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Back to (II)


Quando ritorno all'appartamento delle Suore, Marco e i miei coinquilini inscenano un vero e proprio interrogatorio, con tanto di macchina della verità e improvvisa alleanza tra patrizi e plebei.

«Si può sapere dove sei stata per due ore, scricciolo? In piena notte?»

Non sono che le nove e mezza di sera.

«E dove avresti messo la borsa della spesa, Nanà?»

Con un pizzico di arguzia da parte di Saul:

«Come se a Nomi esistessero supermercati aperti dopo le sette!»

Per mia fortuna sono brava a sviare dai loro quesiti a trabocchetto. Con Tania potrei parlare, con Valentina anche, ma l'idea di confessare a Marco il mio incontro con Nicola mi inacidisce lo stomaco: non si era detto che il mondo esterno non deve intaccare il mondo binomio? Gli affari intimi dovrebbero essere Top Secret. Che poi definire intimo il teatro con Nicola rende l'immagine di quanto sia triste la mia vita sentimentale!

Presto le paranoie riguardo all'argomento vengono annichilite, perché un nuovo dramma bussa alla porta, un dramma annunciato, facilmente immaginabile, eppure abilissimo nel diminuire quella sensazione di gioia illimitata che stavo provando: Marco non passa l'esame.

Sono io stessa ad accompagnarlo a Bologna per l'orale. Per due ore di fila resto nascosta in un bar con un tazzone di caffè al ginseng, spio dalla vetrata e scompaio dietro un giornale storto, quando una ragazza che somiglia a Celeste varca l'ingresso della facoltà.

Non voglio che mi riconosca.

Non esiste nessun motivo per cui non dovrei essere qui, nessun cartello fuori da Bologna con la scritta: "Nina non può entrare". Eppure, immergermi nella vita universitaria di Marco è ancora una volta uno strappo alle regole delle sedie rosse, una violenta fusione tra mondo reale e mondo binomio.

Mi sento come un'amante invitata al pranzo della domenica, quello in cui la nonna cucina e i trecento nipoti litigano per l'ultimo pezzo di torta sfoglia. E io, rannicchiata in un cantuccio, mi mangiucchio le unghie, perché fingo di essere la segretaria o una stagista e invece sono la donna che potrebbe frantumare la serenità di quella famiglia.

«Ho finito in fretta, vero?» mi dice Marco, sorridente nel suo menefreghismo.

«Perché sapevi tutto?»

«Ma perché non sapevo niente! Era inutile perdere una giornata e farti aspettare in questo bar. Ho fatto scena muta e via la scocciatura. Dai, torniamo a Nomi.»

Appunto, un'amante egoista che sta sgretolando una vita di progetti. È questa la sensazione che continua a tormentarmi nella settimana successiva: che Marco stia rinunciando ancora una volta al suo futuro, senza nemmeno rendersene conto.

«Sono riprese le lezioni» provo a farlo ragionare un giorno, mentre pranziamo da Tre Zenit. Ho solo mezz'ora di pausa prima della prossima lezione, Emina e Lisa che scelgono il vestito per sabato sera, Tania che ricopia i miei appunti in bella calligrafia.

«Lo vedo che sono riprese le lezioni, Nanà. È da dieci giorni che ti accompagno in facoltà, mi pensi davvero uno sciocco.»

«Le tue lezioni, Marco.»

Io non ho invertito le priorità e adesso mi auto-invito a qualche corso del secondo anno.

«Ah, Nanà, ti preoccupi sempre troppo!» Risucchia il frullato con il gorgheggio di una aspiraliquidi. «Vedrai che il secondo periodo andrà meglio, Celeste mi sta falsificando le firme e nessun insegnante potrà dirmi che non ho frequentato.»

«È per studiare che dovresti andare a lezione» lo rimprovero. Finisco il mio caffè amaro. «Non perché Celeste è talmente innamorata di te da essersi lobotomizzata il cervello.»

Devo confessare che quando penso a Celeste commetto sempre lo stesso identico errore: la sottovaluto.

Quando l'ho conosciuta, pensavo fosse semplicemente una brava ragazza, un libro impolverato da riscoprire perché mimetizzato in una biblioteca di bestsellers;

quando l'ho inserita nel mio gruppo, credevo mi fosse inferiore, perlomeno agli occhi di Marco;

e quando lei e Marco si sono lasciati, mi illudevo di averla finalmente reclusa in un vecchio capitolo.

E invece Celeste torna sempre, un boomerang che vola nelle mani del mittente e non conosce ostacoli. Celeste è onnipresente, testarda e tenace come nessuno. E Celeste sorprende, lo fa ai primi di marzo, quando la stagione si sta schiarendo e le cioccolate calde al bar stanno lasciando il posto ai gelati artigianali.

«Celeste è in aperta fase di ribellione» si sconvolge Marco.

Perché per ribellarsi non si trasferisce direttamente al Polo Nord? Rinchiudo la cattiveria nelle carceri del cuore, non ho più sedici anni.

«Che intendi dire?»

Un'idea dovrei averla, visto che i vestiti di Marco sono sparpagliati a terra nel salotto, una piramide confusa di calzini sciolti a biscia e magliette infagottate a pipistrello.

«Vuol dire che quella stronza con le chiappe tirate non mi firma più.» Marco che chiama il dolce angelo Innocenti "stronza con le chiappe tirate". «Non mi pareva di chiederle tanto, una firmetta veloce veloce, ma questa volta dice che non ne vuole sapere, che non ci vediamo da troppo, che non ce la fa più. E io dico, ma che mi lasci se non ce la fa più, invece che rompere i coglioni duecento ore al giorno!»

Mentre strilla, butta i capi di indumento in valigia. Lo ascolto senza più sconvolgermi, perché conosco bene i difetti della storia tra Marco e Celeste. Lei lo ama, lui la dà per scontata.

«Scusa, Nina.» Due pallottole di magliette nel borsone. «Non dovrei parlarti di queste cose, me lo avevi chiesto tu, niente mondo esterno e davvero io non voglio andare, però...»

«Vai.»

Marco resta a fissarmi a occhi sbarrati.

«Nanà, ma io, noi, insomma certo che vado, firmo e torno, però...»

«Ascolta, Marco. Resta a Bologna almeno una settimana, okay? Vedi come va, segui le lezioni, fa' pace con Celeste. Non puoi rinunciare alla tua vita per me, io non lo sto facendo.»

«Sì, però io... e tu...»

«Io starò bene.»

Marco resta spiazzato, un golfino grigio perlato tra le dita, i fili tirati dalle unghie che si imbrigliano nella trama a maglia larga. E mi studia senza battere le palpebre. È in cerca dell'imbroglio, crede stia tessendo una trappola.

«Sul serio, Marco. È diverso ora. Non ci stiamo separando per una rottura o un ti odio. Il nostro non sarà un addio, ma solo un ciao.»

Anche se adesso l'ugola ha emesso un tremore, spaventata dalla minaccia della solitudine, non cambierò idea. La tranquillizzo con un grande respiro e un sorriso sincero. È giusto che Marco frequenti medicina, e alla fine se ne convince anche lui. Si passa una mano nei capelli mossi.

«D'accordo» mi concede e si sforza di sorridere, un gesto identico al mio. «Che vuoi che sia una settimana di distanza, Nanà?»

Quando forza troppo il tono felice, lo immagino oscillare in un singhiozzo, correre in cucina e ammanettarsi al frigo, che mai e poi mai vorrebbe andarsene, però...

«Siamo stati lontani mesi» gli ricordo. «Odiandoci e disprezzandoci. Eppure, nonostante mille difficoltà, siamo sopravvissuti.»

Prima di realizzarlo mi sollevo sulle punte e lo stringo in un abbraccio fortissimo. E questa stretta è tanto potente e disperata che sento la cassa toracica scricchiolare, il cuore uscire dal corpo, smanioso di sfiorare quello di Marco.

«Sai che faccio, Nanà?» Orecchio al petto sento il suo respiro tremare. «In facoltà ci andrò vestito in modo buffo, per manifestare al rettore il mio profondo dissenso per la firma obbligatoria!»

Nella mezz'ora restante cerchiamo gli indumenti più assurdi: un sombrero, una camicia da cowboy, un papillon rosso. Conciato in questo collage di stramberie, lo vedo uscire dall'appartamento delle Suore, un immancabile sorriso in faccia, la preghiera di stare bene. In me trovo la convinzione di potercela fare: è solo una settimana.


*


«È il solito idiota.»

Così Nicola commenta la mia separazione da Marco, l'episodio che giusto ieri ha abbassato il livello di felicità nella parabola zero-mille. Mi sento come se un treno carico di lingotti mi avesse appena triturata. Appena mi sono ritrovata da sola, una morsa mi ha attanagliato lo stomaco. E fissare l'ombra di Marco... più che un aiuto, è stato un promemoria della sua assenza.

D'istinto avrei voluto chiamarlo, dirgli di avere cambiato idea, ma alla fine ho ingoiato in un boccone il mio egoismo e digitato il numero di Nicola. Ed eccoci qui, primo pomeriggio, tiepido sole di fine inverno, a mangiare un gelato all'esagono.

«Andiamo» lo rimprovero. «Non è sempre un idiota. Tu parti prevenuto, perché non l'hai mai sopportato!»

«Non è che non sopporto lui» dice Nicola. Gratta con la paletta il fondo della coppetta, un ultimo boccone di cioccolato extra-fondente. Sta cercando di dirmi che Marco gli è simpatico?

«Piano, non fraintendermi» si affretta ad aggiungere. Getta la coppetta nel cestino, mentre continuo ad assaporare il cono alla fragola e lo guardo tornare all'esagono. «Io e lui non saremo mai amici, ma se c'è qualcosa che davvero non sopporto è quel suo modo di fare melenso ed esagerato, manco fosse appena uscito da un romanzo Harmony versione adolescenziale.»

Bocca impastata di gelato e un pezzetto di cono tra i denti, mi sento incapace di controbattere. Marco che dipinge il binomio sul gesso, che inventa la storia delle Brooklyn, che mi porta al fienile, che corre quando sospetta un mio bisogno.

«Sei maledettamente ingiusto!» lo rimprovero.

Fingo di tenere il broncio, perché non possiedo argomentazioni valide per smontare l'accusa, ma Nicola sa che sto scherzando.

«A volte lo ammiro» confessa.

È parsimonioso di sguardi. La maggior parte del tempo parla senza mantenere il contatto visivo, e solo quando vuole sondare la reazione che ha scatenato, si concede un'occhiata: mi trova allibita, con la lingua agghiacciata sulla pallina gusto fragola.

«Tu ammiri Marco

Avesse appena etichettato Berlino come capitale dell'Italia, mi sarei sconvolta meno.

«Non lo zuccone» nega, prima che la situazione degeneri. «Ammiro il vostro rapporto.» Il binomio. «Fatico a comprendere come si possa legarsi tanto a una persona, creare un vincolo di fedeltà assoluta come avete fatto voi.»

Adesso è Nicola a esagerare, perché nel nostro trascorso io e Marco ci siamo spesso traditi e feriti a vicenda. Con Ivan, con Stefano, con Celeste.

«Non ne saresti capace?» gli chiedo. «Di amare incondizionatamente una persona da qui all'eternità?»

Nicola fugge di nuovo con lo sguardo nel nulla.

«Sì,» mi risponde, «lo so fare.»

E gli credo. Per come l'ho conosciuto, sempre circondato da un alone di giustizia e correttezza, quasi un tradimento o il solo cambiare giudizio su una persona fossero un peccato capitale.

«Allora perché il rapporto tra me e Marco ti sorprende tanto?»

«Perché è diverso. Che sentimenti così intensi viaggino su una strada a doppia corsia e non a senso unico... è questo a sorprendermi.»

Annuso l'odore di un amore non ricambiato. E con la velocità di un flash attivato dalla reflex, l'immagine di Anatolia si materializza tra parole e pensieri. La rivedo al To remember, mentre Nicola mi baciava.

Un favore per un favore.

Un gesto improvvisato per liberarsi di lei. Ed è chiaro che "amore" e "Anatolia" non sono parole che non appartengono alla stessa frase, non è lei la protagonista di un "amore non ricambiato", ma allora una donna di recente gli ha spezzato il cuore?

«Non riesco a capirti» dice Nicola.

Il che assume una sfumatura paradossale: Nicola sa tutto di me, io nulla della sua vita privata. E nonostante i pesi di conoscenza e ignoranza pendano a suo vantaggio, ha il coraggio di non capirmi.

«Non capisco perché ti spaventi tanto la distanza, quando hai imparato che niente può distruggervi» mi spiega.

Il problema è che ci mette troppa razionalità: quando ti allacci all'anima di una persona, finisci con l'uccidere ogni collegamento logico e ciò che è sensato non coincide mai con ciò che si prova.

«Mi manca» mi giustifico.

Nicola insiste: «Se due persone si amano sul serio, dovrebbero avere la pazienza di sapersi aspettare, anche per anni, anche nei periodi bui, anche quando devono mettersi da parte per rendere felice la propria metà».

È tutto dannatamente romantico detto da lui, ma come può tralasciare la disperazione, la passione, il provare sentimenti così grandi da non poter essere contenuti all'interno di un cuore?

«Io lo so che per il suo bene deve stare a Bologna e studiare.»

Almeno questo lo riconosco, mentre il gelato, ormai liquefatto, scivola appiccicoso tra le dita.

«E allora digli di farlo» dice Nicola. «Di studiare per una buona volta, a quello zuccone. Non crolla il mondo, se non vi vedete per una settimana o per un mese.»

Mi porge un fazzoletto.

«L'ho fatto, ma c'è una parte in me tanto egoista che impazzisce al pensiero di saperlo lontano.»

Mi piacerebbe avere una risposta o una soluzione al problema. Invece mi limito ad appicciare il fazzolettino alle dita, al punto che brandelli di carta si attaccano alla pelle, uniti dalla colla del gelato.

«Siete sempre stati insieme» commenta Nicola. «Nelle fasi importanti della vostra vita avete sempre saputo che vi bastava muovere un passo per riunirvi. E ora che i passi necessari coprono più di trecento chilometri, vi spaventa non avervi a portata di mano. Ti devi solo abituare alla distanza» dice, le mani sopra le mie, per requisire il fazzoletto di carta. «E non puoi pretendere di riuscirci in un solo giorno.»

È troppo buono con me, pensa sia solo una questione di "tempo" e invece ho il terrore che più le settimane passeranno meno mi abituerò all'assenza di Marco.

«Andiamo alla fontana» propone. «Hai fatto un disastro con quel gelato.»

Ci alziamo dall'esagono e puntiamo il centro della piazza. Quando risaliamo i tre gradini di pietra e raggiungiamo la coppa colma d'acqua, non faccio che prendermi in giro.

«Sai una cosa?» gli dico con le dita immerse. Anche Nicola le ha bagnate e ora, nel profondo della fontana, le muove verso le mie. «Credevo che Ivan fosse il perfetto consigliere con le sue filosofiche perle di saggezza e invece mi sbagliavo.»

Nicola si immobilizza, nel timore che faccia un nuovo confronto con suo fratello.

«Sei mille volte meglio di lui!»

Un grande sorriso, per un secondo, illumina il viso di Nicola, talmente rapido a sbocciare e appassire che un estraneo potrebbe scambiarlo per un'illusione.

«Allora mi ascolterai?» mi chiede. «Per la storia dello zuccone.»

Gli rispondo con un cenno, indeciso e tremolante, ma pur sempre un punto d'inizio: ci voglio provare.  

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