontrarti».
Le porte del bus si spalancano e con un salto Zeno raggiunge il pianale, finge di obliterare il biglietto. A proposito di uscite ed entrate in grande stile, Yuri Conte ha trovato un degno rivale.
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