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Canestro matto (II)


Marco non riesce a capire come uno scricciolo di nemmeno tre chili, con lo sguardo adamantino e la zucca pelata, mi faccia piagnucolare tutte le volte che osservo la sua foto. Comprende ancor meno perché vada su di giri, quando Giacomo dice alla piccola "Non imparare da zia Nina", con tanto di indice alzato e vocina da cartone animato per far passare meglio il concetto. Soprassedendo sul "non imparare", è essere etichettata "zia" che mi commuove, anche se di fatto, a livello biologico, sono una comune nessuno.

Venire abbracciata nell'insieme di un DNA diverso dal mio mi fa realizzare che posso essere parte d'altro, non solo di un binomio, e che un giorno vorrò anche io avere una famiglia nella quale, ovviamente, non si può essere solo in due.

«Non hai istinto paterno, Marco» lo prendo in giro. Siamo sul terrazzo della Casa Rossa e la stagione è ancora troppo fredda per osare una gara di tuffi. Nonostante i buoni propositi di allontanarmi da lui, ci ritroviamo soli, su una coperta pizzicante di lana e con due lattine di tè alla pesca.

«Lasciamo l'istinto paterno al futuro!» si impunta lui, le gambe a penzoloni nel vuoto. «Abbiamo vent'anni e dovremmo pensare già ai figli e a mettere su famiglia?»

«Giusto» confermo. Per un attimo, il fatto che abbia pronunciato una parola di assenso gli strappa un sospiro di sollievo. È così preso a strimpellare la chitarra da non cogliere il tono sarcastico. «A vent'anni è sempre meglio andare a sbronzarsi tutte le notti e rimorchiare la prima francese disposta ad aprire la gambe.» Accordo mancato, nota spezzata. «Con il fatto che non indossano nemmeno le mutande hai la strada spianata.»

«Nina» mi prega. Mi sta mettendo sull'attenti, supplicandomi di lasciar perdere l'argomento Marie, perché colpevole di averci già allontanati troppo.

Non immagina che la battuta è stata pronunciata con un pizzico di malizia, ma priva di ogni rancore. Che Marie valesse quanto coppe con la briscola di bastoni l'ho capito nello stesso istante in cui l'ho vista.

«Un giorno a me piacerebbe» ammetto, piccola nelle spalle. Marco, troppo preso a riaccordare la chitarra, alza un sopracciglio. «Avere una famiglia.» Se guardo la linea dell'orizzonte, la posso quasi sfiorare. «Non adesso, ovviamente, tra qualche anno e con calma.»

Il fatto che abbia dilatato l'evento nello spazio non sembra convincerlo. Boccheggia un "Sì, beh, ma" che non sono delle note, bensì l'equivalente di un "Ma che stai dicendo?" e riprende a pizzicare le corde. Più mi ignora, più sulla linea dell'orizzonte si apre il mio sogno a occhi aperti.

«Inizierebbe tutto così» gli spiego. Mi alzo in piedi e piroetto su una punta. «Un giorno, aprirei la finestra della mia stanza.» Mimo il gesto con le braccia. «Prenderei un respiro a pieni polmoni. E capirei di avere una voglia matta di innamorarmi, di donare a un uomo il mio cuore al cento per cento, di fare tutte le pazzie che potrei pensare senza vergogna, ma con la consapevolezza che anche lui mi amerebbe con la stessa intensità.»

Marco si è dimenticato della chitarra. L'ha appoggiata sulla coperta a scacchi, vicino alle scarpe che ci siamo tolti – i suoi mocassini, le mie ballerine – e alla lattina vuota di tè che ha attirato una formica.

«Avrai voglia di innamorarti in un futuro molto lontano» mi dice. Non è una domanda, ma una constatazione. Pronuncia la frase come se fosse un versetto della Bibbia, una riga alla quale ogni fedele dovrebbe credere.

Io non lo faccio.

«No» confesso con una scrollata di spalle. E penso che per amare sia sempre tardi, perché non mi sono mai sentita viva come quando mi sono scoperta innamorata di Marco. «Credo di essere pronta già adesso.»

Le sue labbra sono schiuse in una domanda, le guance imperlate di sospetto. Non so quale doppio senso abbia attribuito alla nostra conversazione, ma sembra proprio che abbia stappato l'otre dei pensieri.

Nei giorni successivi resta a distanza di sicurezza, ad assorbire tutto il vino che gli ho versato in testa. Non lo sente Yuri, non lo sento io. E mi convinco che stia combinando qualche marachella, probabilmente adescando un'altra francese senza mutande, ma non mi allarmo: quando si sentirà pronto, sarà lui a tornare da me.

A volte, Marco, mi sembra che siamo cresciuti così distanti da non capirci.

«Hai impegni per il primo di maggio?»

Sussulto e mi porto una mano al cuore, vittima dello spavento.

«Marco! Vuoi farmi prendere un infarto?»

Sono al volante, ferma di fronte a un eterno semaforo rosso, in ritardo per andare da Biagio. Marco è sbucato dal nulla e si è appollaiato come Anacleto sul finestrino abbassato, fregandosene se mezza Viacampo gli stia strombazzando contro, perché il semaforo adesso è verde.

«Dai, sblocca la portiera e fammi salire!» mi ordina, quando un signore sulla gip gli dà del coglione.

«Quell'uomo deve essere un genio ad averlo capito prima di me» sospiro. Che Marco sa essere un coglione, intendo. Ma lui non recepisce, si siede scomposto sul sedile senza uno straccio di cintura e mi studia, sbattendo le palpebre come se avessi invertito mascara e rossetto.

«Che hai?» gli chiedo.

«Niente. Sei diversa.»

La stessa di ieri e di sempre.

«Voglio dire. Hai qualcosa che non ti ho mai visto prima.»

Risposta definitiva, la accendo: sto passando secoli con Valentina e assorbendo per osmosi l'acidità pungente delle sue risposte da scaricatore di porto.

Alla fine, Marco mi accompagna da Biagio e durante il tragitto mi aggiorna sulle ultime novità. Valter, storico allenatore della squadra di basket, ha proposto di radunare il vecchio team per un incontro nostalgico.

«Credo lo faccia per Biagio» ammette. I bei tempi in cui entrambi giocavano, sfidandosi a suon di spintonate e palle rubate! «Anna gli ha detto di quella storia.» Il tentato suicidio. Perché non lo possiamo chiamare con il suo nome? «E vorrebbe fare qualcosa, dare un segnale. Pensi che possa servire?»

Non so se ricordargli il suo passato glorioso lo possa aiutare o al contrario riempire di stizza e rancore. Fatto sta che il mio scetticismo viene smorzato dallo stesso Biagio:

«Tiratemi fuori da qui!»

E così per un gioco della sorte mi ritrovo in platea con Yuri, Biagio, Marlyn travestito da giocatore perché gli animali non possono entrare, e Anna che ha il malsano onere di tenere sott'occhio l'antica combriccola di debosciati.

Un vociare chiassoso riempie la palestra del nostro vecchio liceo, l'aria satura di applausi, grida e squilla di trombette da stadio. Non avrei mai immaginato che sugli spalti, sempre vuoti nelle ore di ginnastica, avrei trovato un giorno una tale folla di gente ammassata.

«Manco si fossero riunite le Spice Girls» bofonchia Yuri.

Si è addirittura portato il binocolo per studiare meglio la partita, intervento azzeccato perché dalla nostra posizione si intravedono molte teste dalle mille capigliature e pugni dimenati al cielo.

«Biagio!» sento urlare dal basso della cavea. Un uomo abbronzato e perfettamente in forma sventola la mano nodosa in un saluto. «Vieni in panchina con noi. Devi stare con la squadra.»

È Valter, identico all'ultima volta in cui l'ho visto, quando dopo l'orale della maturità cercavo Marco e lui mi indicava la via. Sembra che il tempo lo abbia ibernato e scongelato giusto per la rimpatriata dei suoi epigoni.

«Mi sorprende che tu abbia abbandonato il tuo nido d'amore per guardare una palla che rimbalza» dico a Yuri, mentre Biagio, Anna e un Marlyn mimetizzato nella divisa blu scendono dalle gradinate.

Marco, sempre in ritardo e maglia troppo aderente, si dispone in riga con i compagni di squadra, gli stessi che gli vedevo girare intorno quando da adolescente seguivo ogni partita.

«O mia madamigella» recita Yuri, senza uno straccio di trasporto. «Forse vorrebbe anche lei prendersi cura di qualche palla?»

Nemmeno adesso che l'arbitro ha fischiato il via e i giocatori saltano dietro al pallone sa trattenere i bollenti spiriti.

«Immagino che le palle in questione siano le tue» ribatto senza mezzi termini.

Lui si stampa un ghigno soddisfatto e in segno di vittoria sventola la bandierina con il nome di Marco che abbiamo realizzato al posto di uno striscione.

«Che vuoi farci?» mi chiede sornione. «Diventano frustrate, se una dolce fanciulla non dà loro il buongiorno e la buonanotte.»

È sempre dannatamente bravo a flirtare con i suoi doppi sensi per nulla velati. Io invece sono arrugginita. Le strilla della gente che si adira per un fallo o perché un giocatore si è fatto soffiare la palla mi impediscono di pensare.

E poi c'è Marco che catalizza tutta l'attenzione come la calamita più potente dell'intera galassia. Io, il solito pulviscolo ferruginoso, lo guardo dimenarsi nella divisa blu. E mentre scarta un avversario, mi sembra di rivedere il ragazzino smilzo che spintonava Biagio durante gli allenamenti settimanali. Ora le sue braccia sono toniche, i muscoli che si muovono scolpiti sottopelle. È un leone che ruggisce per sottomettere il branco. Quando i sudditi si inchinano in segno di rispetto, ne approfitta per saltare oltre, agganciarsi al canestro e segnare.

Solo allora, con quel sorriso da bambino, si gira verso di me con il pollice alzato.

Ce l'abbiamo fatta, Nanà.

Una morsa di nostalgia mi piega lo stomaco in un crampo, quella lacrima solitaria che credevo di avere annegato nel mare di aprile riempie le orbite di onde sinuose. E i sentimenti per Marco, quelli che mi sono messa nel taschino con le migliori intenzioni di voltare pagina, per un secondo scoppiano come un fuoco d'artificio a sorpresa.

«Forse la mano migliore per darti la buona notte è quella di una certa ricercatrice di ingegneria» dico di punto in bianco, la prima frase che mi passa per la testa, pur di ritrasformare quei vecchi sentimenti in carta straccia.

Yuri mi fissa di sbieco. «Capitolo chiuso. Ha pronunciato quella parola maledetta che inizia per N» mi spiega, il binocolo premuto sul naso e Marco che segna l'ennesimo canestro.

«Non ti voglio più vedere?»

«Quella è una frase, Adami» sbotta Yuri, lo sguardo distolto per un misero secondo dalla partita. «Non dovresti studiare lettere?» Era una battuta Yuri, respira! «Nozze.»

Un cubetto di ghiaccio invisibile scivola lungo la spina dorsale e non perché Marco sta urlando che non era fallo. È l'idea che dopo Giacomo un secondo protagonista della mia vita proceda nella linea del destino.

«Nozze» ripete Yuri. «La tomba del sesso.»

Tiro un respiro di sollievo: che sciocca! Come potevo dimenticarmi che lui è il grande Yuri Conte?

«Devi essere sempre così carnale» lo schernisco.

Solo in quell'istante, studiandolo con attenzione, mi lascio trascinare dall'angolazione del binocolo. E realizzo che l'arnese è troppo alzato per potere inquadrare Marco, ora un concentrato di sudore, adirato perché vuole vincere a tutti i costi.

«Tu non sei qui per la partita» affermo.

Lui schiocca la lingua sul palato, e io gli strappo il binocolo e cerco il vero obiettivo della sua presenza dietro la potenza delle lenti.

«Yuri.» Lo dico per metterlo in guardia, lo stesso tono che Valentina usa con Diesel per ordinarle di non fare la popò. «Yuri, ha il doppio dei tuoi anni, potrebbe essere tua madre...»

«Invece è la madre del numero 5, pensa un po'!»

Tronfio come un pavone che corteggia una platea sventolando la sua ruota regale, muove le labbra in un "dopo". E lei lo vede, certo che lo vede, perché è armata di binocolo quanto lui, splendida nel suo seno taglia quinta alla "Pamela Anderson", con le labbra così dilatate che sembrano ciambelle di salvataggio.

«Andiamo, Nina» sghignazza Yuri, di nuovo padrone del binocolo. «Non avrai sul serio pensato che me ne stessi seduto qui per il pivello!»

Sì!

«Oh Nin, tra te, lui e il vostro binomio fareste diventare matto perfino il canestro!»

Ora che me lo dice, mi sembra che il cesto di rete, sospeso nel vuoto, oscilli brillo per tutti i tiri e gli agganci tentati dai giocatori. Mio malgrado, ritorno una farfallina rossa vittima della tela del ragno. E vedo solo Marco che sorride per un tiro riuscito, i ricci umidicci scossi dalla gioia, il movimento sottopelle dei suoi muscoli, quando tenta un nuovo lancio. Il cervello mi prega di impuntare i talloni e resistere: non sarà l'ardore del sesso ad anestetizzare la ragione. Perché io e Marco siamo sempre stati più di un richiamo, più di semplice passione. E non importa se ha la mira calibrata, se i suoi scatti sono precisi, se sa zigzagare curvilineo tra i toraci degli avversari che lo vogliono placcare. Non importa nemmeno se le pupille non si vogliono schiodare da lui, incapaci di guardare altrove. Ho allenato la mia mente per rompere l'incantesimo, per smettere di bramare il tocco del suo tatto, come l'unico in grado di farmi sentire viva.

Lo hai deciso, Nina.

Te lo ha detto Valentina.

Te lo ha detto Massimo.

Te lo ha detto Biagio.

Te lo ha detto Stefano.

Te lo ha detto Celeste.

Te lo ha detto Ivan.

Te lo ha detto Nicola.

Te lo ha detto il mare.

Te lo ha detto lui.

Questo binomio vi ucciderà.

«Non sono fatti tutti per trovare il grande amore» sospira Yuri, al mio fianco, il binocolo buttato nella tracolla con la spilla degli AC/DC, partita finita, Marco che strilla abbracciato a Biagio per la vittoria conquistata. «Alcuni devono continuare a cercare.» Penso a Tania, a come si sia incaponita su un amore non corrisposto. «Alcuni lo hanno avuto sotto il naso da sempre e hanno faticato a capirlo.» Non è successo a Ivan e Caterina? «Forse devono ancora conoscerlo.» Yuri. «E forse c'è chi, bloccato nel passato, non lo incontrerà mai.»

Quando pronuncia quest'ultima sentenza, un fremito di paura ghiaccia il sangue nelle vene. E mentre Marco saluta Celeste con un bacio sulla guancia, la ringrazia per avere organizzato un buffet allo Yeti, un sospetto sinuoso mi avviluppa il cuore, che quella persona, bloccata in un eterno passato, non voglio e non posso essere io.

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