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A mezzanotte e tre (II)


Archiviate le paranoie e i miei "E se", mi faccio convincere da Nicola a riprendere l'università. Sono colpevole di avere allontanato anche lui dalle lezioni e dal tram tram degli appunti. Anzi, il vero colpevole è Marco, la scelta di recidere il filo che ci lega con un netto taglio di forbici. Per una settimana sono rimasta penzolante nel vuoto, a tendere la mano, nell'attesa che ci ripensasse e che corresse da me. Ma Marco non ha compiuto quel movimento e così ha tagliato anche l'illusione di un ripensamento.

Passato il trauma iniziale, tracannati litri di caffeina per trovare la forza di andare avanti, ho tirato fuori un coraggio d'acciaio, un'energia che mi fa sembrare più fanatica di Anatolia quando sostiene la sua causa femminista, e mi sono ributtata a capofitto nell'università e nello studio. Non sarà come quella volta, dopo la Scalinata del Re, quando stavo male per lui. Nessuna persona dotata di intelligenza dovrebbe ricadere sulla casella dello stesso errore.

Però lo richiamo, in quegli attimi di tentazione prima di andare a dormire, faccio una veloce telefonata che sbatte sempre contro il cellulare staccato. E sono sicura che è così: Marco se ne è andato, da più di un mese, e questi giorni, trascorsi con un buco nel centro del petto, non sono il frutto di un incubo a occhi aperti.

La presenza di Nicola è un gigantesco promemoria: se lui è con me, è per sostenermi proprio perché Marco è fuggito; per provare a riempire quel vuoto così grande da essere il mio buco dell'ozono personale, una voragine che risucchia ogni sensazione di gioia.

Con Nicola mi trovo sorprendentemente bene. Stare con lui equivale a respirare una potentissima boccata d'aria fresca, dopo attimi in cui minacciavo di svenire per il tanfo dell'abbandono. Nei pomeriggi passati a camminare per Nomi, in quelle volte in cui mi aspetta fuori dall'università, nelle sere davanti a una pizza o a un cineforum in coreano, quelli che lui come me sa digerire, riscopro il sapore di una risata, del vivere a cuor leggero.

Ne divento dipendente, ma no... sto esagerando, ingigantendo una sensazione che paragonata al binomio, a quel che io e Marco eravamo, è così piccola che è persino sciocco farne il confronto.

«Mi dice ultimamente dove ha la testa?» mi chiede Crodelia al termine di una lezione di letteratura greca. Primi di dicembre e mi ha invitata a un corso del terzo anno per assaggiare argomenti più complicati; io ho passato l'ora con la mente che dondolava tra Marco e Nicola.

«Lo sta facendo anche adesso» mi accusa Crodelia, quando la mia risposta non arriva. «Invece che parlare, ha imbastito chissà quale genere di riflessione antropologica nel suo cervelletto superdotato.»

Un improvviso senso di maleducazione mi rimette dritta sulla sedia.

«Scusi, professoressa, un genere di riflessione su che cosa?»

È sempre lento il risveglio dal mondo della paranoia.

«Uomini, Adami. Riflessione antropologica. Uomini» sospira. Si scosta una ciocca platino dal viso. «Io sto puntando su di Lei e Lei sta perdendo il suo tempo, fantasticando sugli uomini.»

Affondo nel quaderno bianco, quello che ho imbrattato con alcuni disegni di violette, altro che greco.

«Ha ragione, professoressa» mi scuso. «Io non so cosa mi stia prendendo.»

"Ma certo che lo sai, Nina. Marco ti ha lasciata, i mesi passano e lui non si fa sentire. E tu sei sola, ti stai aggrappando a tutti gli appigli che ti porgono per farcela. E a volte hai paura che Nicola sia un passatempo, che non significhi niente per te."

«Adami, forse le mie disquisizioni le recano noia?»

«No, no assolutamente!» Dio, ho appena offeso un luminare della letteratura greca! «Mi scusi, devo averle dato l'idea sbagliata.»

Crodelia inarca le labbra di un mezzo sorriso, una linea storta che le taglia il mento a metà. Si allontana dal banco. No, non starà puntando la porta?

Scatto in piedi per inseguirla, per aggrapparmi alle sue gambe ricoperte da vene varicose e scongiurarla di darmi una seconda possibilità. Ma Crodelia non è Marco, lei non mi abbandona.

«Bene, allora» mi dice. È la cattedra la sua meta, quel tavolo di laminato verde che ospita plichi di libri e appunti. «Se lei è davvero convinta della sua scelta, credo sia arrivato il momento di lanciarle una vera sfida.»

Scartabella l'agenda degli appunti, così voluminosa da sembrare un dizionario, si ferma a metà, studia il contenuto di una pagina e legge. Legge... come se non esistessi, come se fosse sotto un ombrellone in riva al mare e stesse ignorando il venditore di cocco. Cocco bello! Io sono quel venditore di cocco, dannazione.

«Professoressa, mi scusi. Potrebbe essere più chiara?»

Lei fa un ghigno soddisfatto, perché per cinque minuti sono rimasta ancorata al mondo reale, senza fuggire nel reame dei pensieri per le mie "riflessioni antropologiche". Con un tonfo chiude l'agenda e la ripone sul tavolo, accanto alla scheda con alcune versioni di greco.

«Sa che cosa ho appena letto, Adami?» Ovviamente no. «La sua prima versione, il testo grazie al quale è subito eccelsa rispetto alla plebaglia di questo corso.» La traduzione dal Simposio, quella che avevo esposto davanti al resto della classe e mi aveva portata a un superlativo complimento: la crème de la crème. «Quando vi consegnai quel testo, ero convinta di assistere a un fallimento generale, ma nell'ascoltare la sua traduzione mi scontrai con un fatto aberrante: che qualcuno, finalmente, si fosse iscritto alla mia facoltà per amore del passato e non perché Lettere costituisca il ripiego di chi ignori quale altra strada seguire.»

Sento ancora in mezzo al petto la scintilla d'orgoglio che quel giorno aveva alzato l'autostima alle stelle.

Crodelia riassetta le carte. È l'ultima lezione del giorno, sette di sera, e si prepara per lasciare definitivamente l'Ateneo per bersi un vin brûlé ai mercatini di Natale.

«Alla luce del percorso da Lei svolto in questo primo anno, mi sento di accogliere la Sua richiesta» mi dice.

Io non ho fatto nessuna richiesta!

«La sua tesi di laurea! Me l'ha chiesto Lei, quel giorno, non ricorda?» Tesi: una parola che dipana le tenebre del dubbio e mi lascia senza fiato. Sta scherzando, vero? «D'ora in poi Lei sarà la mia maturanda e sarà meglio che quanto prima inizi a lavorare al progetto per concludere la triennale.»

Non sta scherzando e non odora di cannabis, né ha l'alito che puzza di sbronza, né un bernoccolo in fronte che lascia presupporre una caduta dal letto. È seria, è dannatamente seria, ma io sono al secondo anno e sarei un'eccezione nell'intero ateneo a laurearmi così in fretta.

"Grillo chiama Nina, vuoi perdere l'occasione?"

«Io... grazie! Ma il regolamento lo permette?»

Lei ovviamente scuote la testa, la chioma platino che sotto il neon dell'aula 007 le proietta un'aureola da Santa.

«Certo che no» mi dice. Se i capelli sembrano quelli di un angelo, lo sguardo di Crodelia sa di Inferno. «Vede, Lei non piace ai contabili dell'università. È così veloce a sostenere gli esami che rischia di saltare il terzo anno. Ma penso che potremmo trovare un accordo, farle sostenere l'esame a luglio così...»

«Luglio da un punto di vista burocratico è il primo mese del terzo anno» taglio corto. Quindi non mi laureerò nel secondo, non sarò un prodigio dell'Ateneo e dell'intera Nomi. «Dovrò ugualmente pagare le tasse.» Già mi immaginavo mamma sventolare le bandierine a furia di "Grande figlia che ci salvi dal lastrico".

Crodelia addolcisce la pillola: «Sì, ma le permetterebbe di seguire i corsi della magistrale già con il primo di settembre».

Il pensiero di essere la prima a iscrivermi alla seconda parte dei miei studi ingigantisce l'ego quanto la rana che si gonfiava per sembrare un bue.

«Grazie, professoressa» le dico. «La ringrazio per la fiducia e prometto che non la deluderò.»

Lei mi liquida con un'occhiata cha sa di "sarà meglio". E alla fine sfila verso l'uscita dell'aula. Ma quando apre la porta, prima di immettersi nell'androne e superare la portineria, si ferma un ultimo istante.

«Adami? È arrivato il momento di dare un taglio a queste riflessioni antropologiche.» Sì, me l'ha già detto. «A costo di chiamare la polizia in prima persona, sappia che se questo individuo la distrarrà, farò in modo che venga radiata da tutti gli atenei del Paese.»

Se ne va, senza lasciarmi il tempo di ribattere, né di comprendere il senso delle sue parole. Questo individuo? Dalla mia posizione vicina alla cattedra non scorgo che un'ombra, proiettata sulla soglia dell'aula.

Deve essere Nicola che mi viene a prendere per una degustazione di prodotti stranieri. Ma il cuore ha iniziato una maratona di battiti e, mentre cammino in direzione della porta, rischia di esplodere da quanto rapida è la frequenza. Perché il grillo frinisce un nome, diverso da Nicola, un individuo che da più di un mese sto cercando di rintracciare: Marco.

Poi, quando muovo il passo definitivo e la porta diventa un oggetto parallelo alla mia figura, un ultimo colpo al cuore, zero battito e linea piatta: Zeno.



*



Sono più veloce di lui. Gli sfreccio a lato e scatto sui talloni verso il bagno, tessera nella macchinetta di riconoscimento e porta chiusa, lo scudo che mi difenderà da lui. Pochi metri, eppure il fiatone preme sui polmoni più di un martello pneumatico. Ma anche se il respiro è pesante, non può coprire il battito dei suoi passi, il pugno che si ostina a picchiettare sulla porta.

«Nina? Sei qui?»

Sono una stupida. Mi sono messa in trappola, in un bagno senza finestre, quando avrei dovuto puntare la porta, chiedere aiuto all'inserviente a fine turno.

«Nina, per favore. Ho bisogno di parlarti, potresti darmi una seconda possibilità?»

Voce che sbatte contro la porta, rimbomba nei timpani, spacca il petto per un cuore impazzito che non riesco a tranquillizzare.

«Nina, per favore. Mi puoi rispondere?»

La porta trema sotto il peso di quella domanda. La immagino infrangersi in mille schegge di legno, come se il fiato di Zeno fosse una potente bufera che spazza via anche gli edifici più solidi.

Arretro e premo la schiena sul muro opposto, frugo nel fianco sinistro per cercare la borsetta e il cellulare.

In classe, grandioso, sulla cattedra.

«Nina, ti prego! Ti devo parlare.»

Gli rispondo con il silenzio, rannicchiata accanto al lavandino, piccola e tremante, incubi che mi scuoto le spalle: non sono al sicuro. Una studentessa potrebbe aprire la porta per andare in bagno; Zeno recuperare una tessera; l'università chiudere e condannarmi a restare qui, assordata dallo scrosciare dell'acqua di un water mezzo rotto.

«Nina, mi voglio solo scusare. Non ti faccio niente, te lo giuro. Non avrei dovuto farti niente, lo so, me ne pento tutti i giorni.» Scuse che mi fanno sanguinare le orecchie. «Non ci dormo la notte, se ci ripenso. Avevo bevuto ed ero incazzato. Non avevo vinto il concorso dell'università, né io né Saul. Un tizio che disegna teschi con scritte amletiche. Lui è stato il vincitore!» Sempre lì andiamo a finire, sempre a parlare di arte. «Ho provato a chiedere a Saul di parlarti, ma non gli ho detto tutto e quando l'ha scoperto...» La voce gli si spezza, un taglio di forbici sminuzza le corde vocali. «Ora nemmeno lui mi parla più, dice che non sono più io.» E ti devasta, vero? «Nina, andiamo su da me? Ti va?»

Da te? In quel posto in cui mi hai picchiata e umiliata, gettata come uno straccio sporco che non sapeva pulire le pareti dalle chiazze di colore in esubero? Ma come cazzo ti pare che mi possa andare?

«No» dico, un sibilo secco.

Picchietto la testa sul muro, perché il rumore di quei colpi intontisca i pensieri. Ma i ricordi sono chiodi e ferro che penetrano le cervella e non basta un'onda di rumore a silenziarli.

«Lo capisco» dice Zeno.

Zeno che mi stringe i polsi, Zeno che mi spinge contro la finestra, Zeno che mi preme il collo, Zeno che mi assesta uno schiaffo nel centro della guancia.

«Lo capisco che non vuoi uscire con me.»

Sento ancora la ruggine del sangue inacidire le papille gustative.

«Però ti prometto che non ti farò del male, non devi avere paura di me.»

Io ti disprezzo e basta, altro che paura. Mi fai più schifo della puzza di urina nell'aria, della ruggine che ho in bocca, dei brandelli di carta igienica e piscio che imbrattano il pavimento bagnato da una perdita del sanitario.

Perfino questa merda è meglio di te.

«Io ne ho bisogno per andare avanti» mi prega. Un singhiozzo gli esce dalle labbra e mi tira una corda dell'anima. «Andiamo a cena o un aperitivo, una cosa veloce.»

Nina, tu non vuoi uscire con lui, non sei una crocerossina con il compito di guarire ogni spirito infelice.

«Ascolta, andiamo nel locale con più gente di Nomi, così non ti può succedere niente. Ti aspetto al K2, va bene?»

Un posto dove la gente si sbevazzerebbe anche la saliva del vicino alcolizzato pur di tracannare qualcosa che faccia grado. Ma effettivamente, con tutta quella marmaglia mezza ubriaca, sarebbe impossibile appartarsi senza dare nell'occhio.

«Ti aspetto lì finché non arrivi» mi ripete. Poi i suoi passi in lontananza.

Resto schiacciata al muro, con lo spigolo del lavandino a un millimetro della testa e il cuore che a ogni respiro cala nell'intensità del battito. Il silenzio toglie dalle braccia il ricordo dei colpi di Zeno, fa scoppiare quella bolla di paura che mi avvolgeva. Sono al sicuro, ma allora perché mi sento penzolare tra due fuochi, da un lato il terrore di parlargli, dall'altro il bisogno di chiudere definitivamente questo capitolo?

Non andare, Nina. Quello che ti ha fatto non può essere perdonato.

Non lo perdono, però...

È la stessa sensazione di quando, alla maturità, ho preso quel 99 su 100. Felicissima del traguardo – felicissima di avere chiuso con Zeno – ma nella mente resta una punta di acido, il fastidio di un voto mancante per arrivare al traguardo.

Così mi sembra che alla storia con Zeno manchi la frase "Addio per sempre" e solo le mie labbra la possono sancire.

Il tragitto università – K2 dura cinque minuti, ma io necessito di un'ora e mezza per arrivare a destinazione. Gli stivaletti continuano a muovere un passo in avanti e dieci indietro e perfino quando scorgono la vetrata del K2 vorrebbero battere in ritirata.

È martedì e il locale è gremito di studenti in cerca di una sbronza. La folla occupa l'intera via, scalmanata gioventù che vomita ai piedi dei lampioni o balla sgraziata sull'asfalto del marciapiede. Oltre a un giovane con i rasta fino al sedere e una ragazza che si mette gli ombrellini degli snack nei capelli, intravedo Zeno, seduto nell'angolo vicino al bagno, con un fascio di luce verde in faccia.

I nostri sguardi si incrociano, lui azzarda un movimento troppo veloce, il balzo con cui un leone si catapulta sulla gazzella. E io vorrei scappare, ma ormai sono qui.

«Vieni dentro?» mi chiede, alla porta.

Musica da discoteca che rimbomba nei timpani, così forte che anche il cuore si sincronizza al tunz tunz della base.

«Solo un minuto» strillo.

«Mi basta» urla Zeno, per coprire il tonfo delle note.

Lascio che rientri per primo e solo quando si siede su uno sgabello mi avvicino, un metro di distanza.

«Una coca cola» ordino al cameriere. «In lattina.»

Non intendo abbassare le difese. E a Zeno basta giusto questa precisazione – in lattina – per capire che non lo perdonerò.

«Non ti perdono» gli dico. «Ma ti ascolto.»

È una gentile concessione che faccio a me, non a lui, perché ho il bisogno di completare il quadro, di capire per quale malvagità della sorte ci sia finita proprio io, nel pugno di Zeno.

«Non è stata colpa di Saul» mi dice. Mi sforzo di leggere il labiale. «Io e lui siamo cresciuti insieme, cugini alla lontana. E ci siamo sempre influenzati, in ogni scelta e desiderio, così che forse io non avrei studiato arte, se non l'avesse studiata lui, o lui non l'avrebbe studiata, se non l'avessi deciso io; ancora non so chi ha fatto il primo passo.»

Un filo di sintonia mi lega a Zeno, al rapporto che ha stretto con Saul. Arretro sullo sgabello per evitare che le sue parole mi intrappolino.

«Da piccolo Saul faceva quel che gli dicevo.» Zeno si concentra sui ricordi, parla di arte, non di me. Allora perché sono qui? «Sono di qualche anno più grande, per questo mi seguiva. Io lo sfidavo, lui si migliorava e poi sfidava me. Mi chiedeva di dipingere e io dipingevo, gli chiedevo di sperimentare e lui sperimentava.»

Cresciuti uno nell'ombra dell'altro, con il timore di restare indietro, di venire superati dall'avversario-amico con il quale si è cresciuti.

"Marco" suggerisce il grillo, solo che il loro binomio ha l'arte e non un diverso sesso.

«Stessa università, stessi concorsi, stili diversi solo per non confonderci» ricorda Saul. E si butta in un resoconto della loro esistenza. Zeno parla, un'ora, forse più, e io sento di conoscerli, di sfiorare l'ossessione per l'arte, la rabbia buttata in un quadro non riuscito, l'orgoglio nell'osservare una tela vincitrice. E sento anche quello spirito di competizione ruggire nel petto, l'incapacità di cedere, di dire "Sei il migliore. Ho perso".

«Poi sei arrivata tu» rivela Zeno. Mi strangolo con la coca-cola, porto il bicchiere davanti al seno per difendermi, per tirarlo, se le sue manacce mi sfiorassero. «Non avere paura» mi prega di nuovo. Si è ricordato di me, ha lasciato il filo dei ricordi per tornare al presente, al motivo che ci porta qui.

Zeno abbassa lo sguardo, una pizzetta spiccicata sul pavimento e un tovagliolo con lo stampo di rossetto.

«Era la prima volta che Saul correva da me. La prima in cui ammetteva di non riuscire. Aveva l'album e pagine e pagine di ritratti cancellati, occhi abbozzati così spenti, labbra dritte che parevano non saper sorridere.»

Ero io, quando crollavo a pezzi per Marco e nemmeno me ne rendevo conto.

«Io non avevo mai visto un viso così vuoto.»

Mi fissa e non sa quanto quell'aggettivo mi ferisca, una parola più appuntita di una freccia scagliata nel petto.

«Saul è sempre stato un prodigio a capire le emozioni, è l'unico pregio per cui lo riconosco migliore di me. Come era possibile che stesse fallendo?»

Perché il problema non era lui, semplice. Ero io e quel grandissimo buco nel centro dello stomaco. E una barriera che avevo costruito per impormi di non essere triste. Un po' come adesso. Anche adesso Marco se ne è andato. Ma ci sono abituata e voglio resistere.

«Ti ho incontrata per caso, al Queen Carneval.» Zeno mette le mani in avanti, nel segno della preghiera. «Non ti ho cercata, lo giuro. È stato il destino, la mia Musa pensavo. E sapevo da sempre che era sbagliato, ma se eri finita sul mio cammino, doveva essere un segno, un'occasione da non sprecare.»

Avrebbe potuto conoscermi normalmente, dirmi di essere un amico di Saul, propormi un ritratto. Assaporo un goccio di Coca Cola per idratare la gola.

«Così hai iniziato a seguirmi» gli dico. E a corteggiarmi.

«Solo conoscendoti avrei potuto capirti e solo capendoti avrei potuto disegnarti» confessa Zeno. E battere Saul, perché alla fine la storia che abbiamo creato era una relazione costruita a tavolino, lui per rivalità, io per ripicca.

«La situazione mi è sfuggita di mano» mi dice Zeno. «Ho iniziato a cercarti, a studiarti di nascosto, poi mi sono presentato e ti ho seguita. Ma anche solo parlarti non era abbastanza. C'era un blocco, un muro che ti difendeva e io non riuscivo a penetrarlo. Così pensavo che facendo l'amore...»

«Sesso» lo correggo. Una maestra inacidita perché l'allievo non ha saputo fare 2 + 2. «Io e te non abbiamo mai fatto l'amore. È sempre stato solo sesso.»

Zeno prende un grande respiro per dare ai polmoni la forza di procedere. Ma la stanza puzza di cannabis e tabacco e la nube di fumo lo costringe a un colpo di tosse. Restiamo in silenzio per un'eternità, avvolti dai fasci dei led che ci fanno sembrare due alieni sbarcati sulla Terra, le uniche creature incapaci di divertirsi e tracannare shottini di tequila, poi Zeno riprende a raccontare, ancora e ancora, fino a farmi perdere il conto del tempo.

«Ti è così difficile chiedermi scusa?» gli domando. Ci ha girato intorno, ma in due ore di conversazione e silenzio non ha mai pronunciato quella parola.

«Perché? Avrebbe senso? Non penso che un "mi di spiace" possa rimettere le cose come stavano.»

Non siamo mai stati niente ed è impossibile riportare una situazione alla sua non esistenza.

«Ho avuta una bella storia un tempo» ammette, evitando ancora una volta la magica parolina di scuse. «Una ragazza che mi ha addirittura convinto a lasciare l'arte. E io l'ho fatto, tradendo me, Saul, la mia Musa. Sono partito con lei e poi un giorno ho scoperto che ero solo un gioco, uno dei tanti.»

Zeno schiocca la lingua sul palato e scuote la testa colorata dal led verde.

«Stavo buttando via la cosa più preziosa che avevo per una donna, capisci? La mia arte? E di donne ce ne sono un'infinità, quindi perché dovevo sacrificare un dono unico per una comune mortale?»

L'orologio dietro la mensola con le bottiglie di birra segna dieci a mezzanotte, l'attimo preciso in cui inizio a capire Zeno.

«Per questo mi hai odiata?» gli chiedo.

Mi hai odiata perché un'altra ti aveva spezzato il cuore?

Zeno lascia una banconota da dieci sul tavolo:

«Ti ho odiata perché ti sei messa tra me e Lei». Lei la sua arte, non la ragazza che amava; Lei perché anche io ho cercato di allontanarlo, chiedendogli di cancellare quei quadri che rovinavano la mia dignità. E io a quei quadri ho dato fuoco. Forse Zeno mi odia ancora, mi odierebbe, se lo sapesse.

«Credo che la serata sia finita» gli dico. «Credo che tu non sai farmi delle scuse, che io non le voglio accettare e che tutti e due dovremmo buttarci questa storia alle spalle e non vederci mai più per il resto dei nostri giorni.»

Lo crede anche lui, voleva questo incontro solo per chiudere il capitolo "Nina", sbiadendo quella macchia di colpa che gli imbrattava la coscienza. Lo studio un'ultima volta e intravedo la cicatrice di due punti nella curva del naso, in mezzo agli occhi.

Marco.

"Però lui è più mal ridotto, Nanà."

«Chissà perché tutti quelli che non sono Marco e che vengono a letto con me si ritrovano con il naso rotto» commento.

«Non so» dice Zeno. Ignora che Stefano, ancor prima di lui, si è preso un bel gancio in mezzo alla faccia. «Però non mi dispiace. Mi dona un tono artistico. Van Gogh non aveva un orecchio. Io posso rinunciare al mio profilo.»

Con una battuta e una mano allungata decide di dirmi addio, un contatto che rifiuto: non voglio ricordare il tatto sgradevole della sua pelle. Zeno si rassegna, l'orologio segna mezzanotte e tre, il cellulare vibra nella tasca. Lo estraggo dal fodero per leggere il messaggio. È Biagio. I nervi si tendono, tiranti di un ponte in caduta, poi un crack, tre parole:

Grazie e scusa.

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