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Alice (III)


«Nina, Nina! Sveglia!»

Qualcuno mi chiama, una voce che conosco, assopita nei ricordi; una voce senza volto. Esco da un sonno lungo e pesante, così intontita da avere perso la cognizione del luogo e del tempo. Una spirale d'aria fresca mi culla nel silenzio, palpebre pesanti, la bocca secca di chi non parla da giorni.

«Nina! Coraggio! Svegliati! Non c'è tempo!»

Un grillo frinisce, l'erba mi solletica i gomiti. Il profumo di terriccio mi avvolge in una calda coperta dal gusto di natura.

«Nina!»

Scatto seduta, scosto i capelli dalla fronte imperlata, i raggi del sole che arrossano la pelle. E il campo di narcisi è così alto che i petali dorati potrebbero accarezzare l'azzurro del cielo.

Dove sono?

Ho bevuto: vodka, tequila, Paracetamolo, pasticche di sonniferi. Ma perché? I ricordi sono lucci che sguazzano in un fiume cristallino, io un pescatore incapace di prenderli a mani nude. Appena si avvicina un sentore di memoria, il ricordo scivola nello sciabordio della corrente.

Ho bevuto molto, ne ignoro il motivo, come sia arrivata qui. In macchina, o su Pink, o sulle scarpe. Ho la testa leggera, vuota di percezioni, come se la memoria fosse davvero un computer e un hacker dispettoso avesse pigiato il tasto reset.

Attorno a me non scorgo la cupola di un edificio, la ciminiera di una fabbrica, il profilo allampanato di un grattacielo. La linea dell'orizzonte è frastagliata solamente dai petali dei narcisi.

Arranco alcuni passi in avanti, le foglie che solleticano i gomiti, le radici che intrappolano i piedi. A ogni falcata mi illudo di scorgere un puntino all'orizzonte, la luce di un faro che riveli la posizione di un porto.

«C'è nessuno?»

«Veloce, Nina!»

«Come, se non so dove andare?»

La memoria si incanala verso una meta - alcol, valeriana, sonniferi - e sbam! Collide contro il muro, la testa fracassata, i ricordi frantumati in cocci di vetro. Forse ero al voltante, forse la macchina è uscita di lato, ma l'odore di benzina non impregna l'aria, né schegge di copertoni e carrozzeria costellano il campo di fiori.

«Corri, Nina! Non hai più tempo!»

La voce mi spinge da dietro e allora corro, come se un branco di leoni mi stesse tallonando. Alla fine collasso, stringo gli occhi e quando li riapro... c'è qualcosa in lontananza, l'ombra di una collina oltre la coltre di narcisi. Svetta sulla pianura di fiori, un modesto saliscendi, sulla sommità una quercia secolare e lì, appoggiato al tronco rugoso...

«Eri tu che mi chiamavi?»

Il ragazzino ha il volto coperto da un cappuccio azzurro, tirato fino alla base del naso. Ci dividono trenta metri in salita. Alterno un piede all'altro, mi aiuto con le mani, aggrappate a radici e sterpaglie, per inerpicare fino alla cima del pendio.

«Aspettami!» grido, ma la mia preghiera è una supplica inutile, perché quando arrivo alla quercia c'è solo il vuoto ad accogliermi. «Dove sei andato? Ti prego. Mi sono persa e non ricordo.»

Appoggio la schiena al tronco, i grilli che si ostinano a frinire, l'aria che profuma di miele e un luccichio mimetizzato tra due ciocche d'erba. Gattono verso quel segnale e trovo un piccolo orologio da taschino. Alzo il quadrante.

«Strano aggeggio. Ci sono due lancette.»

Quella azzurra segue il regolare corso del tempo, scocca a ogni secondo un passetto in avanti; quella rossa è un pulcino distratto che non segue mamma chioccia, ma si addormenta su un brandello di prato, non azzarda un singolo saltello.

«Tu devi essere rotta. Altrimenti ti muoveresti.»

Picchietto il dito sul vetro e tac! La lancetta rossa scatta, mossa dall'ingranaggio. Procedono a ritmo diverso: se l'azzurra compie un giro, la rossa ne porta a termine a stento mezzo.

«Nina, ti ho detto di correre. Il tempo è quasi finito!»

Giro su me stessa, ma il ragazzino non ha lasciato indizi, se non l'orologio. Allora torno indietro, così da lasciare una briciola di Pollicino per non perdere la via, ma proprio quando mi volto, i pantaloni tirano, imbrigliati in un uncino.

«E tu da dove sbuchi?»

Il cane mi guarda, attaccato ai jeans.

«Ti conosco! Tu sei... ma no, non sei lui.»

È una nuvola di pelo bianco, grande quanto una pecora, con due occhioni così buoni che è impossibile non ricordare il cane della mia infanzia: Virgilio. Viveva nel giardino dietro casa e si lasciava ingozzare di ogni cibaglia schifosa, pur di vedermi felice.

«Virgilio, sei davvero uguale a lui. Ti sei perso anche tu?»

Gli faccio le coccole dietro le orecchie, la lingua rosa che mi lecca il mento.

«Sai aiutarmi? Non ricordo come sia arrivata qui. Devo avere bevuto troppo e qualcuno mi ha tirato un brutto scherzo. Lo sai dove ci troviamo?» Il cane abbaia. «Grazie! Sei proprio un bravo cagnone! Mi porti da M...»

La voce si spacca, mi schiarisco la gola con un colpo di tosse.

«Mi porti da M...»

E di nuovo un taglio netto, la voce che rifiuta di pronunciare quel nome. M... non lo riesco nemmeno a pensare. Deglutisco, mi cimento in gargarismi di saliva.

«Perché non ci riesco? Cos'ho di sbagliato?»

«Nina, ti ho detto che non hai più tempo!»

Il cappuccio azzurro buca l'orizzonte nel punto che segna la discesa dal pendio opposto della collina.

«Aspettami!»

Virgilio morde il lembo della maglietta e mi trascina, come se la stoffa fosse un guinzaglio, io il cane e lui l'umana. Così inseguo il ragazzino, rotolo, cado, mi rialzo. E alla fine i fiori svaniscono, il cielo si infittisce dei rami di una foresta, liane di una giungla, a terra il fango.

Virgilio rallenta e anche io procedo di soppiatto, timorosa di imbattermi in un serpente velenoso o in una rana mortale. A poco a poco recupero aria, i polmoni immagazzinano una buona dose d'ossigeno. Il ragazzo è di nuovo scomparso, Virgilio al mio fianco, la lancetta rossa praticamente bloccata. Scavalco un tronco e affondo la scarpa da ginnastica in una pozzanghera, un gesto minimo, ma qualcosa si rompe, nel petto, il suono di una chitarra dalle corde recise.

«Virgilio» sussurro. «Virgilio.» Non respiro. La dispensa di ossigeno si è svuotata, la lancetta rossa impazzisce, insegue quella azzurra. Collasso, la fanghiglia sulla maglietta grigia, due pugni sul petto.

«Virgilio, non respiro.»

Mi lecca la faccia.

«Veloce, Nina.» Ragazzino, aiutami! «Non hai più tempo.»

Stringo le mani al collo e boccheggio, poi un identico rumore di chitarra e l'aria fluisce in gola.

«Hai visto che succede, se non ti sbrighi? Se non ti muovi, sarà troppo tardi.»

Tardi, per cosa?

Riprendo la marcia, piante botaniche che ricordano lo strano fogliame del Libro della Giungla. Ma laggiù, oltre le liane intrecciate e i gambi sinuosi, intravedo sagome umane che marciano nella mia direzione.

«C'è qualcuno, Virgilio! Qualcuno che ci può aiutare!»

La vista di ombre umane mi restituisce la forza di correre nella palude di melma. E sono davvero persone, silenziosissime, alcune da sole, altre a braccetto, con gli occhi puntati al suolo e gli abiti grigi indosso.

«Scusate! Sapete dove mi trovo? Mi sono persa e non ricordo...»

Schizzo da un ragazzo di vent'anni a una vecchietta con lo scialle da befana, ma le mie grida non raggiungono i loro timpani. Mi paro davanti a una giovane coppia, la donna mi scansa, scorrendomi di lato.

«Ma che maniere sono? Insomma, cosa siete! Sord-»

La parola mi muore in bocca.

«Le orecchie, Virgilio. Non hanno le orecchie!»

Né sotto i capelli biondi mossi dal vento, né all'attaccatura di una zazzera castana, o su un testone pelato dalla calvizie. Mi pizzico la pelle per destarmi dall'incubo e fa male, un segno rosso lasciato dalle dita: sono sveglia.

Se non mi possono sentire, forse saranno sensibili al tatto. Blocco un ragazzo per la maglietta grigia e gli studio il palmo. Una scritta in inchiostro nero, corsivo da libro pregiato, gli ricopre la coppa della mano:


Perché portare pazienza,

se puoi premere l'acceleratore?


Lascio la presa, la stoffa una lastra incandescente.

«Che significa?» chiedo a me stessa. E leggo un'altra mano:


Pensi sia una buona scorciatoia,

la corda?


E un'altra ancora:


Era solo un gioco.

Non doveva cadere.


«Chi si farebbe questi tatuaggi?»

Poi lo vedo sbucare dietro una pianta carnivora, con il viso smunto come nella foto sul giornale, le guance scavate, i capelli scarmigliati. E mi dico che è solo una somiglianza: su un necrologio in bianco e nero un adolescente morto si può scambiare con un adolescente vivo. L'amico di Tania, quello dell'incidente in macchina. Le gambe tremano, frustate dalla verga della paura.

«Tu sei davvero Virgilio?» chiedo al cane. «Tu sei lui, per questo mi hai aiutata, perché qui ci sono...»

Non posso pronunciare la parola, sarebbe un terribile controsenso.

«Questo significa che io sarei...»

Non lo posso davvero pensare. Morta? Oddio, l'ho fatto, l'ho pensato. Mi tappo la bocca con le mani, perché non è da dire a voce alta, nemmeno per errore, se lo farai, diventerà vero e tu non sei...

«Morta» lo dico.

La gola si spezza, ritorna il crack di chitarra fracassata, il fiato lontano, inutili pugni sul petto. Non respiro e non ha senso farlo, se io sono, se lo sono davvero, morta.

«Non ti distrarre, Nina! Hai poco tempo! Concentrati e vieni da me!»

Il ragazzino è tornato a prendermi. Metto a fuoco il suo mento, l'unico ritaglio che sbuca dal cappuccio azzurro.

Virgilio addenta la situazione e il braccialetto che mi ha regalato Valentina, mi strattona, per quanto non trovi la forza di procedere, perché non ha senso, queste persone sono morte e io so di non essere morta.

«Ahi!»

Un moscerino mi punge il palmo. Costringo Virgilio a rallentare, osservo la pelle e sussulto, l'ugola che trema smarrita e una scritta nera, in corsivo da libro pregiato, che si compone nella coppa della mano:


C'era una volta Nina...


Virgilio sbuffa mi trascina e mi sento smaterializzare, come se le particelle del mio corpo si stessero disgregando nel niente. Mi lancia in avanti, alla maniera di un giavellotto troppo pesante. E io volo, finché non mi schianto a terra.

Quando alzo gli occhi dalla scritta, traggo un sospiro di sollievo: niente più piante, fango, Virgilio, persone senza orecchie. L'incisione sulla pelle si è bloccata, la lancetta rossa è di nuovo ferma e il luogo è un comunissimo campo da basket, illuminato dai raggi del sole durante il meriggio.

Il ragazzino dal cappuccio si destreggia con un pallone in numeri alla Michael Jordan.

«Qui sei al sicuro» mi dice. Incastra il pallone bocciardato sottobraccio, si leva il cappuccio di dosso.

«Biagio?» Sono ancora sdraiata a terra, i palmi premuti sul terreno color mattone, la schiena piegata in una strana torsione. È proprio lui, a sedici anni, quando era un inarrestabile combinaguai.

«In persona!»

Mi tiro in ginocchio con il grillo che non sa trovare una spiegazione logica. Vorrei solo correre da lui e piangere a dirotto e abbracciarlo fortissimo e dirgli che mi dispiace, voglio tornare indietro, con lui, con quello che era.

«Qui il tempo non ci può sfiorare» mi dice. «Per questo la tua storia è in pausa, non sei ancora né viva né morta, solo in attesa di una scelta. Ma quando la lancetta rossa, il tempo reale, si sincronizzerà a quella azzurra, il tempo di questo mondo, per te sarà troppo tardi.»

Scuoto la testa, per cacciare la valanga di assurdità che mi sta occupando il cervello.

«Giochiamo a campana?» mi chiede. «O sei così scarsa che hai paura di perdere?»

Afferro il pallone al volo, ricordi senza preavviso: Grazie e scusa; Marco non risponde al telefono; arrivo a Viacampo; la porta scricchiola; Nicola è già arrivato e poi... formiche sale e pepe cancellano la memoria, danneggiamento del sistema.

«Non so più cosa sia reale. Non so più cosa ho trovato dietro quella porta, se tu sei...» Vivo, se io e Nicola abbiamo fatto in tempo. «Oppure...»

Biagio trattiene una risata nelle guance paffute, quelle che da adolescente riempiva di snack e anelli di sigaretta.

«Qui Nina ci sono le persone che non esistono più» rivela.

Piovono coltelli, punte affilate si conficcano nella carne. Nuovi flash nei ricordi, una corda piegata a cappio, io che fuggo sulla macchina di Zeno, Nicola che si scusa.

«Quindi...»

Quindi non ti ho salvato. Biagio piega la mano a dirmi di passargli la palla e si mette sul primo tratteggio del campo.

«Sono il Biagio del passato» mi dice. Un tiro e fa canestro. «Io sono quello che hai conosciuto nei primi anni di liceo.» Quando si dimenava come un pazzo al ritmo degli AC/DC. «Quello che limonava con Monica sui gradini delle scale antincendio, quello che puzzava di cane perché non aveva voglia di lavarsi.» Quanto ho ringraziato tua sorella per averti presentato la doccia? «Quello che tracannava litri di alcol, si credeva più invincibile di Superman senza kriptonite e voleva distruggere il mondo intero.» Un nuovo tiro, un nuovo canestro. «Ma sono anche quello che faceva pena in fisica, solo che non gli importava, perché come avrebbero potuto pochi numeri rovinargli la vita?» Quanti pomeriggi buttati nella speranza di farti capire una piccola nozione scientifica. «Avevo ragione a non studiare, perché i numeri non mi hanno ucciso.» Mi rigetta la palla, il mio turno di giocare. «Ci ha pensato un aneurisma.»

La pelle si alza in mille puntini. Non ti ha ucciso, sei sopravvissuto contro tutte le aspettative mediche.

«Invece sono morto, Nina. Adesso c'è quello nuovo. L'altro Biagio e tu non lo sopporti.» Scuoto la testa così forte che i pensieri negativi scappano dalle orecchie. E tiro anch'io, ma ho una pessima mira e la palla non va in buca. «Ti fa male sapere che non tornerò mai più, odi doverti abituare a lui. Lui è Biagio, io sono Biagio, solo che lui è ancora e io non sono più...»

«Biagio non parlava in modo così difficile» taglio corto. Recupero la palla e riconquisto la posizione sul primo trattino disegnato sul campo da gioco.

«Forse sono solo una proiezione della tua testa.» Mi ruba il pallone, si aggancia al canestro e fa un altro punto. «Proiezione in effetti è una parola più da te che da me.»

Non ci sto capendo più niente, colpa del meriggio, del viaggio nella palude, di questa conversazione così assurda che mi sento in Canto di Natale.

«Ho bevuto troppo, vero?» In realtà la colpa è dell'alcol. «Ho fatto un casino con la vodka e i sonniferi di mia madre e credo della Tachipirina.»

E adesso sono più allucinata di un tossicodipendente che mangia funghetti al posto di bon bon.

Almeno Biagio mi trova divertente: «Aggiungerei la tequila e la birra.» Con la velocità di un temporale estivo il viso si adombra. «Io sono morto per una deformazione genetica, tu solo perché sei una stupida.»

Scarica la sua rabbia tirandomi contro il pallone. E quando la curva di plastica preme sul petto, per l'impatto muovo un passo indietro, le suole lontane dal tratteggio di inizio.

«Non essere così crudele» lo supplico. «Dovevo solo smettere di pensare.»

Capirai che ho visto l'altro te con una corda al collo, quanto mi sia sentita fragile, uno specchio che si crepa in mille frantumi per la collisione con un sasso.

«E a che cosa dovevi pensare?» mi chiedi.

«A te.» Mi sembra ovvio. «Cioè a lui.» All'altro te. Mi sta facendo uscire di matto. E perché questa palla non vuole andare nel canestro? «Al nuovo Biagio, insomma...»

«Sì, lo so. È una vera rottura il nuovo me. Ancora non l'ha capito che Carli non vuole uscire con lui, che nessuna uscirà mai con uno come lui.» Si diverte a rigirare il dito nella piaga. «Ah, Nin! Non guardarmi così! Lui è lui e io sono io e non tornerò mai più da te, fattene una ragione.»

«Puoi smetterla di dirlo?» lo scongiuro, ragnatele di crepe che mi spaccano il cuore.

Lui alza una spalla, giusto per darmi il contentino, un cerotto malamente appiccicato sopra un ventricolo. «Allora?» mi chiede poi, recupera la palla. «Perché hai bevuto?» Anche a lui hanno tagliato le orecchie? «Dai, non dirmi che la colpa è solo dell'altro Biagio!»

La maschera si sfalda, i cocci si sbriciolano a terra e una luce abbagliante illumina l'angolo buio della coscienza. Pensieri, prima incomprensibili, sfilano in bella piazza, e lo capisco: il motivo per cui ho dovuto bere non era solo Biagio.

«È M...» Il nome muore in bocca. «Perché non riesco a dirlo?»

Biagio ride con le mani che gli reggono la pancia.

«Perché non mi piace!» confessa. Quindi è colpa sua. «Non mi piace come è diventato.» Ma se siete amici da sempre! «Non mi piace che non si prenda dalla vita quello che vuole, lui che una vita la ha ancora.» Ognuno è libero di compiere i propri errori. «Non mi piace perché è un inguaribile stupido.» Palleggia come se volesse bucare il campo da basket con una pallottola gigante di gomma. «Pitt zero!» strilla. Jolie e Pitt, il gioco che facevamo in spiaggia. «Lui è Pitt zero!» Si sfoga con due canestri, colpi che vanno a segno e gli fanno superare la metà partita, mentre io sono sempre al punto di inizio. Poi, con le mani arrossate dalla buccia del pallone, china il capo per chiedermi scusa.

«Nin, tu lo sai che non ti potrà piacere per sempre, vero?» La domanda è una freccia che perfora il petto. «Un giorno amerai qualcuno oltre a lui.» Stiamo andando fuori tema. «Non avrai una storia di sesso, inventata a caso.» Zeno. Ti sarò sembrata un'idiota quando mi facevo prendere a pugni. «Un giorno, vivrai un sentimento sincero, di euforia senza logica, una gioia inattesa.» Non rientra nella lista dei miei desideri. «Ti capiterà, anche se non lo vuoi.» Non esiste nulla più forte del binomio, quindi non mi innamorerò di nessun altro. «Nina, nessuno nel vostro mondo è legato dal filo rosso dell'eternità.» Un binomio è per sempre. Non lo tradirò, aprendo il mio cuore a un estraneo. «A volte quando ci si intestardisce a percorrere la strada dei ricordi non è più amore, solo ossessione.» Dannata palla, perché non entri in quello stupido cestino appeso? «Nina, non ti devi arrabbiare, né sentire in colpa. È un tuo diritto amare qualcuno che non sia lui.» Qualcuno che non sia Marco. Ecco, sono finalmente riuscita a pensare il suo nome. E ora che l'ho fatto, capisco che la proposta di Biagio è insensata. «A volte serve guardare oltre, cercare una boccata d'aria fresca, la purezza di un amore che ti faccia sentire libera.» Non l'ho pensato anch'io, quando guardavo Ivan e Caterina camminare al lago? «Forse un giorno troverai la persona giusta.» Biagio, mi stai facendo venire un attacco di orticaria. «O forse l'hai sempre conosciuta, solo che non l'hai mai vista.»

«Che c'entra?» Interrompo il suo vaniloquio. «Non capisco perché stiamo parlando di M...» Aspirapolvere in gola che assorbe il nome. Pugni lungo i fianchi e Biagio che nasconde una risata sotto i baffi che non ha. «Non ti ricordavo così dispettoso! L'hai fatto di nuovo!»

Bloccare il nome di Marco solo per un capriccio. Tento un ultimo canestro, ma niente, questo pallone è truccato e io, a campana, non ci so giocare.

«Fai pena a basket» mi dice Biagio. «Se non ti riesce un canestro, non potrai andartene da qui.»

Un cubetto di ghiaccio scivola lungo la spina dorsale, genera un brivido che serpeggia dalla nuca ai talloni. Andarmene da qui: dover scoprire perché l'altro Biagio l'ha fatto, ripensare a Marco, confrontarmi con Nicola.

«Forse non voglio andarmene.»

L'ha detto lui che qui sono al sicuro. Infatti, la lancetta rossa dormicchia, mentre quella azzurra si ostina a girare al battito di un secondo. Biagio sospira e muove un passo nella mia direzione.

«Tu devi andartene, Nin. Lo voglio io per te.» Dimenticavo che in questo mondo alternativo la mia opinione conta come una particella di polvere dispersa nel vento. Mi guardo intorno in cerca di Virgilio, perché mi aiuti a guadagnare del tempo, ma il suo ruolo di guida è terminato e ora è questo Biagio a scegliere il mio destino.

«Alza i gomiti» mi ordina. Le sue mani mi sfiorano la pelle e sono calde, come il corpo di un vivo. «Ecco, adesso tendi i polsi, pallone in alto. Prendi la mira, aspetta.»

Non sono io a tirare.

«Centro!» grida.

Mi concedo un sorriso, un soffio di vento fa oscillare i capelli. Con sé porta una voce, un richiamo lontano.

«Qualcuno mi sta chiamando.»

È il mio nome. Sembra che lo stiano urlando dalla cima di un monte e che l'eco l'abbia fatto risuonare in tutta la profondità della vallata. Biagio alza una spalla, a dirmi che non c'entra, poi mi stringe in un abbraccio scombinato.

«Nin, se intravedi qualcosa che ti fa stare bene, non devi avere paura di prenderlo.»

L'eco si fa più forte e il mio nome diventa un urlo che spacca i timpani, una voce che conosco: Nicola.

«Devi andare adesso» mi dice Biagio.

Ancora un attimo, ci sono molte cose che ti devo dire, non sono pronta. Ma lui mi spinge indietro, sfrutta entrambi i palmi per darmi lo slancio. La coda dell'occhio percepisce un fotogramma dell'orologio, la lancetta rossa che corre alla massima velocità, nelle orecchie un ultimo suono:

«Addio, Nin».

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