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C'era una volta (III)


Marco si stiracchia le braccia, un bambino che a fine fiaba dovrebbe mettersi sotto le coperte e dormire e invece, agganciato dal flusso delle parole, resiste alle palpebre pesanti. Ha un sorriso compiaciuto e sembra soddisfatto del finale.

«È una bella fiaba» commenta. «Sarebbe fantastico, non credi? Poterci teletrasportare qui quando ne abbiamo voglia, aprire la nostra parentesi rispetto alla vita di tutti giorni.»

Butto la schiena indietro e mi stendo sul pontile, l'umidità delle assi che penetra la stoffa del cappotto.

«Chissà?» sorrido poi. «Forse un giorno qualcuno lo inventerà, il teletrasporto.»

Marco mi imita e si sdraia sul pontile, testa piegata di lato per puntare gli occhi nei miei. Sembriamo davvero i due bambini della storia che ho appena raccontato.

«Nanà, quando lo inventeranno, saremo vecchi!» E forse avremo troppi acciacchi e poca voglia di smaterializzarci. Marco cerca la mia mano. «Però anche se sarò un arzillo ottantenne con la dentiera e le calvizie, lo userei subito per tornare da te.»

Porta il palmo alle labbra e lo bacia.

«Forse io sarò già morta» puntualizzo, la solita vena tragica. «O forse saremo vicini e non ce ne sarà bisogno.»

Corro ai ripari con pensieri felici, ma tra le nuvole deve nascondersi una grande distrazione: Marco smette di ascoltarmi e perde lo sguardo nel cielo.

Nei giorni successivi fugge più volte nel regno dei pensieri. Con un baluginio di terrore, collego questa distanza alla fine delle vacanze di Natale. Mancano pochi giorni e inizierà la maratona di esami, indiscussa protagonista di gennaio e febbraio. Poi il secondo periodo universitario, l'obbligo di allontanarmi da Marco. E quell'equilibrio ritrovato si trasformerà in uno strato di sale.

Tengo i cattivi pensieri per me, ma so che avviluppano anche la mente di Marco. Lo capisco nei pomeriggi che ci separano dall'Epifania, quando studiamo nella biblioteca di paese o ci concediamo una sosta al bar. Nessuno dei due confessa, abbiamo entrambi il terrore di innescare la miccia di una lite.

L'idea di dover sopportare un'ulteriore frattura mi costringe a bere piccoli sorsi dalla bottiglietta di plastica. Non ho detto addio ai momenti di crisi. Succedono quando meno me lo aspetto, a casa di Marco, in giro per Viacampo, con Yuri. Succede anche adesso, nella cucina della famiglia Iachemet. Io studio, Biagio scorre la pagina di Facebook.

Ultimamente siamo ai ferri corti.

«Credevo dovessimo studiare» lo sgrido. «Al serale non ti hanno dato nessun compito per le vacanze?»

Biagio alza una spalla e batte qualche parola sulla tastiera. Finge sia per la tesina, ma so benissimo che non ha fatto il logout da Facebook.

«Se vuoi studio con te» propongo. «A giugno hai l'esame di maturità, posso darti una mano a ripassare.»

«Sì, certo, maturità» bofonchia lui. Lo fa come se un incantatore lo avesse ipnotizzato.

«Ascolta, Biagio, sappiamo entrambi che i commissari saranno buoni con te.» Sono una stronza a dirlo, ma provano pena. Gli hanno regalato il quarto anno di liceo con delle verifiche pro forma e adesso vorrebbe sputarci sopra? «Però se ti presenti e lasci gli scritti in bianco o non spiccichi parola...»

Portatile chiuso di scatto. Salto sul posto, spaventata dal rumore. E anche Marlyn resta spiazzato. Si accuccia sulle piastrelle con gli occhioni intimoriti. Dal giorno dell'incidente in una sola altra occasione Biagio mi ha guardata con tanto odio: quando mi sono presentata a casa sua dopo mesi d'assenza.

Il telefono nuovo, un regalo di Marco, squilla, un sms:

Un tizio sta gettando sassi alla finestra della tua camera. Chiamo i carabinieri?

Proviene dalla vicina di casa, la storica vecchietta con vestaglia e bigodini che si apposta alla finestra armata di binocolo, pacchetto di grissini e settimana enigmistica.

Non serve, grazie, lo conosco.

«Ne riparliamo più tardi» dico a Biagio.

Il tizio che lancia sassi alla finestra è Marco. Non serve nemmeno raggiungerlo in giardino per averne conferma.

«Potevi scrivermi di uscire, senza rischiare di venire denunciato per effrazione!» gli dico.

Lo faccio saltare sul posto.

«Non avevo mai tirato niente alla tua finestra» mi fa notare. Poi riflette: «Per lo meno non credo. Nei film lo fanno sempre!»

Come ho potuto dubitare che Marco fosse cambiato?

«Che dovevi dirmi di così urgente?» gli chiedo.

Ho già recuperato il duplicato di chiavi per invitarlo a salire. Le originali giacciono accanto al cellulare vecchio, tra le rocce e le alghe del lago. E anche queste chiavi minacciano di fare una brutta fine, Marco le ruba e se le getta alle spalle.

«Dire niente. Soprattutto non qui. Seguimi.»

In macchina ascoltiamo la radio. Breakfast at Tiffany, canzone che associo a Tania e alle colazioni al bar. Mi chiedo come se la stia passando. Non la sento da Natale, da quando ho spacchettato il suo regalo di buone feste, tre flaconcini di Xanax chiusi in una scatola con un grande fiocco rosso.

«Camminiamo un po'» ordina Marco.

Ha guidato per quattro minuti, il tempo di ascoltare la canzone, il tempo di non pensare a che cosa si sia inventato, perché voglio godermi l'effetto sorpresa. E arriva. Quando ci troviamo al pontile, e sull'estremità, l'esatto punto dal quale siamo capitombolati in acqua, ci sono...

«Due seggioline rosse.»

Piccole e di legno, come nella fiaba. Sembrano quasi le seggioline degli elfi di Babbo Natale. E appena le raggiungo e le tocco, mi accorgo che sono davvero legate al pontile, con chiodi e colla.

«Marco, ma tu sei...»

Ti guardo incapace di respirare, come se avessi trasformato l'acqua del lago in un oceano di vino. E invece è solo una pazzia e mi rendo conto che l'uso di quel solo stia minimizzando il gesto, ma è un'azione così da te che mi sento finalmente a casa.

«Sul teletrasporto ci sto ancora lavorando» ridi. «Ma almeno adesso abbiamo anche noi un posto dove tornare.»

Fisso le assi storte e dipinte da veloci pennellate di rosso, per capire che queste seggioline le ha fatte Marco, in ogni doga ritagliata, chiodo martellato, passata di vernice. Le ha assemblate per rendere la fiaba vera, per farmi credere che sarà così anche per noi. Anche se non abbiamo il teletrasporto e la magia, noi due ci troveremo sempre.

Mi siedo sulla più vicina, lascio che Marco occupi il posto dell'altra.

«Che cos'è successo a Nomi?» mi chiede. «Valentina mi ha detto che stavi male. Anche adesso lo vedo, a volte, quando metti nella bottiglietta quelle gocce.»

Le seggioline si trasformano in un pretesto per sondare il passato e invitarmi a parlare di argomenti fino ad allora tralasciati.

«Nemmeno io ho capito come sia successo» confesso. Mi sento stupida e debole ad ammettere di essere crollata. «È accaduto all'improvviso. Una mattina mi sono svegliata e non riuscivo più a respirare. Finché ero concentrata sull'esame, sopravvivevo.»

Male, ma ce la facevo.

«Avevo un obiettivo: impressionare Crodelia; e ne ho fatto la mia unica ragione di vita.» Le nottate a studiare, tomi di libri extra imparati a memoria. «Ma poi ho superato l'esame e forse si è allentata la tensione, forse ho avuto troppo tempo per pensare.»

Gli attimi di quiete sono granelli di polvere che si depositano tra le fessure dei mobili e li intaccano. E ogni granello è un seme dal quale nasce un pensiero, spesso di dolore e frustrazione.

«Tu te ne sei approfittato.» Marco è stato il mio granello di polvere. «Appena ho abbassato le difese, sei tornato a perseguitarmi.»

I suoi occhi sono dei carboni incandescenti che bruciano l'anima. E vogliono illuminarla, assicurarsi che non resti nessuna zona d'ombra, nessuna bugia, nelle mie parole.

«Posso vedere le boccette?» mi chiede. Tiene il palmo alzato, segno che non si aspetta un rifiuto.

«Cos'è? Da bravo medico vuoi studiare le istruzioni?»

Ride che ci capirebbe poco, però sì, gli piacerebbe darci un'occhiata, e allora gli allungo i tre flaconi. Marco si alza in piedi, gode di un fascio di luce maggiore da quella posizione. E legge davvero gli ingredienti, paroline piccole che ho sempre felicemente ignorato.

Poi l'inimmaginabile. Un lancio secco.

«Marco!»

Le parole muoiono sovrastate dal tonfo delle bottigliette. Rompono la superficie dell'acqua e vanno giù, a picco, nel fondo del lago.

«Non ti servono più» mi dice.

Lo fa come se avesse il potere di decidere. Sarà pure un aspirante medico, ma non conosce i segnali del mio corpo, non ha idea di come ci si senta quando i palmi si inumidiscono e il cuore martella nel petto, assorbe ogni soffio di fiato.

«Ci sono io adesso» aggiunge. E mi intrappola le mani, quasi volesse passarmi la sua forza.

«Non c'eri» sussurro. «Non c'eri quando ho iniziato a prenderle.»

E non ci sarai quando riprenderà l'università e i chilometri di distanza torneranno a separarci.

«A volte, Nanà, mi chiedo come tu faccia a non accorgerti di niente.»

Il suono della sua voce getta il panico lontano. Anche quando libera le mani e si alza mezzo storto, sento di essere al sicuro. Forse perché si risiede sulla seggiolina rossa, come nella fiaba.

«Lo sai, Nanà? Da un mese mi accusi di non averti cercata. Ma io non avevo bisogno di cercarti. Lo direbbe anche uno dei tuoi dizionari da letterata, si cerca solo quello che si è perso. E come avrei potuto perderti, se in ogni giorno sono stato con te?»

Il cuore si gonfia di confusione. Marco non sa leggere le metafore, figurarsi crearle. E allora come avrebbe fatto a essere con me in ogni giorno?

«D'accordo» ride. Mani in alto quasi lo stessi arrestando. «Ogni giorno è un'esagerazione. Com'è che le chiamate voi letterati le esagerazioni?»

«Iperboli» risponde l'automatismo che muove le labbra.

«Giusto è un iperbole» conferma.

E scuote il capo a dire che lui e le figure retoriche si sono sempre capiti come un elefante e un pinguino ai Caraibi. Ma a non capire sono io.

«A volte ci andavo in facoltà» mi dice. «Il minimo indispensabile per reggere il gioco a mio padre. Solo che quando finivo le lezioni, guidavo come un pazzo per tornare da te.»

Non è mai successo. Non è tornato da me fino a dicembre.

«Non rientrava nei piani» racconta. «Dovevo lasciarti libera, ma avevo mille voci che fracassavano la testa a forza di strillare.»

E io mi aspetto che ti metta a gridare "scherzavo", le tue parole mi sembrano un miraggio di suono. Marco si schiarisce la gola e fa il verso di tante vocine diverse:

«Dov'è Nina? Che sta facendo? Sta bene? Oggi è il suo primo giorno di università, chissà come si troverà con i nuovi compagni?»

Adesso ride della sua stessa imitazione e scuote i ricci biondi, già mossi da un filo di vento. Quel soffio mi congela gli occhi e cava la voce, mi impedisce di interrompere il monologo con una domanda.

«Il primo giorno che ti ho vista, ti aspettavo fuori da Lettere. Mi nascondevo dietro un albero circondato da fazzoletti sporchi.» Non ci posso credere, non quando mi parla di un film colmo di effetti a sorpresa. «Devi averlo presente quell'albero, Nanà. È vicino all'arco di accesso e i fazzoletti sono quelli che puzzano di piscio.»

L'ho presente, è il gabinetto privato degli studenti universitari sbronzi. Fanno sempre sosta quando corrono a casa dopo la chiusura dell'ultimo bar, ma il tragitto è troppo lungo e c'è la necessità di una pausa pipì.

«Quel giorno ho scoperto dove abiti» rivela. «Indossavi i tacchi più alti che ti avessi mai visto addosso e un tubino nero aderente.» Il primo ingresso in facoltà, quando ho conosciuto Saul, colpa della missione Fattore Cu. «Eri così bella che non riuscivo a staccarti gli occhi di dosso.»

Ti volevo nella mia vita e ci sei sempre stato. Ti volevo raccontare i miei giorni all'università e li hai sempre saputi. Per questo, a differenza mia, non hai mai smesso di vedermi.

«Quando sono tornato a Bologna, ti cercavo tra la gente» racconti. «E ti immaginavo ondeggiare per le vie che portavano in facoltà. Qualcuna aveva i tuoi stessi vestiti, qualcuna la tua statura o il modo fastidioso di gesticolare troppo quando ti infervori.»

Mi sento così piccola e ignorante che vorrei affogare tra i supporti del pontile.

«Qualche donna sorrideva addirittura con la tua stessa sincerità» ammette Marco. «Ma il colore dei capelli no!» Colgo la battuta. «Quello non lo trovavo in nessuna.» Prendo una boccata d'aria per suggerire al cuore di rallentare il battito. «I tuoi capelli erano il dettaglio che mi portava a una dolorosa realizzazione: non eri con me.»

Per una tua decisione. Se me ne avessi dato la possibilità, avremmo potuto essere lontani nello spazio, vicini nella mente. Ma solleverei un nuovo polverone a fartelo notare e allora taccio.

«A volte, reduce da una bevuta, facevo a pugni con qualche galletto montato nelle retrovie di un bar. Non avevo nulla di personale contro quei tizi, ma dovevo sfogare la rabbia di non averti tra le mura della mia stessa città.»

Adesso sei tu a gesticolare, io paralizzata dal peso della storia, dalla cecità dei miei occhi che non hanno saputo vederti, anche se c'eri.

Ci sei sempre stato.

Ti stringi nelle spalle, protetto da un soffio di freddo, e riprendi a raccontare:

«Una sera una cameriera mi disse che non aveva importanza, se le mura di Bologna non ci contenevano. Il cielo era abbastanza grande da ospitarci entrambi.»

Classica frase oscena rubata da internet.

«Classica frase oscena rubata da internet.» Io lo penso, tu lo dici, di nuovo complici. «Solo che a me non bastava, non quando quel cielo era formato da intere galassie e stormi di nuvole che ci separavano, per la distanza di trecento chilometri.»

A me sarebbe bastato sapere che eri a Nomi, che sin dall'inizio non hai rinunciato al binomio, proprio come al di là dell'odio non ho fatto nemmeno io. Rido di fronte all'ennesima idiozia che hai commesso. Ed è una risata bagnata dalle lacrime che scorrono zitte sulle guance.

«La prima volta che sono venuto da te volevo assicurarmi che stessi bene» riveli, attento a fissarti la punta delle scarpe. «Che in qualche modo fossi riuscita a staccarti dal binomio. Tu non lo ammetterai mai, ma io non ho un millesimo del tuo coraggio.»

Sei sempre stato l'immenso rispetto alle mie paure.

«Vedi, Nina, quando lo vuoi, sai essere una montagna che non si lascia scalfire nemmeno da un uragano. Io invece sono una banderuola che cambia direzione, a seconda dello spirare del vento. Non dovevo tornare a Nomi dopo quella prima volta. Il mio voleva essere un addio silenzioso. Dovevo renderti libera e invitarti a vivere senza sottostare ai miei capricci.»

Come può esserti venuto in mente di rendermi libera, quando non sono pronta a staccare il laccio che mi lega a te?

«Ma ho fallito» confessi. Un giorno forse. Non ora, ora è troppo presto. «Potevo stare in aula con duecento persone, a un raduno di compagni di corso, a vedere un cinema con Lei.»

Celeste è Lei. Ma non la nomini per pudore e rispetto, perché siamo sulle nostre seggiole rosse, l'accesso al mondo parallelo. E Celeste è un elemento esterno. La piccola dolce Celeste ci può distruggere.

«I professori parlavano» continui a raccontare. «Gli attori recitavano, ma io passavo il tempo a consumare le lancette dell'orologio e i numeri dei giorni sul calendario, perché non vedevo l'ora di correre da te.»

E adesso un singhiozzo mi sfugge, rompe il monologo, ma sai già che sto piangendo. Non ti serve staccare lo sguardo dalle scarpe per capirlo. Per questo rinunci a guardarmi, perché il mio viso metterebbe un filtro alle parole.

«Tu non lo sai» riprendi a dire. «Ti ho accusata di essere un bisogno essenziale come l'aria che respiro.» Adesso lo hai scoperto? Io ci sono arrivata a diciassette anni, quando rinunciavi a uscire con me per la festa di Celeste. «E avrei voluto renderti partecipe di ogni mio singolo successo – ho passato medicina; per non parlare degli insuccessi – il radiologo!»

E io non c'ero. La perfetta metà del binomio, unita a te da quel +, si è persa questi momenti. In mezzo a tutto l'amore che si scioglie nel sangue, trovo qualche globulo d'odio: avresti dovuto impedirmi di scappare quella notte, alla Scalinata del Re.

«Non potevo più confidarmi con te dopo la festa di Yuri, Nanà.»

Pensavo di essere la sola a soffrire, che tu fossi balzato in avanti verso nuovi orizzonti. E invece nella linea del futuro camminavi ancora più indietro di me.

«Mi accontentavo di guardarti da lontano» mi dici. «Nascosto nell'ombra, di diventare spettatore invisibile della tua vita.»

Sei diventato invisibile proprio quando io ti chiamavo Nessuno.

«Io non capisco.» Finalmente la mia voce ha espresso ad alta voce quel pensiero che dall'inizio del monologo martella le tempie. «Stai dicendo che eri a Nomi con me? Per tutto questo tempo?»

Adesso Marco mi guarda:

«Almeno tre volte alla settimana.»

Mi sta prendendo in giro. È uno scherzo, una storia campata in aria solo per farmi del bene.

«È impossibile» gli dico. «Io ti avrei visto. E se non io, qualcuno ti avrebbe visto.»

Saul nota i dettagli, Tania mi tallona come un pulcino dalla mattina alla sera, Valentina mi guarda le spalle.

«Pensi che l'abbia inventato adesso, vero? Per farti stare bene!» Marco immagina la teoria che mi è sfrecciata in testa. Sì, lo penso. «Ma guarda, Nanà, che lo posso provare!»

E come?

«Ho imparato a memoria ogni tua singola abitudine e amicizia» confessa. Prende un grande respiro e si concentra nei miei occhi, perché i suoi sguardi sostengano la versione delle parole:

«La mattina vai sempre con Tania a fare colazione da Tiffany.» Potrebbe averglielo detto Tania stessa.

«Spesso lei è in pigiama, tu sempre in tiro.» Questo no, Tania non ammette di stare male.

«E quando nel weekend ti fermi a Nomi, accompagni Saul in chiesa.» E questo Tania non lo sa, nemmeno Vale.

«Lui ci va per studiare i rosoni e dipingere la gente, tu per una promessa fatta a Dio.» Per Biagio.

«A volte vi fermate a bere un aperitivo.» L'abbiamo fatto, in un piccolo bar di periferia. Dove ti nascondevi, Marco? Perché non ti ho visto?

«E in qualche occasione Saul ti ha presentato dei suoi amici, forse sarebbe più giusto dire colleghi.» Saul e amicizia sono parole che fanno a pugni.

«A fine novembre hai avuto il primo esame all'università. L'inizio è stato una tragedia.»

Si ferma per prendere fiato e anch'io devo ricordarmi di respirare. Ho l'aria morta sulle labbra. L'ossigeno si scorda di infilarsi nelle narici e di convincermi a respirare. Combacia tutto, ogni parola di Marco corrisponde al vero, anche l'esame.

«Saul ha lanciato male il libretto e lo ha fatto cadere sul davanzale della Benetton» ride Marco. Era lì, vicino a me. «Ma poi l'esame è andato benissimo.» Come fa a saperlo? «Ero lì!»

Ti avrei visto.

«Mi nascondevo dietro un libro di greco» confessi. «E tutti gli studenti ripassavano, ma quando hai iniziato a parlare...» Si interrompe. «Erano incantati dal suono della tua voce.»

Sapevi tutto di me, senza bisogno di un racconto. Quando io ti ho perso, tu non hai mai perso me.

«E poi ti ho vista prepararti con Tania per le feste» aggiungi. «Hai comprato una maschera da dama e vi siete fatte i capelli cotonati.»

E ancora io non ti ho visto, ma questa volta nemmeno tu hai visto la vera me: non ti sei accorto che stavo crollando.

«Lo vedi, Nanà? Non mi serviva il messaggio di Valentina per sapere dove eri.» E ancora con gli occhi incatenati ai miei: «L'ho sempre saputo.»

Sono io a rompere le occhiate che ci stiamo tirando, con il cuore talmente gonfio di novità che rischia di scoppiare. Ma anche se adesso ti credo, continuo a non capire.

«Perché?» ti chiedo. Un ultimo sguardo di ferro per sostenere il tuo. «Perché non mi hai chiamata?»

Perché in nessuna delle mille volte in cui mi hai seguita non hai fatto un passo falso per permettermi di scoprirti? Perché abbiamo dovuto aspettare mesi prima di riunirci? Perché nemmeno dopo avermi vista tra le braccia di Nicola, hai avuto il coraggio di riprendermi?

Adesso sei tu a restare ferito dalla domanda e ti fai piccolino nelle spalle, premi sul sedile della seggiolina per affondare e sparire dalla mia vista.

«Lo hai detto tu, ricordi?» Non so di che parli. «Che ti ho compromessa.» Quella notte, alla Scalinata del Re. «E non volevi più avermi nella tua vita.»

E tu hai pensato, anche solo per un secondo che fosse vero?

Per una volta sono io a fiondarmi nelle tue braccia. E per fortuna hai incollato le seggioline al pontile, altrimenti ci capovolgeremmo, un secondo tuffo in un lago di ghiaccio.

Resto così, avvinghiata al tuo collo e seduta per metà su di te, per metà sul legno rosso. Fino a pronunciare l'unica assoluta verità del binomio:

«Sei il solito stupido.»




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Note d'autrice

Che dire? Sono in ritardo "solo" di due mesi con la pubblicazione del capitolo. Sto proprio dando il peggio di me, al punto che non mi ricordo nemmeno dove sono arrivata con la storia. Spero di non avere fatto errori di copia / incolla o di avere saltato qualche capitolo.

Ormai si avvicinano le feste, ho un'ultima settimana di lavoro infuocata e poi... mi auguro di riuscire a essere più puntuale con l'aggiornamento. Sono doppiamente – se non più – imperdonabile, perché la storia è completa ed è solo una questione mentale imporsi di accedere a Wattpad e di condividerla con voi.

Grazie a chi aspetta sempre i miei tempi biblici e si prende sempre del tempo da dedicare alla mia storia.

A presto

Odiblue

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