C'era una volta (II)
In effetti qualcuno si diverte. Quando racconto a Marco la sceneggiata di Yuri, il mio ritrovato compagno di binomio ride per cinque minuti abbondanti. Camminiamo sul lungolago tra i sassolini grigi e bianchi che fanno ondeggiare i nostri passi. E mentre giochiamo a perdere l'equilibrio e a spintonarci l'uno contro l'altra, lasciamo che il nuovo anno e il suo gelo si chiudano sopra di noi in una campana di vetro.
Stiamo bene così, io e Marco, senza pretendere di essere amore o amicizia. Ci basta stare vicini per rinascere, nasconderci dietro quell'etichetta di binomio, ormai solo una parola, per proteggerci dal resto del mondo.
«Certo che finire a vivere con l'ex fiamma di Yuri è stato davvero un colpaccio» ride Marco. «Ma poi mi chiedo, come ha fatto Yuri a uscire con quella pazza?»
«Tania potrebbe replicare lo stesso» noto io. «Non possiamo definire il grande Yuri Conte il perfetto ritratto della sanità mentale.»
«Ma la tua Sister ha i capelli fucsia, Nanà, e cerca di spaventarmi facendo la medium invasata alla ricerca del punto O.»
Difficile replicare quando è realmente successo, impossibile non ridere a crepapelle, prevedibile ritrovarmi spintonata da Marco come punizione per la mia risata. E quando ribatto con una spinta più forte, Marco mi intrappola e infila le mani gelide sotto la sciarpa di angora.
«Marco, ti prego!»
Brividi lungo la spina dorsale.
«Non ridi più tanto adesso che ti ho in pugno, vero, Nanà?»
Rido a intervalli maggiori invece e inframezzo ogni frammento di risata con un gridolino acuto.
«D'accordo, lo confesso.» Ci sto bene nel suo pugno. Ci starei meglio se fosse riscaldato. «Il punto O non esiste!»
Lui smette di trafficare con la sciarpa, di gelarmi il collo con le mani.
«E perché non me l'hai detto subito?»
Non serve consultare oracoli per avere una risposta, ma io approfitto della sua confusione per passare all'azione. Percorro con i palmi i muscoli scolpiti, sotto il Woolrich e la felpa, il tessuto a nascondere i movimenti.
«Malvagia, sei malvagia, Nanà!»
È un flashback delle lotte che facevamo al fienile, ruzzolando tra gli steli d'erba e papaveri, ai piedi di uno steccato arso dal sole. E dovrei sentire il cuore inacidirsi di dolore al ricordo di quei giorni, nostalgia, perché non ci sarà un dopo a questa gara di screzi, ma quando le labbra si sfioreranno, tireremo un freno ai nostri desideri, torneremo distanti.
Marco arruffa i ricci sul collo libero dalla sciarpa, prigioniera del suo pugno.
E io non sono triste. Ho rischiato di perderlo. Averlo ritrovato mi basta.
«Non ti ho detto del punto O, perché ero arrabbiata» rivelo. «E poi vederti impietrito mentre lei faceva la pazza era l'unica gioia di quelle serate.»
Il grande e segreto piano di Tania Zocca per boicottare la Quinta Suora e farla saltare in aria, viaggio di sola andata per Bologna.
«Ma come?» replica Marco, fa il finto sconvolto. «E io non ero una gioia?»
Sappiamo entrambi che non lo eri.
«Lasciamo perdere.»
Siamo arrivati al pontile, lo stesso che ha assistito a una storica caduta e rinascita del binomio. E lo fisso con terrore e ammirazione, quasi il pontile fosse il mare di nebbia impetuoso che mi sovrasta, io il viandante che lo osserva, attratta e terrorizzata dal fascino mostruoso di un ricordo.
«Nina, io eviterei» mi dice Marco. Un balbettio fa ondeggiare la modulazione della voce. «Dopo che ci sei quasi annegata, io...»
Starei alla larga, ma ormai ho già percorso il pontile ad ampie falcate e sono giunta all'estremità, il labile confine che divide l'abisso dalla salvezza. Impalata quanto una polena a prua, contemplo il profondo oscuro, la trappola di ghiaccio che qualche giorno fa minacciava di inghiottirmi.
«Indietro.» Marco lo ordina, mentre mi strattona nel centro del pontile. «Margine di sicurezza con obbligo di rispetto. Un metro da ogni lato.» E mi salta intorno, al punto che potrebbe essere lui il soggetto a rischio caduta, non io.
«Marco, smettila di farla tanto lunga, ti prego.»
Mi siedo sul bordo del pontile, gambe a penzoloni e suole che sfiorano l'acqua. Restiamo a studiare la linea dell'orizzonte, le curve del lungolago che giocano a disegnare il profilo della costa.
«Che cosa hai fatto a Bologna, mentre ero a Nomi?» gli chiedo.
Marco increspa le sopracciglia, incuriosito dalla domanda. «Quello che fanno i normali studenti, immagino: trasloco, nuovi coinquilini, nuovi professori, qualche festa.»
Mi racconta del suo appartamento, un piccolo buco al quinto piano di una palazzina fatiscente. Divide la stanza con Nicholas Colombi, il fratello minore di Cris.
«Ma chi?» gli chiedo. «Cris l'amico di Ivan? Quello della pescicoltura in centro?»
Proprio lui, un tizio strambo che mangia solo sushi e beve litri di acqua frizzante. In questi pochi mesi a Bologna ne hanno combinate più Marco e Nicholas dell'unione di Tania, Saul e Valentina. A partire dal letto a castello montato nel ripostiglio, la loro stanza.
«Visto che non avevamo il martello, abbiamo fissato i chiodi con una bottiglia di aceto, ma poi di notte le travi non hanno retto» ride Marco. «E io mi sono trovato nel letto di Nicholas, al piano di sotto. Non ti dico Celeste, nella stanza lì in parte. Ha rischiato l'infarto!»
Celeste. Il nome tira una corda del cuore, una fitta di dolore al petto.
«E l'università?» domando per cambiare discorso. «Come ti sembra?»
Ha fatto la figura dello scemo il primo giorno, quando la professoressa si è presentata come Lucrezia Borgia. E Marco, dalla cavea, ha commentato a voce altissima: "Ti piacerebbe, eh?". Lo sa anche lui che la Borgia si scopava il fratello alla stragrande.
«Solo che quando la professoressa mi ha allungato la carta d'identità...»
«Si chiamava davvero Lucrezia Borgia» concludo. Una risata non riesce a svolazzare dai polmoni e a prendere suono. «Dai, ci sono altri professori. Avrai modo di riscattarti.»
Marco si lancia in un elenco di disavventure: vuole sezionare una rana, inverte le nomenclature, dorme in prima fila. Dovrei ridere, invece le corde del cuore tirano.
«E così l'ultimo professore mi ha detto che la mia unica aspirazione potrà essere ripiegare su radiologia» conclude, affranto.
«Beh, almeno pagano bene.»
«E secondo te mio padre approverebbe?»
Strattone definitivo al cuore. Mi piego in avanti per alleviare la fitta al petto. È il sintomo che dà il via a una catena di dolori, ma tengo il rimedio diluito in una comune bottiglietta d'acqua.
Bevo qualche sorso di Xanax, sotto lo sguardo confuso di Marco.
«Nina? Che succede?»
Gli dico "niente" con la testa, sto ancora deglutendo. L'acqua scorre amara in gola, solo trenta gocce ad averne alterato il sapore.
«Tutto bene» tossisco. «È solo che mi fa rabbia sentirti parlare di cose che non conosco.»
Credevo di voler conoscere ogni aspetto della tua vita, ma a sentirti parlare sbatto contro un muro chiodato: io non c'ero.
«Me lo hai chiesto tu.»
«Sono stata una stupida» concludo. Sentirti raccontare le tue esperienze è solo un enorme promemoria che mi rammenta la distanza. «Non dovremmo farlo mai più, di raccontarci che cosa ci succede quando siamo lontani.»
Marco strabuzza gli occhioni.
«Quello che facciamo all'università sono solo aspetti concreti» provo a spiegargli. «Come le storie d'amore, le piccole cose quotidiane. E noi siamo superiori, abbiamo un mondo solo per noi e al confronto tutto ciò che non lo riguarda è così piccolo da svanire.»
Gli occhi di Marco si riprendono dallo smarrimento e si illuminano di una scintilla, la stessa che trovavo nelle sue iridi azzurre, quando pensava una stranezza, o reputava geniale una mia proposta.
«Certo che siamo più grandi del resto del mondo, Nanà. Certo che siamo superiori a tutto.»
Però quando il resto del mondo prova a penetrare nella nostra realtà, perdiamo la bussola e ci sentiamo in balia di una tempesta magnetica.
«Dovremmo fare come nella storia delle seggioline rosse» dico allora. E di nuovo gli occhioni di Marco si confondono.
«L'hai appena inventata questa storia» mi accusa.
Che faccia tosta, non credere alle mie affermazioni!
«No, non è vero!» protesto. Ma Marco si fa sospettoso.
«E allora perché non ne ho mai sentito parlare?»
Buffetto sul naso.
«Perché sei uno zuccone e non hai mai letto un libro!»
Lui gonfia gli zigomi. Quando li distende, diventa un sognatore, curioso di possedere la chiave che gli apra la visuale su un nuovo mondo, quello delle fiabe.
«Allora me la racconti, Nanà?»
E io non mi tiro indietro.
*
In un paesino piccino piccino, fatto di gente normale e di bambini magici, vivevano un Lui e una Lei. Erano dei ragazzini e tutti credevano fossero solo dei sempliciotti. Ma dietro gli scherzi e i giochi, le capriole e le corse, nascondevano un bene più grande del bene stesso.
Non c'erano genitori, amici o scuola che potessero dividerli. E anche se litigavano, bastava un bacio o una carezza per garantire la pace.
Gli abitanti di quel paesino davano per vera una bizzarra teoria, che ognuno di loro fosse la reincarnazione di un oggetto. E così, in una vita passata, alcuni esistevano sotto forma di spazzole o martelli, altri come libri o giocattoli.
Ma c'era un unico oggetto che si adattava a Lui e Lei: una calamita gigantesca, perché, anche se piccini, tra di loro si era generato un fortissimo campo d'attrazione. Avevano provato a stare lontani, ma possedevano il potere magico di cercarsi e ritrovarsi all'infinito.
Quando subentrò la maggiore età, arrivarono gli imprevisti. Lui e Lei capirono che il loro mondo di balocchi, scherzi e divertimenti rappresentava la minima parte di un mondo più ampio, un pianeta con delle richieste da soddisfare: lo studio, il lavoro, la famiglia.
Queste richieste erano tante piccole calamite che emanavano un nuovo campo magnetico, una fonte di interferenze con il campo più importante, basato sull'amore e sull'affetto. Ne nacquero malintesi e liti. Lui e Lei si trovarono sballottati tra un desiderio e un obbligo. E per un attimo pensarono fosse finita: le piccole calamite erano diventate più forti, il loro campo d'attrazione aveva perso il suo potere magico.
Finché un giorno, dopo notti passate a piangere in cerca della strada di casa, il campo d'attrazione emanò un segnale fortissimo e li riportò sulla retta via. Lui e Lei capirono di non dover scegliere tra quel bene così grande e quelle calamite così piccole alle quali dovevano ubbidire.
E ce l'hanno fatta a sopravvivere, Nanà?
Certo. Crearono un rifugio che li proteggesse dalle tempeste della vita. La quotidianità e i doveri potevano procedere, ma Lui e Lei sapevano di avere un posto dove tornare, una persona con cui sentirsi liberi di essere sé stessi. E quando erano tristi o abbattuti, dimenticavano i chilometri che li dividevano e fingevano di trovarsi insieme. Allora recuperavano la forza di rimettersi in piedi e combattere.
Quindi si vedevano solo con l'immaginazione?
Ma no! Che fiaba sarebbe senza magia? Impararono a usare l'arma del teletrasporto. Bastava che si concentrassero intensamente e si ritrovavano vicini. Come luogo d'incontro scelsero il loro rifugio, un vecchio pontile, sulla cui estremità avevano incollato due piccole seggioline rosse.
Chi incollerebbe due seggioline rosse su un pontile?
Loro, ovviamente! Era un luogo da chiamare casa, dove tornare nei momenti di crisi, sapendo che ci sarebbe sempre stato qualcuno ad aspettarli.
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