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Alice (II)


Mi vergogno di averti mentito. Ti chiedo scusa, ho avuto troppa paura di farti del male e non ho trovato in me quella lucidità necessaria per sostenerti. A volte ci illudiamo che una verità atroce possa ferire più di una spada e non capiamo che sono proprio le menzogne a uccidere le relazioni più stabili. Non volevo gettarti sulle spalle un peso così grande. Per un errore di valutazione non ho compreso che affrontare questo dramma insieme ci avrebbe fortificati, mentre tenerti all'oscuro di tutto ci ha indeboliti. Ho dimenticato che noi due funzioniamo, insieme, ma separati siamo troppo piccoli per non soccombere. Spero che saprai perdonarmi. Qualsiasi decisione prenderai, ti aspetto.

Nicola


Trovo un ritaglio di carta viola nella bussola delle lettere. Il foglio è di cartoleria e odora di primavera, profumo millefiori, sicuramente un cartoncino rubato alla cancelleria di sua madre. Sono parole di perdono, ma quel messaggio non mi addolcisce il cuore.

Per due giorni resto a letto e premo il cuscino così forte da soffocare nell'azzurro della federa. Quel colore celestiale per me è nero: tutto sbagliato, tutto da dimenticare, Dio è un pessimo regista, non sa gestire la più elementare delle trame.

E Nicola, il suo nome non lo possono nemmeno pensare. Genera il suono di unghie grattate su una lavagna di gesso nero. Io e Nicola, insieme. Non esiste. "Insieme funzioniamo, divisi no" così ha scritto, e io conosco questo motto: Together we stand, divided we fall.

Ma che c'entra Nicola, un personaggio secondario, con lo slogan del binomio? Sto percorrendo una deviazione rispetto a quello che avevo previsto e non riesco a rimettermi sulla carreggiata. È Marco, il traguardo.

Nicola, non dovevi esserci tu quella sera da Biagio, tu non dovevi rispondere al telefono, farti amare solo un secondo, ma con un'intensità tale da spazzare via il resto dell'universo, un potentissimo Big Bang, l'esplosione del secolo. Marco, spettava a lui sgommare su Floyd, rincuorarmi citando il mio nome, massaggiandomi le spalle, reggendomi per evitare di cadere.

Noi due funzioniamo, insieme, ma separati siamo troppo piccoli per non soccombere.

Invece no, Nicola. Tu sarai ancora in piedi, ma io cado. Anche se ci sei, precipito nel vuoto, il baratro in cui Alice sprofondò inseguendo un coniglio bianco sempre in ritardo, perché Marco non c'è e lui, sempre e solo lui, sarà il mio eterno Together we stand, divided we fall.

Urlo nel cuscino, la stoffa che silenzia un grido di guerra: che la vita sta passando e non è quella che volevo, non so come correggerla.

I giorni successivi si trasformano in un incubo. Punto gli occhi nella lampadina accesa dell'alogena, troppi gradi di luminosità che ubriacano la retina in macchie scomposte e celle di un alveare: sangue, falce, tanfo, scheletro, dita nodose, bulbi vitrei. Labbra raggrinzite, il viola di uno zombie, una cicatrice disperata:

"Dov'eri, Nina? Perché non mi hai salvato?"

Vermi gli escono dagli occhi, bucano le pupille dilatate; la pelle si disgrega, crepe e lombrichi che gli strisciano di bocca, la terra nel naso, una manciata di fango schiaffata in bocca, edera marcia ingroppata al collo.

Bevo alcol e valeriana. Mi calo in bocca pastiglie di sonniferi e Paracetamolo: voglio che la testa esploda.

"Hai sbagliato, Nina."

Non so dove.

"Avresti potuto fare di più per salvarlo."

Dimmi cosa.

"È troppo tardi, adesso."

Mi muovo scomposta per le strade di Viacampo, ondeggio in balia del caso, equilibrista ubriaca su una fune bianca, la linea a bordo strada. Una fune, come quella di Biagio.

E Marco non mi richiama. Vodafone, Vodafone, Vodafone.

E Nicola insiste. Nina, scusa. Scusa, scusa, scusa.

E Valentina è felice.

Perché non posso essere felice anch'io?

Opaco è il contorno degli occhi e i volti della gente sono bocche di Munch che gridano appena mi vedono, gettano urla pesanti: "Nina, è colpa tua! Con che coraggio sei uscita di casa?" Le strilla rimbombano in testa, un tamburo battuto a ritmo irregolare fracassa il cranio. Scricchiola, la macina dei pensieri. Non metto a fuoco la vista. Un lampione mi sorregge, un marciapiede mi ospita. Ansimo, in preda alle fiamme, un piromane che accende la miccia negli occhi.

Mi accascio a terra, puzza di asfalto e brina di smog, orecchio premuto al suolo, ascolta il rimbombo del battito di scarpe, e intanto studio il cuoio infeltrito, le chewing-gum sulle suole consumate.

Arranco verso il supermercato. Gli arti galleggiano a ogni passo, affondano se ci metto troppa convinzione. Incespico in file di passi tra le corsie del negozio, un cassiere brufoloso mi fissa, orribili verruche nelle guance.

Qualcosa da bere.

Camomilla. In filtro. Rido, un singulto scomposto che spacca le labbra. Giacomo sta diventando padre, è felice, fa la camomilla. E Biagio si stava per suicidare. Non ricordo, non ho capito: l'ha fatto? Confezione in mano, venti filtri, ma un filtro non si beve. Vodka alla fragola, quaranta gradi, liquida e dolce, e ora la cassa. Banconota da cinquanta sul rullo nero, scorre.

«Dieci euro e venti.» Prendo la bottiglia per il tappo, la camomilla per l'angolo del cartone. «Signorina, il resto!»

C'è un tizio sulla panchina con il gratta e vinci in mano, maschera grigia, pelle di cenere, capelli di cemento, tanfo di fumo. La moneta da un euro gratta su un riquadro, polvere d'oro che vola nell'aria, e gambe che cedono, mi siedo.

«Nina, va tutto bene? Non hai una bella cera.»

Mio zio.

«Sei sicura che vada tutto bene?»

Lui non va bene, lo percepisco nell'aria che respiro, pugnali di dicembre intramezzati a nubi di Marlboro. Mi odia e allora io odio lui, perché non ha senso essere buoni, se il mondo ha deciso che gli onesti sono i primi a morire. E adesso non ricordo: Biagio è morto? Lo ha salvato Nicola o solo la mia immaginazione?

«Sto bene» rispondo. La saliva è alcol infuocato. Alcol, come la vodka nella busta trasparente, impossibile non sentire l'aroma di fragola appiccicato all'etichetta.

«Che ci fai con quella, Nina? Non vorrai berla tutta?»

La camomilla.

«Non è per me» mi giustifico. «L'ho presa per errore.»

«Ascolta, Nina, è da un po' che ti voglio parlare.» Le sue labbra increspano falsi sorrisi. «Non hai freddo senza cappotto?» Più respiro, più le fiamme dell'Inferno mi avvolgono. Inferno, è lì dove vanno i colpevoli, gli assassini, i traditori. E Biagio dove sarà adesso? «Hai bisogno che ti riaccompagni a casa?»

Mi alzo. Starò meglio quando scomparirà dalla mia vista.

«Non volevo disturbarti» si giustifica. Mi disturbi da una vita, come quella sera al ristorante, all'anniversario dei nonni. Ridevi quando parlavi di Biagio, mi dicevi che se non avessi staccato la bocca dal calice, sarei finita come lui, con il cervello esploso in un gavettone di sangue. «Ti devo delle scuse, però. Per come ti ho trattata in questi anni.» È primissima mattina, ho sonno, voglio andare a casa, sdraiarmi e non pensare. Se accetto le scuse, mi lasci andare? «Ero arrabbiato con il mondo perché tu sembravi perfetta e mio figlio...» Ridi, allora sei felice. «Mio figlio non era come volevo.»

Perché io non sono felice?

«Abbiamo litigato spesso per le compagnie che frequenta, ma adesso va meglio.» Si alza. Mi saluta con una stretta sulla spalla. «Ho capito che non si ama davvero una persona, se non la si accetta fino in fondo.»

Io non lo accetto che Biagio sia morto, che Marco mi abbia lasciata, che la vodka non si apre, il tappo è sigillato, l'unghia non lo taglia. Zio, mi aiuti? Ma lui è lontano. Gola prosciugata, e quel tamburo sempre più forte martella sulle tempie.

Qualcosa da bere.

L'Hdemia è un buco ed è chiusa fino a mezzogiorno. Tranne oggi, primissima mattina e un pallone di luna piena che si staglia in mezzo al cielo. Un pugno di opaco negli occhi confonde i passi, uno sbagliato e cadrò, ma Dio mi aiuta, mi porta al bancone.

Primissima mattina e quanta gente tracanna birra sotto il led acceso e il calcio alla tv? Le dita di Simone spinano boccali, si muovono aggraziate come falangi di un pianista, fondi di cristalli che battono sul bancone, sgabello storto che mi accoglie.

«Cugina?» Sopracciglio alzato. «Che ci fai qui?»

Primissima mattina, università che chiama tra i banchi, ma io non posso, non ora che Biagio...

«Non vedo bene.»

Simone mi studia con la coda dell'occhio.

«Giornata grigia, allora!» Perché urla? «Evento raro vederti da queste parti. A quanto pare la sorte, come dite voi secchioni, arride al sottoscritto!»

Cassa che sbatte, sportello chiuso, banconota infilata sotto la graffa. E la gente urla, gooool!

«Tieni.» Una scia di odore risale per le narici, nuova martellata sulle tempie. Simone mi invita a prendere il bicchierino. «Bevi, tequila di prima qualità. Hai l'aria di chi ne ha bisogno. E poi oggi festeggiamo!»

Brucia, un solo sorso, pugnala il tragitto fino allo stomaco. E Simone ride, dice che qualcuno ha sete, quel qualcuno sono io. Sì, ho sete, ho caldo, ho una miccia negli occhi, il fuoco serpeggia sull'epidermide, è veleno.

«Mio padre ha ripreso a finanziarmi l'Hdemia, sai?» Due shottini. «Dice che mi accetta per quello che sono e si è proposto addirittura di pagare l'affitto di un appartamento per me e Donatello, credo siano i postumi del senso di colpa o un tentativo forzato di accettarmi nonostante i miei gusti sessuali.»

Tre shottini.

«Quindi, cugina, brindiamo! Anche se sono di servizio e non si potrebbe! Però sono o non sono il capo?»

E quattro.

Palla in rete. Simone grida. Goooool! Grido anch'io, un sussurro tra le labbra. Non ho più un concerto in testa, non riecheggiano le urla dei clienti dell'Hdemia, né gli improperi di Chris e Tiziano che nell'angolo giocano a morra. C'è silenzio, si è rotto il martello che trapana le tempie.

Simone muove le labbra in parole, fa il ventriloquo. Shottino allungato, festeggiamo, va bene, sto bene. Tequila in gola, bicchiere in mano, e lampi azzurri in mezzo gli occhi. Rido:

«È tutto blu!»

«Che hai detto, Nina?» mi chiede Simone. Parla di nuovo, mi sventola la mano davanti agli occhi, ma il blu resta e ora Chris e Tiziano sono in piedi ed è di nuovo gooool, nessuno grida, silenzio in aula!

«Guarda! Una sigaretta!»

È caduta a terra, ancora accesa. Qualcuno la raccolga! Devo farlo io. Ci provo, ma Simone mi ferma, niente sigaretta per Nina, sta ferma, sullo sgabello, quanto hai bevuto?

Chi lo dice, chi lo pensa. La porta è aperta, la giostra gira, il ragazzo entra. Splende di rosso. È splendido come si muova a rallentatore, come il profilo sbiadito bruci il blu, mi riempia gli occhi di rosso.

«Se raccoglie la sigaretta, gli chiedo di uscire.»

Si piega, dita a forbice per catturare il mozzicone, accartocciato a fisarmonica come la carcassa di Biagio. Biagio sul marciapiede, Biagio nella corda. Una manata alle tempie, più veloce la giostra, voglio un'altra scena. Mi stringo all'asta del cavallo e il carillon ruota, il ragazzo si avvicina.

«Esci con me?»

L'ho chiesto.

Strizzo le palpebre per cercare i suoi lineamenti sfocati, e intanto la giostra sgomma, il cavallo si imbizzarrisce. Gli cadrei di groppa, se un abbraccio di rosso non mi stringesse.

«Nicola...»

Mio cugino parla, dice "Nicola" al ragazzo che splende di rosso. No, Nicola non esiste. Marco. Ferma la giostra, Marco. La giostra che sgomma, ruota, si torce, e le mani scivolano dal palo della briglia, la testa impazzita.

«Altro che barista. Sei un coglione.»

Marco, con chi ce l'hai? Mi stringe a sé, giù di sella, Nina. Nicola, no, non è Nicola, è Marco. Simone, smetti di sbagliare nome. Affondo il viso nel suo petto.

"Vuoi uscire con me?"

«Si può sapere quanto l'hai fatta bere?»

Mi stringo alla sua giacca.

La testa è impazzita.

La giostra sgomma, ruota, si torce, volteggia.

«Ah, quindi sarebbe colpa mia, adesso?» Non gridare, Simone. La giostra... «Se non voleva bere, bastava dire di no.»

Troppo veloce.

Marco mi accarezza la testa. Marco e non Nicola, Nicola non c'entra. Marco è il rosso, Nicola sbiadito. Marco è il mio tutto, Nicola un niente e la giostra gira, ho paura, il cavallo non frena.

«Forse non ce la faceva a dire di no, non l'hai pensato? Merda, sei proprio un fottuto coglione.»

Non gridare, Marco, spaventi il cavallo, ha rotto il palo, corre sulla giostra, il blu mi mangia, il rosso scompare, ora è nero.

«Marco» sussurro.

Il petto si irrigidisce, le mani del ragazzo si scostano e io cado. Non lasciarmi cadere!

Gli zoccoli rimbombano, la testa scoppia.

«Forza, Nina, ti porto a casa.»

Non così. Devi fermare la giostra. Sgomma, ruota, si torce impazzita. Confonde le stelle, il cielo è nero, palline di un Flipper inceppato, scie vorticose di fuochi filanti.

«Resisti, forza, ancora pochi passi. Ho la macchina qui vicino.»

Marco, perché non mi ascolti? La testa, la giostra, il cavallo.

«Fermate la giostra.»

La giostra.

Fermatela.

Piano.

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